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I versi di Biagio Guerrera si distinguono per una duplice spinta o movimento, a prima vista, antitetici: da un lato, il lettore si imbatte in una scrittura dal marcato richiamo all’oralità: si avverte la sensazione precisa di un forte ascendenza di matrice orale, quasi pre-verbale, che sembra affondare e regredire alle scaturigini della poesia dialettale, cantata e raccontata. Proprio gli aspetti o registri di canto e di racconto si impongono, attraverso le recursività e i ritorni sonori, le figure di ripetizione, le catene allitteranti e anafore, versi, distici o strofe dislocate alla maniera di refrain di canzoni. D’altra parte, accanto a una lingua di chiara matrice orale, il lettore è chiamato a un confronto serrato, quasi un affronto, con una lingua di estrazione inventiva, in grado di coniare neologismi, e colta (con recuperi filologici di lemmi desueti e culti), e con gli slittamenti in avanti di una sintassi complessa, tutta una architettura ritmico prosodica e di costruzione dei periodi ampi e debordanti che spingono la phoné oltre l’alveo linguistico di riferimento, ingenerando un urto contrastivo, quasi un agonismo, con l’originario bacino linguistico, o con l’impianto naturalistico di partenza. Come in una cultura linguistica e letteraria stratificata, più livelli linguistici si susseguono, stratigrafandosi come ere geologiche su pareti di roccia, o come variazioni minime di tonalità su penta-grammi musicali:

Allupacchiatu

Tuttu chiddu ca ni cangia
Tuttu chiddu ca n’imprena
Tuttu chiddu ca ni jungi
Tuttu chiddu ca n’adduma
Tuttu chiddu ca ni scica
Tuttu chiddu ca ni futti
Tuttu chiddu ca n’abbrazza
Tuttu chiddu ca n’agghiutti
[…]
Stordito – Tutto quello che ci cambia / Tutto quello che c’impregna / Tutto quello che ci unisce / Tutto quello che ci accende // Tutto quello che ci strappa / tutto quello che ci fotte / Tutto quello che ci abbraccia / Tutto quello che ci inghiotte // […]

Così, il lettore si ritrova di fronte a testi acustici, che fungono da casse di risonanza ritmica e vocale che richiama modularità proprie della tradizione orale e dei cantastorie, ma anche, a più livelli, richiama un coacervo di complessità dato dalla sovrapposizione di scritture millenarie (Amàri sembra spesso richiamare la particolare vocazione alla enumeratio e alla genealogia delle scritture bibliche) e contemporanee (la risonanza più inattesa è per certa poesia anglo-americana, iterativa e narrativa: Walt Whitman, Edward Eslin Cummings, Edgar Lee Masters, fino alle più contemporanee linee dell’oggettivismo sperimentale). Ma il prelievo testuale appena proposto, introduce un elemento fondamentale per chiarire, anche dal punto di vista dei temi e dei motivi, l’operazione di Guerrera: al centro dei versi proposti, domina la scena la particella pronominale ni (ci, derivato da noi).
Un noi indistinto, estensibile a un plurale che si svuota di valenze ideologiche e si risemantizza di cariche antropologiche: è un ci-noi umanissimo, condivisibile e riferibile all’umano, al campo umano.
L’ultima spiaggia di un io plurale o collettivo, l’ultima ipotesi di una condizione condivisa:

Venerdì santu
[…]
Iu, tu, nuautri
Semu n’assenza ca
fui ca torna
ca sfui
c’avvampa je svapura
Sulu n’arresta
Sapiri ca u chiantu jè simenza
Sapennu c’amuri jè na liggi cchiù granni
Mangiatimi u cori
Mangiatimi u cori
Venerdì santo – […] Io tu noi / siamo un’assenza che fugge / che torna / che sfugge / che avvampa e svapora // Solo ci resta / Sapere che il pianto è seme / Sapendo che amore è una legge più grande // Mangia-temi il cuore / Mangiatemi il cuore

A chiarire lo spazio in cui si muove la particella pronominale ni (ci, da noi e nuautri) è l’enunciato di per sé programmatico del testo: Amàri, infinito del verbo, ma anche plurale possibile di sostantivo. A colmare lo spazio dei testi, nella ampia avventura di dispersione cartografata nella segnalazione diaristica delle date e dei luoghi in cui i testi sono scritti, oppure di esplosione testuale, è la proprietà degli uomini: la possibilità di declinare l’amare e l’amore, di verificarne efficacia e durata nella vita feriale e nei moti (psichici e metastorici) di empietà ed efferatezza.

Scrivu
[…]
Scrivu ccu Miciu Tempiu je so futtuti
ccu Pasolini nta puti ari via Paternò
ccu Melu Vassallu ca ni chiama r’un
cuttigghiu du Tunniceddu ra Playa
scrivu cca tirannia ra miseria
scrivu cchi me vagabbunnaggi ri pueta èrrimu
scrivu cch’i strati nfucati ra me città
scrivu j’a raggia cula ru me cori sunanti

Scrivo – […] Scrivo con Micio Tempio e le sue fottute / con Pasolini nella taverna di via Paternò / con Melo Vassallo che ci chiama da un cortile / del Tondicello della Playa // scrivo con la tirannia della miseria / scrivo con i miei vagabondaggi di poeta errante / scrivo con le strade infuocate della mia città / scrivo e la rabbia gronda dal mio cuore sonante

Così, quasi a costellazione, sono elencati numi e nomi di una storia, di un destino, di scrittura e di ethos: Domenico Tempio, l’iniziatore con Giovanni Meli, tra sette e Ottocento, della tradizione dialettale siciliana; Pasolini, l’esempio forse più alto, Carmelo Vassallo, il drammaturgo di riferimento. Proprio la memoria pasoliniana, nella magniloquenza del ‘volgar’ eloquio’, volta in chiave barocca da Guerrera, come ho avuto modo di scrivere altrove, indicizza tutta la coscienza e il moto di empietà che c’è nel mondo di relazione della natura e degli uomini. Stigmatizza, da contemporaneo cantastorie, la narrazione icastica della natura violenta, o incivile, delle relazioni, fissando nell’infanzia il termine di non ritorno, e nei chiodi, o nella pietra, i termini della vita e della coscienza storica immedicabili: «Pietra che taglia / Pietra che fuma che brucia / Pietra che mi ha tagliato / Pietra fissa là dove stava» (Petra, Pietra)

Biagio Guerrera è nato nel 1965 a Catania, città in cui vive. Ha studiato canto con Michiko Hirayama, e svolge attività di operatore culturale ed editoriale in campo musicale, teatrale e poetico. Esordisce con Idda (Il Girasole, Valverde 1997), opera presentata in anteprima nel 1992 a Santarcangelo dei Teatri. Seguono: Cori niura spacca cielu (Mesogea, Messina 2009), e Amàri (Mesogea, Messina 2014). Con il gruppo musicale Dounia e il poeta tunisino Moncef Ghachem pubblica Dalle sponde del mare bianco (Mesogea, Messina 2003); con M. Ghachem e la pocket Poetry Orchestra, firma Quelli che bruciano la frontiera (Folkstudio ethnosuoni, 2011).

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