Scurau (Arcipelago itaca 2021) è la narrazione di un mondo chiuso in sé stesso. Solitamente la lettura di un libro di poesia presenta punti di apertura, deviazioni che consentono al lettore di compiere scelte interpretative filtrate dal proprio gusto o stato emotivo; qui non accade nulla di ciò, c’è una direzione tracciata dall’autore che si fa immutabile. Questo è il senso di un travaglio nella materia che è però progressivo, poiché prima di arrivare alla durezza minerale bisogna setacciare tutti gli elementi, vedere dove sia possibile andare più a fondo. Il movimento principale del libro è, in effetti, quello dello scavo, come a cercare nevroticamente un’origine (origine del male, del buio) che resta preclusa, da sempre, a tutti quelli che cercano. Emerge quindi l’afflato materialista di Nibali, un muro anti-ontologico dove va a sbattere, si disperde, l’energia del discorso. Dove, allora, questo Scurau si insidia, in quali elementi? Libro di un isolano, eppure il mare, l’acqua in genere, così raramente sono stati distanti dagli orizzonti meridionali; raramente essa appare, ma scorre via velocemente, come un’immobilità che tesse il suo mito a debita distanza, mentre il regista di Scurau s’intende solo di ciò che vi è di più residuale e scartato. «Da giorni il Simeto si muove in sobbalzi, si ingrossa, la notte il fiume non ci lascia dormire. Nessuno di noi ne parla, ma tutti abbiamo sentito, tutti temiamo per i nostri petti» (p. 28). Basta allora sentire da lontano, non avvicinarsi troppo, non serve stimolare il proprio istinto di annegamento, non ancora. Prima c’è da fare i conti con il resto, con la Storia che (scrive Tommaso di Dio nella sua generosa Postfazione) è prima di tutto resoconto del linguaggio, anzi dei linguaggi, come cioè noi esseri umani cerchiamo di dare senso a tutto ciò che si dimostra essere più grande, troppo grande per le nostre scarse capacità di comprendere. E appunto, se qui non appare il minimo senso di verticalità c’è anzi tutto il disgusto per le ciarlatanerie che fanno il presepio meridionale, come il prete infuocato e dagli «occhi di fuori» (p. 54), inutile Caronte che non traghetta nell’eterno ma nel caduco vivente. A chi poco s’intende di immaginario meridionale questa apparirà una scelta di poco conto, ma si tratta in realtà di un sacrificio temerario, perché vuol dire privarsi di un repertorio di luci e suoni che possono fare la fortuna di qualunque penna beneducata. Qui invece scurau ogni cosa, si è rimasti al buio e non c’è possibilità per la ‘bella’ poesia.

La penna è sì ben affilata ma solo per farne un coltello, per girovagare tra le visceri di uomini e animali, pur sapendo di non trovarci nulla; se il meccanismo non si può aggiustare bisogna polverizzarlo, denigrarlo, ‘arriminarci’ dentro, verbo siciliano che, insieme a quello che dà nome al libro, da solo spiega meglio di qualunque commento la poetica di Nibali. Il macellaio che fa il verso non lascia trasparire alcuna pietà, e privi di ogni patetismo sono i bozzetti infantili su cui spesso si sofferma: si tratta di ritratti di bambine condannate a essere macinate dal sociale, di cui Nibali fa emergere la sua natura perversa di Grande Mostro. Dall’acqua alla carne non si trova nulla, e i residui organici di cui si fa continuamente menzione ripetono la trama ossessiva di un ciclo di scarto e decomposizione, segnale della persistenza della storietta umana. Artaud: «Là dove si sente puzza di merda/ si sente l’essere» (Per farla finita col giudizio di Dio), ma non solo, poiché anche gli elementi minerali appaiono depredati e manomessi, così l’uomo appone la sua firma ovunque; dunque per Nibali è il possesso del mondo la più grave delle colpe umane: «Hanno scritto/ l’asterisma su una roccia con più incavi, messo/ le coppelle delle Pleiadi, le vie che sapevamo/ su una pietra a Chialamberto, primo bosco» (p. 43). La sezione finale è infatti preceduta da un annuncio che suona come una vendetta, «la violazione avvenga sulla carne» (p. 47), e da qui in poi è tutto un prendere le misure sui punti di taglio a cui sottoporre la bestia così a lungo osservata.

I personaggi di queste ultime pagine in siciliano (scansato è il paesaggio, ma mai la lingua) sono dei condannati a morte, di una morte rimandata perché non è una faccenda che spetta all’autore: saranno i loro movimenti meccanici, insensati e spesso disturbanti, a consumarli nel tempo. Sono i versi più oscuri, un romanzo di (mal)formazione che resta sempre lucidissimo: ci sono i moniti di una voce (ultima voce?) sotterranea («La lingua sporca di un vecchio devi immaginarti, e di affondarci/ tutto dentro con i piedi», p. 55) che sembra suggerire le prossime mosse («La bambina qui davanti […] Forse vuole essere/ scannata, come l’asina tartassata», p. 56) o forse annuncia le prossime scene di distruzione e morte («Ridono, puzzano di vera gioia, poi vogliono morire, p. 58). Il finale si fa allora paradossale con l’ultimo testo, un vero e proprio tutorial per ‘scannare’ un coniglio: poesia al massimo della crudeltà, allo stesso tempo lucida e allucinata, dove la morte per mano altrui emerge con una chiarezza che lascia storditi. Non è un coniglio, è solo carne, come potrebbe essere quella di un altro uomo. Capiamo solo alla fine di questo testo che l’immaginario tessuto da Nibali non è un semplice rovistare nel mistero della fine, che farebbe di lui già un poeta vecchio. Bisogna ripercorrere il libro a rovescio, dalla fine, per trovare non fuori dall’uomo ma dentro l’uomo l’origine della paura. A dirlo è la voce di un bambino indifeso come quel coniglio, come tutte le bestie di Scurau, un bambino che quando si fa poesia commuove chiunque legga per la sua purezza, la sua trasparenza immacolata (tutti gli altri, gli adulti, sono i corrotti): «U generi umanu. Ju n’haiu scantu» (‘Il genere umano. Io ne ho paura’, p. 60).

 

 

da Scurau (Arcipelago Itaca 2021; illustrazioni di Ilaria Mai, postfazione di Tommaso di Dio)

 

Ultima voce chiama il sangue.

Campo cruento gli uomini, altro sangue per le donne:
è il giorno. Tutti sono convocati, vecchi e nuovi
viventi aspettano un gesto per sbranarsi. Il rivolo
aspettano, verticale sullo sterno, il morituri stabilito
dalla nascita, nella nascita futura rivelato. È tempo
adesso per il sesso tra gli attori, gambe nude, lividi
dai piedi fino all’ano serpi, piaghe fili lo sfondo fuori
anche case, molte, come in cerca vergognosa della luce.
Altro mai, nemmeno nella voce, nella voce ultima

*

fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre dell’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.
In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero

*

Scurau, u senti stu scuru ca ni pigghia? Statti ccà. Resta,
è longa a nuttata, e non chianciri, basta. I casi ‘i spunnaru.
‘I spunnau n’ventu chinu e’ jorna. Trasi e talìa a me vesti,
a morsi a morsi ppi ttia, ppi quannu nascisti e ppi to patri
ca u chiamai tutt’u tempu e non m’arrispunniu ancora.

Veni cà, non chianciri. Intra’a chiesa parravanu ro nfernu,
u parrinu s’infucau e avìa l’occh’i fora; ppi lu scantu
t’incaccau l’ogghiu supr’a testa. Sulu cà, pri thri ghiorna,
lucìu a festa.

Ha fatto buio, la senti questa oscurità che ci prende? Rimani qui. Resta/ la notte è lunga, e non piangere, basta. Hanno sfondato le case./ Le ha sfondate un vento pieno di giorni. Entra e guarda la mia veste, fatta a brani per te, quando sei nato e per tuo padre/ che ho chiamato tutto il tempo e non ha risposto ancora.// Vieni qua, non piangere. Dentro la chiesa parlavano dell’inferno, il prete si è infuocato e aveva gli occhi di fuori; per lo spavento/ ti ha premuto l’olio sulla testa. Solo qui, per tre giorni,/ si è illuminata la festa.

*

U generi umanu. Ju n’haiu scantu.
Nuatri semu pronti ppa tunnara
e fossi nuddu rumpìu l’acqualoru,
fici chiaja a so matri.

Il genere umano. Io ne ho paura./ Noi siamo pronti per il massacro/ e forse nessuno ha rotto la placenta,/ ha ferito la madre.

*

Pi scannari n’cunigghiu, prima cosa
cauru cauru l’ha pigghiari r’intra a cunigghiera,
vacci a manu raputa, china china, come preiannu
scatta u cunigghiu masculu, chiddu chiù rossu, ha tastari
boni i spaddi, poi ci pappìi a tringa pi viriri su è rassu.
Nisciutu ra cunigghiera ha trasiri intra a cucina, cà ha teniri
bonu l’armaluzzu e iddu s’abbessa, ‘ncravacca i iammitti.
A cuzzata c’arrivari sutta i ricchi, accussì s’alluppìa, duna
l’arma a diu. No mentri na putenti cutiddata nto sternu,
d’unni cola u sangu, annunca a carni s’annirichisci.

P’a pelli, tagghia pattennu rei cosci e u tagghiu arriva
fino ai cannarozza, ri cà ietta buredda e stommacu, poi
votulu e tagghia sutta a cura. Ora posa u cuteddu, teni
i lati e duci strascina da cosetta i sita. T’arresta
ntei manu u scantu, n’aranata senza scoccia.

 

Per scannare un coniglio, per prima cosa/ devi prenderlo da dentro la conigliera/ vacci a mano aperta, bene aperta, come pregando/ scegli il coniglio maschio, quello più grosso, devi tastare/ bene le spalle, poi palpeggia la schiena per vedere se è grasso./ Uscito dalla conigliera devi entrare in cucina, qui tieni/ bene l’animaletto e lui si sistema, stende le zampe./ il colpo deve arrivare sotto le orecchie, così si tramortisce,/ dà l’anima a dio. Nel frattempo una forte coltellata nello sterno,/ da dove colerà il sangue, altrimenti la carne s’annerisce.// Per la pelle, taglia partendo dalle cosce e il taglio deve arrivare/ alla gola, da qui butta budella e stomaco, poi/ giralo e taglia sotto la coda. Ora posa il coltello, tieni/ i lati e dolcemente sfila quella calza di seta. Ti rimane/ nelle mani lo spavento, una melagrana senza scorza.

 

 

 

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