[…] Ogni falange trema
un silenzio sbranato si sbilancia
non dice non scrive ma cretta
la punta delle dita […]

[…] Straborda anice dai nostri corpi
la terra nasconde trabocchetti
ci prepariamo a fare
quello che non possiamo

[…] Si rovescia il cielo
scende la terra
Deponiamo questo carico

 

È uscito qualche settimana fa per Arcipelago Itaca, l’ultimo lavoro del poeta toscano Giulio Maffii: Angina d’amour.

Il titolo è significativo e circoscrive con sufficiente chiarezza il tema affrontato: il male d’amore. L’angina, nella letteratura medica, designa infatti il soffocamento, l’angoscia, l’affanno, l’afflizione. E per i francesi l’angina d’amour è proprio il dolore toracico preinfartuale che può verificarsi nei minuti successivi alla consumazione di un rapporto sessuale. Un’immagine forte dunque che rimanda alla combinazione tra godimento carnale e sensazione di oblio che segue l’espulsione della forza vitale.

Un’immagine forte che, al pari di quella che i francesi utilizzano per indicare l’orgasmo femminile, la petite mort, ci pone subito davanti a un interrogativo di fondo obbligandoci a deporre ogni maschera di perbenismo e ipocrisia: l’amore, anche quando è realizzato e appagante, riesce a sottrarsi per ciò solo al dolore e alla sofferenza? E ancora, la metafora dell’angina d’amour e della petite mort non racchiudono forse il senso ultimo dell’esistenza amorosa, nella quale morte e nascita sono legate a doppio filo e indissolubilmente destinate a succedersi?

Nel tentativo di offrire delle risposte credibili, Maffii ci prende per mano e ci racconta l’amore nelle sue varie sfaccettature senza mai cedere il passo a sentimentalismi e smancerie. È un racconto onesto, schietto e coraggioso il suo, un racconto che non nasconde zone d’ombra, cortocircuiti e blackout.

A distanza di quattro anni dalla precedente raccolta Misinabì (Marco Saya Edizioni 2014), di cui in parte raccoglie il testimone, Angina d’amour è un lavoro maturo, adulto, consapevole, metapoetico, nel quale si apprezzano diversi omaggi a Thomas S. Eliot, proprio nel centenario dalla prima pubblicazione di quel capolavoro che è Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock.

Si tratta di omaggi trasversali che non si esauriscono nella costruzione sintattica dei versi, nell’uso delle numerose interrogative, nel richiamo a alcuni personaggi topoi cari all’autore americano (Michelangelo, su tutti), nel massiccio ricorso al correlativo oggettivo ma che si appalesano piuttosto nella condivisione di uno scenario esistenziale immanente: l’uomo raccontato da Maffii è un uomo per il quale l’amore non è mai pienamente possibile e realizzabile, un uomo per il quale il fallimento personale e una certa condizione di trascendenza sono epiloghi già scritti.

Al pari del Mr Prufrock eliotiano, l’uomo raccontato è un uomo che avverte il peso del male di vivere e che, pur rielaborandolo e superandone il relativo trauma, è costretto a ammettere la propria soccombenza, la grande truffa iniziale delle etichette perché in fondo la sentenza è sempre stata freudolenta e la felicità, come recita l’epigrafe di Cosimo Ortesta posta in apertura di raccolta, non guarisce ma sposta soltanto il dolore.

Una raccolta poetica che si offre come epifania del profondo, come un’espressione condensata di un’intuizione eccezionalmente ricca della realtà umana – per usare le parole di Angelo Tonelli che ritroviamo in una delle introduzioni italiane a La terra desolata.

Una raccolta in cui la presa di distanza dal passato è intrecciata all’incertezza per il futuro, nella vigenza di un tempo presente dai contorni  sfuggevoli e evanescenti  (siamo dentro luoghi guasti nella disaffezione carnale;  il nostro corpo è fatto d’acqua/evapora sempre al primo dolore; abitiamoci, vivere insieme è avere/ il dono dell’invisibilità).

Una raccolta fatta di rovine, frantumi, frammenti, rielaborazioni, rinascite e fotogrammi passati al vaglio di quella impietosa lente di ingrandimento che solo lo scorrere del tempo regala (dimentica di me le assenze/che non furono mai presenze/pietà dei vecchi/ pietà del tempo che ci trucca; c’è silenzio nelle ferite/nei giardini chiusi al tramonto/ c’è silenzio dove la morte non arriva/ e l’inverno sostituisce un altro inverno; le stagioni passano veloci/ a volte si potrebbero fermare/ così per educazione/ e prendere un thè insieme).

Una raccolta strutturalmente complessa: sei sezioni (Venti angine d’amore, Una coazione disperata, La mimica del legno [al cui interno è compresa la tripartizione: Mordacitas, Tempus (regit actum?) e Hostis], Momentanea abiura, Il fallimento del lutto e La direzione del sangue), per un totale di ottantatrè poesie, dove le soluzioni metriche e timbriche, la multitonalità della voce narrante, le critiche neanche troppo velate alla società moderna e l’intertestualità degli spaccati di vita offerti diventano metafora variamente modulata della vita stessa.

Una raccolta in cui la vita e la distanza dalla vita, la contemplazione della realtà fenomenica e il distacco da sè si rivelano l’unica via di salvezza offerta all’uomo moderno chiamato a un lungo percorso di elaborazione del lutto durante il quale imparerà a sue spese che la vita è solo un po’ più sorella della morte – sempre citando Angelo Tonelli.

E se è vero che nel funzionare in base al principio dell’amore a ogni costo, l’uomo da sempre cerca di negare il doloroso fallimento delle relazioni che lo riguardano, l’insegnamento finale che se ne ricava è ancora una volta di matrice eliotiana, ciò che avrebbe potuto essere/ è astrazione che rimane/ possibilità perpetua/ solo nel mondo della speculazione (così Burnt Norton ne I Quattro quartetti).

 
dalla sezione Venti angine d’amour
*
Mi chiudi con le mani il cappotto
non avevo mai visto tanto amore
luccicarmi in fronte o nei paraggi
Poi lo abbiamo fatto davvero l’amore
un amore lungo uno scalpiccio ventricolare
quello dei resuscitati degli eccitati vinti
Non possediamo niente a parte il nome
e la carne fossile di qualche ricordo
Questa poesia non l’ho scritta io
l’ho trovata per caso e decifrata
sopra il tuo petto
*
a D.
Sillaba mancante del mio nome
fa che il tuo sangue cacci il demone
e prosciughi il dolore che ci bagna
le sopracciglia le unghie le affinità
Sapessi che lame sono queste poesie
Sbriciolo la polvere per farne costellazione
Fai un laccio alle finestre
guarda e richiudi la cerniera lampo
sulla cucina sui piatti
sulle nostre vite di ceramica
Dimentica di me le assenze
che non furono mai presenze
Pietà dei vecchi
pietà del tempo che ci trucca
 
dalla sezione  Una coazione disperata
*
Né tu né io
abbiamo avuto vita propria
e poi l’ardore la crescita
il sacrificio
ciò che resta è mosso
e nutre di tempo
quelli che annusano terra ed evitano semi
-siamo materia di nutrizione-
le mammelle degli attimi
la ricomposta azione
nel seno senza un corpo
C’è silenzio nei pronomi
sotto la bouganville
-C’è silenzio nelle ferite-
nei giardini chiusi al tramonto
c’è silenzio dove la morte non arriva
e l’inverno sostituisce un altro inverno
 
dalla sezione  Mordacitas
*
La tua testa contiene tutto il mondo
i sogni piangono come treni che s’incrociano
Ogni amore conosce la propria fine
nel momento del primo bacio
Nei licheni d’ottobre
può essere che il brivido
abbia di nuovo un cuore
 
dalla sezione Tempus (regit actum?)
*
Hai pensato a come sarai da vecchio
una tomaia consunta e aperta ai venti
Ti è costato più il peccato o il sacrificio?
il misticismo delle rughe e le differenze
L’alternanza del tragico e sublime
un congiuntivo soffiato di sfuggita
e se tu fossi o sei
alito di morto o appoggio tonale
in questa misura smisurata
-quindi né grande né piccola-
una pietra focaia
 
dalla sezione Hostis
*
Quanto inutili le spine ai bordi
di un cerchio pieno di crepacuore
Ogni giorno una salvezza provvisoria
la notte non spaventa niente
gli esistenti alla fine perdono
cose che non gli appartengono più
 
dalla sezione Momentanea abiura
*
Ho strappato
ogni sguardo di lutto
Liberami da me
dal gioioso fallimento
la leggerezza della luce
a testa china non d’inchiostro
l’aurora cola l’oro nella notte
 
dalla sezione  Il fallimento del lutto
*
C’è una crepa nella tua immagine
chi abbiamo perso viene ricordato
senza imperfezioni e mancanze
la tua morte è il mio assassinio
mi hai abbandonato
nel fallimento del lutto
 
dalla sezione La direzione del sangue
*
C’è un fracasso di morti rotti
un ingombro da scrostare
segui la direzione del sangue
che non torna indietro
Dimmi hai mai sentito il rumore
di un cuore che si vaporizza?
E non saranno i rimanenti vivi
ad eccedere in equilibrio
Si può nascondere ben poco
è come un rasoio bilama la felicità
Le cose inghiottono tutto
resettano memorie
accumuli e le azioni
sembra che il tempo non sia altro che la parola fine
– dio se non sei mai stato me non esisti
 

Giulio Maffii è docente, scrittore e critico. Ha diretto la collana di poesia contemporanea per le Edizioni Il Foglio. È stato uno dei referenti italiani del festival mondiale di poesia Palabra en el mundo. È redattore della testata giornalistica Carteggi Letterari. Ha all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche di carattere storico-antropologico e letterarie tra cui L’umiltà del poco (Akkuaria 2010) e L’odore amaro delle felci (Ed. della Meridiana 2012) con cui ha vinto il premio Sandro Penna.
Nel 2008 esce la raccolta di racconti La caduta del tempo (Il Foglio 2008). Nel 2013 esce il saggio breve Le mucche non leggono Montale (Marco Saya Edizioni) e nel 2014, dopo aver vinto il Premio Internazionale Castelfiorentino con Arische rasse – Novella di guerra, ha pubblicato Misinabì (Marco Saya Edizioni) sui miti della morte degli Indios Taino. Sempre nel 2014 un suo saggio L’Io cantore e narrante dagli aedi ai poeti domenicali: orazion picciola sulla parabola dell’epos è stato pubblicato da Bonanno Editore nel volume Con gli occhi di Giano. Narrazioni e unità delle scienza umane, a cura dell’antropologo Paolo Chiozzi, di cui Maffii è stato allievo e collaboratore dopo la specializzazione conseguita presso il MHD di Santo Domingo.
Nel 2015 ha visto la luce il poema storico Il ballo delle riluttanti (Lamantica Edizioni) e nel 2016 Giusto un tarlo sulla trave (Marco Saya Edizioni). Nel 2017, un suo racconto scritto a quattro mani con Domizia Maffii dal titolo Il contatore di Poveglia, è stato inserito nella raccolta Deaths in Venice per Carteggi Letterari Le edizioni.
É stato pubblicato su diverse riviste e i suoi lavori sono stati tradotti in spagnolo, inglese e romeno.
Fa parte dell’associazione Pallaio per gli studi antropologici e multidisciplinari di Firenze.

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