L’uso della parola nel tuo mestiere di giornalista e conduttrice radiofonica e l’uso della parola nella tua poesia. In che rapporto stanno?

Ultimamente ho pensato molto a questo nesso. Come giornalista devo usare un linguaggio preciso, misurato, corretto, fluido e comprensibile. Capace di restituire nella maniera più oggettiva possibile i dati di realtà, i fatti. Individuare i punti rilevanti di una situazione e su quelli formulare domande appropriate, che corrispondano a ciò che il pubblico vuole conoscere. Come poeta ho più libertà, ma il rigore è comunque da rispettare. La poesia è visione: se si cede però ad una esagerata folla di immagini, si rischia di perdere il lettore, di non dare spazio alla sua capacità immaginifica. Alla radio, per esempio, funziona lo stesso meccanismo. Il fascino di questo mezzo, per come ancora è nell’immaginario dei più, sta esattamente nella sua natura evocativa, non saturante, nella sua leggerezza. Pochi elementi basici e un potenziale enorme di combinazioni.
Io ho avuto l’opportunità, data anche una certa dose di innata versatilità, di sperimentare diversi generi espressivi (dal documentario alle radiocronache, dal servizio per il notiziario al talk, dalle dirette sul campo alle lunghe interviste di approfondimento). Ho toccato con mano la duttilità della parola. La sua freschezza e la sua fragilità. Riuscire nel taglio che essa può produrre – dove si annidano le questioni oscure, problematiche, irrisolte – è il vero traguardo.
Il giornalismo mette a fuoco la realtà; la parola poetica fa la stessa cosa ma si concede più azzardi, accelerazioni, contrasti. Ciò che resta fondamentale per entrambe le dimensioni è il ritmo (se i versi li leggi ad alta voce, te ne accorgi meglio) e l’ascolto. L’ascolto degli altri, di sé. Senza questo approccio si tradisce, si entra nel gioco della falsità. E poi non dimentichiamo che quando in radio ti relazioni con un ospite, devi necessariamente modularti in base alle sue risposte, che possono anche sparigliarti le carte. Così accade in qualche misura nella ricerca, sia pure quella poetica, esplorazione di un ignoto.

Raccontaci il percorso maturato negli ultimi sei anni e che ti ha portato a questa seconda raccolta.

Quando uscì il libro d’esordio Le stesse parole (Lietocolle), sentivo che dovevo uscire allo scoperto, che un nocciolo acuminato poteva affiorare. Ero tuttavia consapevole di qualche ingenuità, di una poesia in parte acerba che ancora avrebbe potuto prendere direzioni molteplici, forse troppo impressionistica e manchevole di una cucitura. Mi stava comunque a cuore una poesia ‘feriale’, domestica, dal respiro spesso trattenuto. Nel frattempo ho continuato a osservare – da cosa si muove in fondo la ricerca poetica? – cercando di non perdermi i dettagli apparentemente insignificanti del vivere.
Per una concomitanza di curiosità, ho portato in scena in un piccolo teatro “Al limite di me”, un esperimento: una partitura con poesie già edite ed alcuni frammenti inediti (che avrebbero poi preso un’altra forma) per provare ad accorciare la distanza con il lettore, percepire una risposta emotiva attorno al dire e all’esserci in presenza. Pur essendo stata una brevissima incursione, mi ha regalato la bellezza di una coralità, derivante dagli attori e dai musicisti coinvolti, del tutto inaspettata. Come innescasse la possibilità di una generatività nuova.
L’intimità con il verso nudo, a ferri scoperti con sé e basta, continuava, sotto traccia. L’incontro e il confronto con Franca Mancinelli, sentire di potersi ritrovare in certe fenditure, in certi modi di guardare i rapporti tra cose, persone, pezzi di mondo, mi ha incoraggiato a perseverare. Trovare le parole e lavorare molto, abbandonando il troppo, le zavorre psichiche e aggettivali. Soprattutto, sono stati anni di esercizio per la costruzione di qualcosa che chiamiamo ‘libro’. Un lavoro appassionante perché molto ha a che fare con l’artigianato, questo è noto. La necessità di uno spazio e di una circolazione si è concretizzata nel progetto editoriale di Andrea Cati. Lo voglio ringraziare per come ancora continua a seguire, con garbo, intelligenza e intraprendenza, i suoi autori.
La città bucata è un procedere ‘in levare’, che è a un tempo la potatura del superfluo ma anche il risveglio di relazioni. Ci si arriva – sempre come un principiante – attraverso lo scavo sotterraneo, l’amarezza dei malintesi, i corpo a corpo, i giri a vuoto, i fiuti dei cani, le tele degli alberi e quelle di lenzuoli stirati con cura. C’è una terra che odora, sanguina, partorisce, rimbomba, si ridisegna per un nuovo stare, canta.

Ci sono dei temi che la tua esperienza professionale ti porta ad affrontare anche in poesia?

Da giornalista non posso trascurare di dare voce a chi non ce l’ha. Sento che è doveroso, l’ho sempre vissuto come un impegno deontologico. Non è sempre facile, è una sfida continua. Ogni volta che mi è stato possibile, sono montata sul mio motorino e ho perlustrato angoli sconosciuti, metropolitani e non. Ho intercettato giovani senza bussola ma anche capaci di occhi grandi; vecchi inabili a nominare i luoghi ma con una voce limpida nel cuore; bambini che non sanno più giocare; bambini che inventano lingue di continuo. Sono entrata dove si accompagna la malattia psichiatrica, ho raccontato il bullismo, la tutela dell’ambiente, la lotta per la legalità, il lavoro precario, le missioni spaziali e quelle religiose. Tanta spiritualità. E i migranti: quasi ogni giorno la cronaca offre lo spunto per parlarne. In tutto ciò, e molto altro ancora, al netto dei dati, dei dibattiti politici, dei toni spesso urlati, mi interessa il volto che porta i segni di una storia personale e di una comunità. Oltre i facili stereotipi.
Ora, è inevitabile che tutta questa esposizione e azione di spugna mi interpelli al punto che in altra lingua, quella della poesia, appunto, alle volte io senta l’urgenza di dire. Senza alcuno scopo ‘civile’ di per sé, ma semplicemente perché la vita ti pizzica, sconcerta, meraviglia. Con la poesia posso contare su un canale in più per provare a dire facce di questo prisma.
C’è per esempio una sezione de La città bucata che ho intitolato Del voi: una serie di fotogrammi tratti proprio dagli attraversamenti di territori familiari e geografici. Qui c’è il ragazzino figlio di rom che gioca a nascondino e nasconde se stesso; un padre colto nella stratificazione delle sue distanze cognitive; altri vecchi che pregando si riconoscono scoprendosi meno soli; gruppi di prostitute di campagna a pochi passi dalle processioni sacre di paese. Sono rivelazioni. Scene che si fissano pur nella loro ordinarietà. Il poeta assorbe, apre porte e finestre perché ha la facoltà di usare i sensi tutti, deve farlo. Allora il punto non è tanto se filtra – esplicita oppure no, nella poesia – una sottolineatura circa il valore del meticciato o l’invito a prendersi cura di un ‘tu’ che fa fatica, minacciato, o che approvi o no i respingimenti. Il punto è che lo sguardo del poeta – mentre sta pienamente in mezzo ai consorzi dell’agire umano e animale – mi pare debba necessariamente essere laterale, marginale, periferico. Nondimeno, paradossalmente, in virtù di questo decentramento, può ambire a centrare, con parola affilata, l’architettura stupefacente del mondo che ci è dato vivere.

da La città bucata (Interno Poesia, 2018)

1.
Due tubi incandescenti di stufa elettrica
soccorso per candele sudate.
Cristo pantocrator, dal catino della cupola,
vince con questo vecchio
che non ha più denti, né fiato,
né le erre vibranti della lingua,
né carne, né lana per l’inverno.
I santi tutti, dipinti, per coperta.

2.
Dovemmo rallentare l’auto
su strada interpoderale,
dovemmo immischiarci
a processione in corso
col tabernacolo caldo
sotto il manto dorato.
Lontano, sotto un olmo,
le puttane riavvolgevano la luna
nei collant.

3.
Vi hanno amputato le vanghe
e capovolto i trattori
asciugato al midollo
piante grasse, crocifisse.
Né ornamento, né difesa.
Eppure la feria d’agosto
scendete dai campi
a spartire vino.
Cingetemi di sacco
espugnate magnanimi
gli ultimi avamposti della beatitudine.

Antonella Palermo, nata a Campobasso nel 1973. Giornalista professionista, vive e lavora a Roma come conduttrice radiofonica. Si occupa prevalentemente di rassegna stampa e approfondimenti dell’attualità italiana e internazionale. Nel 2014 ha ideato e condotto il ciclo ‘Nove novecento’ su altrettanti poeti italiani, con il poeta e critico Daniele Piccini. Nel 2016 vince la IV edizione del Premio giornalistico “Alzheimer: informare per conoscere – Cura, Ricerca, Assistenza”. L’interesse per gli spazi periferici della città, è maturato sotto forma di sette reportages radiofonici in alcune aree dell’hinterland romano.
L’esordio in poesia risale al 2012 con la raccolta Le stesse parole (LietoColle); nel 2014 ha messo in scena lo spettacolo, di cui è autrice, “Al limite di me. Poesia e musica sulla scena, al Teatro Argot Studio di Roma.
Nel maggio 2018 pubblica La città bucata (Interno Poesia), prefazione di Franca Mancinelli. Presentato in anteprima a Ritratti di Poesia (2018). Partecipa nel programma di Bookcity, a Milano (2018).

 

Primo Piano è una rubrica condotta da Gabriele Galloni, che ci porta a scoprire, grazie a interviste, recensioni e saggi, le attività di alcuni tra i protagonisti più attivi della vita intellettuale e poetica.

(Visited 626 times, 1 visits today)