La raccolta di poesie Mal bianco (Giuliano Ladolfi 2019) di Silvia Giacomini è stata scelta come parte del percorso di Poetiche fenomenologiche per il particolare rapporto che la voce poetante intrattiene con la corporeità e con l’esperienza sensoriale. Rapporto che si discosta dagli esempi previamente analizzati, tutti diversi – come abbiamo rilevato – nella loro peculiarità. Prima però di volgerci verso tale aspetto che in effetti ci interessa più da vicino, mi accingo a dare un inquadramento generale dell’opera e poi passerò ad aspetti più compiutamente fenomenologici.

Mal bianco è una raccolta articolata in quattro sezioni (Memorie del mare, Nella stanza nera, Dismisura d’amore, Anime rotte, tutte precedute da una breve prosa lirica che spiega e lega insieme tutti i componimenti della sezione) e, lungo queste sezioni, traccia il discontinuo cammino di un’anima verso il mal bianco: i.e. la consapevolezza della brutale linearità della vicenda umana (in opposizione alle memorie dolci dell’infanzia), la consapevolezza del valore effimero di insane ed insensate passioni e quella del dolore proprio e altrui. Una consapevolezza scheggiata di sangue che necessita – proprio per questo motivo – di apposite anestesie e di scendere a patti sempre più spesso con il reale e con la lucidità con cui lo si dovrebbe guardare.

Nella raccolta, soprattutto nella prima parte, ben si intrecciano tessere di un mosaico di mare e luce. Il mare – descritto con occhi che sembrano affacciarsi su un paesaggio mediterraneo («il canto di rivolta delle mareggiate di ponente, / l’odore dei fondali rovesciati a riva, / il silenzio delle pinete, il sudore lucente / sui sentieri in salita, i boschi di felci», in Se davvero esiste un farmaco) – si mischia ad una luce di redenzione, ma entrambi gli elementi, quello acqueo e quello igneo, lungi dall’essere neutrali componenti di un panorama naturale, sono animati da profonde ambiguità. Per un verso, il mare, infatti, per quanto si colmi della forza dei ricordi di infanzia, con le sue «braccia e braccia venate di bianco» (spuma d’onda che alta galoppa, si spezza e s’infrange) diventa metafora di un corpo in sfinimento per il logorio del continuo quotidiano. Esso si estende e si distende per tutta la spiaggia trovando per breve attimo requie, ma immantinente è inghiottito verso l’interno dalla risacca, dai suoi «moti di tormento»: è il travaglio del mare, il travaglio di una psiche in preda al rimescolamento, ai flussi e riflussi d’esistenza («Anche il mare è stanco. / Guarda, sembra ansia di dormire / quando tenta all’infinito di tendere a riva / braccia e braccia venate di bianco / di aggrapparsi alle alghe lucenti come ferri. / Ma non ce la fa / ad allungarsi fermo sulla sabbia / a stendersi con tutto il corpo per riposare – / una forza contraria lo trattiene / e lo risucchia verso i propri moti di tormento», in Anche il mare è stanco). Cosa sfinisce? Cosa disfa? Cosa logora? «Forse è il sonno interrotto», dice la voce poetante, «forse il sangue di figli non nati», forse «la baldoria zitta delle altalene nei giardini del passato» o «l’inconsistenza» di un sé che si cerca «lungo i solchi bui / lasciati nella sabbia d’avorio», sulla spiaggia davanti al mare dove – memorie del mare per l‘appunto – da piccoli si faceva «la pista per le biglie / ma dopo si cominciava insieme il gioco, / trascinatore e trascinato, / […] nel tendere / alla fossa del traguardo» (cf. Pesa la luce del sole sulle dita). In tale contesto, la luce è «rivelazione clandestina» (cf. Pesa la luce del sole sulle dita), «corona di spine», «colpi di frusta sulla schiena dei caduti», «profondi tagli fino al cuore» (cf. Il sole è una corona di spine). Come bifronte è il mare (immagine del logorio quotidiano e, nel contempo, sede eletta dei ricordi più intimi e sensati), bifronte è la luce che in esso s’effonde. Dolorosa eppure rischiarante, rievoca coi suoi gementi raggi un «primitivo sereno», «il paradiso» di «ieri», l’«imperfetta assenza» (in Scivolano mattine dimenticate) della fanciullezza custodita, nello scolorare del tempo, da caducità di corpo e sensi, che – paragonate classicamente alla fragilità di foglie cadenti – presto avviano allo sfarsi e alla rovina e, quindi, all’orroroso nulla («Finché dura questo corpo / resto per custodire le mie ceneri – / i domani sognati / dalla bambina col grembiule azzurro / nella foto appesa al muro, / una collezione di tramonti,/ lo scintillio della pirite alla cala dell’Allume, / l’immensità racchiusa in certi attimi / quando asmatica sbranavo il respiro delle pinete / per poi gesticolare senza braccia / sulle pagine rimaste nude», in La vita tutta è versata). Mi sembra che nel formarsi di questo discorso poetico, incentrato sui ricordi del mare, sull’infanzia e sul suo essere rifugio e quasi consolazione, alito di vita perduta, convergano due influenze di lezioni ben assimilate e rintracciabili. Anzitutto, come evidenziato nella nota introduttiva a cura di Matteo Mario Vecchio, si intravvedono nei testi reminiscenze di Antonia Pozzi, sicuramente per le atmosfere d’intima inquietudine, per il tema della fanciullezza (penso, ad esempio, a Notturno invernale) e per la levità di architetture verbali dal «minimo peso» come le definì Montale. L’altro polo di confronto, che è una pietra miliare, sembra essere lo stesso Montale di Ossi di seppia, opera in cui il mare e l’infanzia coesistono, sono il riflesso l’uno dell’altra. In Ossi di seppia, il mare è, infatti, il momento felice dell’incanto, beatitudine panica dell’infanzia (l’osso di seppia che gaiamente galleggia sul mare) di contro all’accettazione progressiva, come da «romanzo di formazione», dell’esilio da quello stesso mare in cui prima ci si beava e che comporta l’essere sbattuto sulla spiaggia come detrito, come relitto: è l’accettazione della terra e della liminalità e marginalità della condizione umana (è d’altronde frequente in Giacomini l’opposizione mare vs terra, così come l’uso di termini appartenenti a questo orizzonte concettuale: orlo, margine, limite etc.).

Come da «romanzo di formazione», in effetti, Giacomini ci propone un viaggio che lentamente abbandona l’infanzia e le memorie del mare e si configura come un itinerario di riflessione (talvolta disorganico e non ben coeso nel suo essere anche un macro-testo) che passa per la stanza nera (visioni e quadri di vita post mortem in cui si affastellano figure e luoghi familiari, ricordi di depressione e psicofarmaci), che si interroga sul raggiungimento, mancato, di una misura sia nell’amore sia nel dolore, sia per sé (di ciò assurge a simbolo la figura dell’Ofelia shakespeariana, memore – nella sua rappresentazione poetica – di smodate intemperanze passionali e dei tratti dolci e siderali delle raffigurazioni della pittura preraffaelita) che per gli altri (Anime rotte, l’ultima sezione, è una lunga galleria di «vite dirottate, fallite per il mondo, come pini stortati dal vento» e narra amori e dolori di anime deragliate: il ragazzo marchiato come autistico, quello bollato come schizofrenico, quella definita borderline, etc.). Nel susseguirsi, nell‘accavallarsi dei componimenti, tra le loro pieghe gradualmente si fa strada e s’irrobustisce quello che la voce poetante definisce come il «mal bianco» ed esso prende le più svariate forme: la forma di cristalli di neve, il fardello invernale che fa soffrire gli abeti, la forma dei «fogli bianchi in pezzi» o quella di una «crisalide bianca» che rigenera nella morte, ma soprattutto il mal bianco assume le vesti di uno squalo bianco «fiutatore di ferite» che «assale senza scampo». Esso è il male della consapevolezza e, per un verso, si pone come un equilibrio centrato che tenta di depotenziare il reale e la sua grandezza, anche a prezzo di una diminutio in termini di lucidità, e che tanto sa di neo-atarassìa, intrisa, tuttavia, di sangue e sofferenza di fronte alla compassionevole insensatezza e alla nuda vacuità degli «affari del mondo» («Il male della consapevolezza è un crepacuore // squalo bianco fiutatore di ferite / assale senza scampo // il male della consapevolezza / è un guardiano appestato di onestà / (…) – un precipizio al centro // esilio che guarda agli affari del mondo / come forse i morti lo guardano / ma con il sanguigno contorcersi dei vivi», in C’è una spina nell’occhio). Per altro verso, però, tale equilibrio, tale consapevolezza e baricentro a fatica conquistato ha, al contempo, l’inevitabile effetto di frenare ed arrestare le passioni, il che equivale a dire frenare ed arrestare la vita in boccio («Lo so qual è il mio male. / Si chiama mal bianco: / assale le rose ancora in boccio / e le taglia fuori dal fiorire», in Lo so qual è il mio male). Questo mi pare l’apice della klimax ascensionale di Mal bianco, ed è ancora una volta bifronte.

Quello che ci colpisce più da vicino nella raccolta è il rapporto tra soggetto e un paesaggio che si fa – alla maniera teorizzata da Merleau-Ponty – carne (termine che denota il coinvolgimento reciproco e pre-razionale tra soggetto percipiente e le cose percepite) e tra soggetto e percezione sensoriale. Ma andiamo con ordine. Di certo, la poesia, o una certa sua parte, citando Ermanno Krumm che a sua volta cita R. M. Rilke, «nasce dirimpetto al paesaggio – gegenüber – come una bestia muta che alzi gli occhi e guardi tranquilla, attraverso di noi (Oder dass ein Tier, /ein stummes, aufschaut, ruhig durch uns und durch)»: quanto ci propone Giacomini nasce dall’interazione tra corpo e paesaggio, i.e. il paesaggio si fa corpo e il corpo paesaggio in un coinvolgimento reciproco immediato e spontaneo, per l‘appunto pre-razionale. Non è possibile qui riferire tutte le occorrenze, ma possiamo dire che, ad esempio, non solo il mare si fa corpo antropomorfizzandosi (lo abbiamo visto poc’anzi), alla stessa stregua di ogni altro elemento naturale del paesaggio (lo «scheletro di vento», la luce del mattino «pura come un osso», i raggi del sole sono «tagli fino al cuore» etc.), ma il tentativo del corpo di fondersi panicamente col paesaggio («Guardo le nuvole sopra i tetti e infurio / di non poterle stringere al grembo», in Le resurrezioni bugiarde) riesce ed esso entra anche dentro il corpo, lo invade, l’inonda, scalcia contro il petto dal di dentro («E non poter spiegare / aver tutta la terra alle spalle, / il mare il mio mare tutto / nella conchiglia delle palpebre chiuse, / l’insistenza dell’azzurro / che scalcia contro il petto», in Il sole è una corona di spine). D’altro canto, in Mal bianco gioca un ruolo rilevante la percezione sensoriale ed, effettivamente, una poetica per essere fenomenologica deve far perno su un‘esperienza estetica forte i cui contenuti sono derivati dal mondo esterno e non sono meramente stati mentali, se non quelli, per citare un saggio su poesia e percezione di Antonio Porta, che derivano dal confronto ex post con le percezioni provate durante la concezione del componimento. Questo confronto ex post è il momento in cui si tenta di «dare ordine, di sistemare» le «percezioni» esperite quando davanti agli occhi – e agli altri sensi – tutto è «una girandola di oggetti e figure» (le parole sono di Cesare Viviani). Anzitutto, trovo che in Mal bianco prenda forma una particolare percezione sensoriale intercorsiva, per cui un’esperienza estetica in divenire rievoca tempi e spazi altri, rievoca cioè un’altra esperienza estetica e la rievoca in maniera concentrica, abbiamo così una percezione sensoriale dentro l’altra («Scivolano mattine dimenticate / in ogni slabbrata asola dei sensi. / Questo cielo mi commuove / perché mi riporta / non so quale altro cielo / e così il vento – è in un altro vento / il suo incantamento triste», in Scivolano mattine dimenticate, oppure ancora «Accadono strane cose / oltre la soglia del patire massimo. / Accade, aprendo la finestra, /di sentire l’odore di un’aria / che è a cinquecento chilometri da qui. / E se socchiudo gli occhi / sopra i tetti delle case / vedo luccicare in tempesta creste d’acqua. / (…) Come si fa a entrare in un ricordo / e rimanerci per sempre?», in Accadono strane cose). I sensi, come si vede, sono coinvolti in primo piano e si legano per di più a filo doppio con quell’idea summenzionata di dolorosa consapevolezza: essere consapevoli significa anche anestetizzare la realtà, in un certo qual modo intorpidire i sensi con cui la si guarda, giacché la piena lucidità fa il paio con la follia («Quando impazzirò / sentirò scivolare via / le pareti rosse che mi bruceranno i sensi / e illimitata, amata dall’orchestra delle forze, / corteggiata dalla miscela dei venti / camminerò all’indietro verso il mare, / a larghi morsi nel vuoto», in Quando impazzirò). In questo stato di cose i sensi, di conseguenza, permangono sì, ma – ed è una particolarità della poetica fenomenologica di Giacomini – sono «slabbrati», «sfuocati», talvolta il soggetto si «licenzia dai colori», talvolta si ritrae desolato per la progressiva «cancellazione dei sensi». Nei ricordi, questa ipotrofia sensoriale è ancora più evidente, perché il nitore delle percezioni passate e accumulatesi nel tempo coincide ancora una volta con qualcosa di intollerabile, stavolta con l’intollerabilità dell’assenza («Ti vedo così nitida… / ma il viso ho paura di metterlo a fuoco: / più lo renderò presente in me più intollerabile / sarà la sua assenza nell’aria», in Saremmo andati al parco tutti e tre insieme).

Come ha evidenziato Davide Castiglione in una sua nota concernente lo stato delle poetiche fenomenologiche di oggi, una poetica che voglia aderire alla realtà fenomenica deve «ritornare con intensità a quello che ha davvero esperito», rifuggendo da «immagini descrittive di default», ovvero espressioni che, lungi dal contrassegnare e marchiare una propria ed unica esperienza sensoriale, sono ormai schematizzate e abusate. Giacomini sembra porsi proprio in questa direzione, giacché oltre ad imbastire un discorso lirico dotato di un intreccio lieve ma preciso di parole, quasi come ad intessere un fitto dialogo con il lettore (e in questo senso si spiega il notevole impiego del verso lungo), ella soprattutto rifugge dalla sciatteria linguistica e da espressioni sedimentate e trite, associando estrosamente i sintagmi all’interno del verso. Giacomini imprime, inoltre, ai suoi versi certi effetti musicali, lavorando – v’è da dire – poco su rime, consonanze e assonanze, ma concentrandosi per lo più sulle figure di ripetizione sia di parole (notevoli le anafore, talora con poliptoto, e prezioso l’impiego dell’anadiplosi) sia di suoni (frequente è l’uso di nessi allitterativi densamente intrecciati, «si disfi in sfinimento», «orgia nera dei pensieri», «spersa rovente sete di carezze», etc.). Tali figure di ripetizione hanno il compito non solo di insistere fonicamente sul verso marcando vivamente i ricordi di esperienze veramente vissute, ma – insieme a sententiae di carattere gnomico disseminate per tutta la raccolta – anche di fare, più in generale, da memento per ricordarci – e ritorniamo così al tema iniziale e, per così dire, al fulcro della raccolta – quanto male faccia, in termini di rapporto con la realtà e con i sensi, l’equilibrio della consapevolezza finalmente, faticosamente, (s)fortunatamente sopraggiunto («Guarire – fare un passo indietro, / stringere un patto con la coscienza: / taci, fingi, riportami al presente, / ai giorni ingannati dalle piccole attese quotidiane, / cavami dal costato gran parte del reale. / Guarire – il mare abisso della consapevolezza si ritrae. Guarire – dipingersi sugli occhi un paesaggio e non / [veder più altro. / Guarire – dimettersi dal ruolo di specchio carnale, / [implorante lucidità. / Guarire – rinunciare alla verità per consumarsi in / [santa pace», in Guarire – fare un passo indietro).

da Mal bianco (Giuliano Ladolfi 2019)

dalla sezione Memorie del mare

Anche il mare è stanco.
Guarda, sembra ansia di dormire
quando tenta all’infinito di tendere a riva
braccia e braccia venate di bianco
di aggrapparsi alle alghe lucenti come ferri.
Ma non ce la fa
ad allungarsi fermo sulla sabbia
a stendersi con tutto il corpo per riposare
– una forza contraria lo trattiene
e lo risucchia verso i propri moti di tormento.

Stanotte il mare
mi ha teso una mano dalle dita già dissolte
perché lo trascinassi via con me…

Non sa il mare di essere inafferrabile
di non poter essere aiutato da nessuno?

*

Pesa la luce del sole sulle dita
ora che sollevo la sinistra all’altezza del vetro,
pesa come una rivelazione clandestina
che non so ricevere.

Forse è il sonno interrotto a sfiancarmi.
Forse il sangue dei figli non nati,
i giorni di cui nessuno mi chiede,
la baldoria zitta delle altalene nei giardini del passato
attorno a questo letto verso sera

o l’inconsistenza di me
quando torcendomi mi cerco
lungo i solchi bui
lasciati nella sabbia d’avorio
dal mio corpo –
un torturatore senza volto
lo trascina a fare cerchi dentro cerchi
e nulla è in potere alle mie mani

sulla spiaggia così
facevamo la pista per le biglie
ma dopo si cominciava insieme il gioco,
trascinatore e trascinato,
alla pari nello schioccare l’unghia sulla leggerezza
dei mondi, nel tendere
alla fossa del traguardo.

*

Il sole è una corona di spine.

Il fermento alcolico della primavera
questa luce impazzita che strappa il nodo e scioglie
lunghissime maniche nell’erba

sono colpi di frusta sulla schiena dei caduti –
profondi tagli fino al cuore.
Il cuore straniero di chi non ha mai ballato
con la gente nelle vie distratte del sabato
ma percorso a stento l’affossato margine
della domanda impossibile.

E non poter spiegare
aver tutta la terra alle spalle,
il mare il mio mare tutto
nella conchiglia delle palpebre chiuse,
l’insistenza dell’azzurro
che scalcia contro il petto,
il frutto degli anni
stracci di un rogo senza spettatori,
tutta la terra possibile,
i giardini, i borghi, le leccete,
alle spalle, e il precipizio in faccia…

e la rabbia di questo amore per la luce.

Ho paura

di non trovare più mani
per aggrapparmi all’orlo,
mani premute lievi sulle mie
che non hanno più la forza di stringere…

Se l’orlo può fiorire ancora.

*

La vita tutta è versata
mare perso
nella clessidra ferma.
Finché dura questo corpo
resto per custodire le mie ceneri –
i domani sognati dalla bambina col grembiule azzurro
nella foto appesa al muro,
una collezione di tramonti,
lo scintillio della pirite alla cala dell’Allume,
l’immensità racchiusa in certi attimi
quando asmatica sbranavo il respiro delle pinete
per poi gesticolare senza braccia
sulle pagine rimaste nude.

Se resto è per la paura
che tutto ciò che è stato
(i volti cari
i momenti di bene)
morirebbe con me.

*

dalla sezione Dismisura d‘amore

C’è una spina nell’occhio
che impedisce all’occhio di chiudersi.

Il male della consapevolezza è un crepacuore

squalo bianco fiutatore di ferite
assale senza scampo
il male della consapevolezza
è un guardiano appestato di onestà
un occhio ferito trascinato via lontano
dalle correnti fuggiasche
ricacciato giù dove
disperatamente si è congiunti all’essenziale
– un precipizio al centro

esilio che guarda agli affari del mondo
come forse i morti lo guardano
ma con il sanguigno contorcersi dei vivi.

*

Lo so qual è il mio male.
Si chiama mal bianco:
assale le rose ancora in boccio
e le taglia fuori dal fiorire.
Succede quando troppo precoce
una pupilla sul fondo della vasca
gola di luce nera
divora tutta l’acqua –
l’acqua calda che mi avrebbe assopita
nel correre semplice dei fiumi.

 

Silvia Giacomini ha pubblicato le raccolte di poesie La sirena discorde (Edizione Ape 2012), Il sangue del cielo (Italic Pequod 2014), La tentazione di essere vento (La vita felice 2014), Mal Bianco (Giuliano Ladolfi 2019) e le raccolte di racconti Pozzanghere e bagliori e La metamorfosi delle cose (Progetto Cultura 2011 e 2015). Attrice e autrice di testi, ha curato la drammaturgia e la messa in scena di spettacoli teatrali per il Civico Planetario di Milano, per il F.A.I (Villa Necchi Campiglio), per L’Accademia dei Poeti Erranti di Buccinasco. Ha tenuto mostre personali di incisioni a Varese e Milano e una mostra fotografica inserita nel Festival della Fotografia Etica di Lodi. Conduce laboratori di teatro creativo nell’ambito del disagio psichico.

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