«Non è il vento a svestire i boschi / né la discesa delle foglie a indorare le colline. / Da segrete zone celesti / nascono i salmi delle stelle» affermava Sergej Aleksandrovič Esenin*, poeta naturalista ed estatico, profondamente ispirato dalla lucentezza del creato. C’è questo trasporto, ma declinato in una prospettiva più antica e animistica, nel canto di Luca Baldoni in Anno naturale. Tommaso Lisa, che accompagna in prefazione, accenna con accortezza a un tempo «astratto e armillare»: allude certamente alla dimensione in disparte del poeta in creazione, ma altresì richiama immagini planetarie, in cui il globo sia corpo celeste scandito da meridiani, paralleli, tropici ed eclittiche, e l’armilla ne segni preziosamente l’equatore, gli equinozi, il coluro solstiziale; il piano d’orizzonte, lo zenit, il circolo delle ore. Perché il poemetto, benché si elevi da un sito di recinzione esiguo, adeso alla modernità, ha tutti i requisiti del luogo planetario, ma, ancor di più, cosmico, dove accadono eventi forestali, biochimici, astronomici ed esistenziali rilevanti, di portata gracile o colossale, come avviene in qualsiasi territorio benedetto dall’attenzione.
In Anno naturale c’è la materia nel tempo, con le sue proiezioni speculative e liriche nel pensiero: lo sguardo di Baldoni raccoglie e accumula minute notifiche dal paesaggio, strutturandole in un’erudizione che divarica il passo, tra tassonomie binomiali e coordinate astrofisiche, ma poi spoglia ogni propria vanità, per divenire contemplazione: ridando alla luce l’informazione in conoscenza, la conoscenza in saggezza, e risalendo così la china entropica che Thomas Stearns Eliot ci segnalava, quella che tanto affligge i nostri giorni.
Tra le prime cose che il poeta annota, ecco l’eterno, mai ascoltato, annuncio del tremendo nel sublime, la continua germinazione di catastrofe che balena in ogni tenerezza del tangibile: «ecco il cosmico bacio tra due stelle binarie /rotanti in doppio passo così ravvicinate, / appena dodici milioni di chilometri / lo spazio che separa le due future labbra, / […] che oltre un certo punto determina scenari / di vaste apocalissi: o supernova schianta / in buchi abissali, o lampi gamma a getti / trafiggeranno i poli del cosmo in espansione».
Costitutivo dell’umano, esser raggiunti dai segnali con millenni di ritardo, per un’immensità di tempo e spazio che ci fa inermi e al margine, dormienti in apparati percettivi inidonei all’efficace osservare, all’aderente udire; percorso da intuizioni inafferrabili, Homo sapiens diviene facilmente orfano a sé stesso, parcellare e incompiuto davanti a fenomeni maestosi in movimento, di cui spesso avverte solo lo struggente divenire, con visuale ottenebrata da quel reticolo disordinato, cristallo non periodico, che è la gabbia dell’io.
Ripartire allora dalla magia di un germoglio, se pur domestico e incerto nella cattività del balcone, possente anche se esangue di stentata clorofilla; sapersi fare immobili al cospetto di scenari stellati, e vivere la danza delle stagioni accettandone il ciclico alternarsi: privi di resistenza ma in ascolto, tentar di captare quella metafisica cifrata, accuratamente silenziosa, di cui ogni fremito biologico è profondamente intriso.
Eraclito sapeva, il fiume muta e noi stessi mutiamo, perché ogni istante è emesso in peculiare e irripetibile unicità, come i ricami che dormono nella neve; ma, a un tempo, ribadisce e ripete in veste cangiante il senso eterno, sempre coerente a sé stesso.
C’è la sapienza degli antichi in questo poemetto esplicitamente inscritto nella tradizione della philosophia naturalis (come ancora Lisa, in prefazione), un osservare l’entità fisica in essenza e trasformazione che richiama le cosmogonie della scuola di Mileto, le teorie atomiste ed elementali di Democrito e Epicuro, celebrati insieme ad altri phares – Anassimandro, Eraclito, Leonardo, Giordano Bruno – in una sezione dedicata della silloge; filosofia in poesia, e viceversa: questa postura meditativa che attraversa i secoli venandosi di indagine scientifica e di ascesa lirica; e ancora fascinazioni astronomiche, botaniche, entomologiche, anemografiche, meteorologiche: un Perí physeos che prende a soggetto le più infinitesime faccende biologiche, le più neglette corporeità, facendone soggetto poetico ed ermeneutico; attraversando la conoscenza, lasciare indenne la meraviglia.
Ma in Anno naturale c’è anche l’attitudine tutta umana – emanazione inevitabile della creatura pensante – di erigere uno stabile esistere sui moti ondulatori di tempo e destino, conformandosi operosamente al rollio delle stagioni: un Érga kaì Hēmérai esiodiano: «Vino castagne olio – la triade, la sequenza / nei mesi dell’autunno che spremono la terra / degli ultimi suoi frutti raccolti nel tepore – / segnacoli corposi dell’arco di stagione, / sul tavolo arrivati riscaldano le sere»; una natura che gonfia ritmicamente il petto, e col ruotare delle correnti e dei climi, con l’inclinarsi degli astri sull’orizzonte, con il proprio imperituro pulsare in massa ed energia, regola e dispone la navigazione, la semina, la vendemmia, e, in generale, il rapporto con la terra, nelle sue valenze ctonie, le plutoniche prosperità sotterranee; sullo sfondo un eterno che freme immobile, nel fluire perenne delle effemeridi, nel ribadire in ogni fine un nuovo inizio.
Una prospettiva presocratica rinnovata, che non indulge a strazi romantici, né presume il concluso sapere, ma osserva: lo splendore di Baldoni è nell’estasi che non domanda, nella creatura che assiste al proprio scivolare in esistenza, con assenso. Pur nel piccolo balcone, architettura omologante e recinzione all’essere, la vita attecchisce e si mostra eretta, regale; finanche nel pallore della segregazione cittadina, il Pothus si mostra ardito, generoso, colmo nel dono: «sei pianta tropicale, innata profusione, / fisiologia estroflessa di liana sempreverde / con rapide radici che premono nell’aria, / nell’acqua e nella terra conquistano dimora, / se fossi liberata da lacci artificiali / ovunque riusciresti a spingere il tuo spazio/ […] l’osservo nel crearsi di foglie cuoriformi, / dal velo verdechiaro che appare su uno stelo / si gonfia leggermente nel giro di due giorni».
Sopra i tetti, le albe; le costellazioni inclinate dai millenni dell’«anno platonico», presenze stellari dal «celeste trepidare che svirgola nel tempo», fuggitive ai nostri tenaci schemi zodiacali; accadimenti astrali che stillano nel tempo umano con sbandamenti minimi, sommessi ma ineludibili.
Sul capo, gli stormi che agiscono con intelligenze periferiche a noi oscure; e dentro la vita, in ogni sua forma, quel codice genetico in continua ristampa, quel ripetere in silenzio il conio primigenio, la perizia buia che nelle interminate stagioni ci custodisce, avendo cura del diverso e dell’uguale. Così Mario Luzi: «Ed i giorni rinascono dai giorni / l’uno dall’altro, perdita ed inizio, / cenere e seme, identità nel cielo»** ; ma qui, in Baldoni, si avverte meno il bemolle dell’impermanenza, e lo struggimento dell’elegia cede il passo a un intatto stupore.
A tal proposito non è da trascurare, in quest’opera, l’osservazione della forma: nella misura metrica regolare, nel verso alessandrino (doppio settenario con cesura) il dettato veste un ritmo fascinoso che, nel susseguirsi degli emistichi, trasmette un senso di ordine naturale trapuntato alle cose, e riverbera dolcemente in equilibrio interiore. Arduo il non radicare, sembra dirci il poeta, ma ritrovare il sublime stempera il tremendo, e forse qualcosa dovremmo tentare: benché lontani dalla pervicacia del germoglio, dalla maestria periferica e sintonica degli stormi, dall’aderenza assoluta che spilla ogni creatura animale alla propria natura, l’essere umano può fare della propria coscienza una risorsa, affacciandosi allo sterminato con fare attentivo; portando a ogni aurora l’esser sorpresi, innamorati del cosmo, risolti in sorriso.

* Sergej Aleksandrovič Esenin, Poesie, a cura di Curzia Ferrari (La vita felice 2014)
** Mario Luzi, Tutte le poesie (Garzanti 1988)

da Anno naturale (Passigli Editori 2021)

Genoma assoluto

Se lo stoma informa le cellule guardiane
mezzelune accostate sul dorso della foglia
di chiudersi o di aprirsi secondo contrazione
metabolica, e i ricettori sensoriali
del pipistrello sanno tradurre cacofonie
di stimoli sonori in sicure mappature,
e solo un ricettore s’incastra in proteina
per riconoscimento, lettura di segnale

– righe nucleotidiche di fitta informazione
senza chimiche frasi sarebbe vita inerte,
struttura non saprebbe nel mondo cosa fare –

lo splendido genoma è dio diffusamente
in ciascuna cellula copiato da sé stesso,
tavola onnipresente delle scolpite leggi
ogni volta le stesse, fitta consultazione

sprofondare in memoria biochimico-ancestrale,
su base di lettura risposta compitare
agire nell’ambiente su input testuale

il testo è assoluto errori non prevede,
se storto va qualcosa lo devi a mutazione:

l’inceppo più banale, fallo di trascrizione.

Cause e visione

Da poco l’estate si è chinata su sé stessa,
con un brivido nuovo l’accolgo ogni mattina
aprendo le persiane all’aria densa e fresca:

indugia umidità non sciolta dal calore,
strati di vapori fumiganti alle colline,
velature sui campi, boscaglia siepi e fossi,
più in alto si compone l’abbozzo cristallino
di cime e di castella, spiccato ogni dettaglio
esaltato dall’inclinazione della luce

così si stende il tempo, un drappo mattutino,
volgendo le stagioni mentre dimora il mondo,

tutto per lo scarto d’inclinazione planare,
sapremmo solo, se l’asse fosse ortogonale,
in binaria alternanza fissati notte e giorno
senza sfumature o mutazioni stagionali

– con le ritmiche forme, nelle luci e i colori
esiti riflessi di più alte angolazioni:
visioni di materia in vaste connessioni.

Intelligenza degli stormi

Su bassa nuvolaglia volteggiano gli stormi,
contro grigie folate un folto di creature
miriadi pulsanti nel passo di stagione,

avvinto scorrimento il cui contorno vaga,
si allarga e poi condensa, eppure mai si spezza
mantiene una coerenza, la presa della forma
coi singoli concordi in armoniosa spinta;

progetti di ricerca, teoria dei molti occhi,
genetici algoritmi e modelli digitali
indagano stupiti il vostro stare insieme

dove arduo è capire, come tutto funzioni
così mirabilmente in assenza di un centro
che detti direzione, al posto di catene
la stigmergia si afferma, reazione singolare
che impronti al tuo vicino, a sua volta avvisato
dai moti di chi ha intorno, aggiusta il suo volere
e il brivido propaga, dialettica tensione
che in microaggiornamenti sé stessa riorganizza,
in ogni suo recesso s’illumina d’azione

è rete che raccoglie molteplice concordia
la vasta connessione di questa intelligenza
globale e ugualitaria, diffusa in ogni dove,

per l’uomo l’illusione: remota la sapienza.

Luca Baldoni (1973) è nato a Napoli, ma è cresciuto a Firenze, e si è formato soprattutto all’estero, tra Dublino, Londra, Berlino e la Grecia. Ha insegnato Letteratura italiana alle università di Londra e Oxford ed è stato ricercatore presso l’Accademia Britannica a Roma. Ha insegnato alle università di Londra e Oxford e alla James Madison University di Firenze. Instancabile viaggiatore, ha collaborato con l’associazione Trekking Italia ideando e conducendo viaggi a piedi in varie località greche e dell’Italia meridionale, e ha partecipato a un progetto di cooperazione per la riapertura dell’antica rete di sentieri di Itaca. Proprio a quest’isola tra mito e realtà ha dedicato il libro Itaca. L’isola dalla schiena di drago (Exòrma 2019). Ha pubblicato le raccolte di poesia Sensi diversi (LietoColle 2005 – Premio Camaiore Opera prima), Territori d’oltremare (La Meridiana 2008 – Premio Sandro Penna per l’inedito) e Sale del ricordo (LietoColle 2017). Ha curato Le parole tra gli uomini. Antologia di poesia gay italiana del Novecento al presente (Robin 2012) di cui è di recente apparsa una terza edizione ampliata, ed è stato membro del comitato editoriale di The Florentine Literary Review.

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