CONFINE DONNA – I PUNTATA

Anticipazione di “Confini” Annuario 2017

Per partecipare alla campagna di finanziamento per la stampa dell’annuario di poesia Confini, clicca qui, riceverai la tua copia direttamente a casa.

 

Il tuo viaggio è stato lungo, e hai superato molti confini. Qual è quello che ti ha segnata di più, cambiandoti, quello dal quale hai sentito di non poter fare ritorno?

Il confine che ho avvertito come più importante è quello che ho superato mentre ero ancora in Iran. L’ultima volta che mi hanno portata alla polizia ho subito un interrogatorio. Il poliziotto che mi faceva le domande in cella, a un certo punto, mi ha detto: “chi ha invitato te e quelli come te a parlare per noi? chi vi ha detto che dovete vivere qui? se questo paese non vi piace, lasciatelo e andate via; a noi che rispettiamo la legge questo paese piace, va tutto bene, è tutto a posto; siete voi che avete problemi, a noi le cose piacciono così”. In quel momento ho sentito che c’era un confine enorme tra me, tra quello che volevo, tra il futuro che immaginavo per il mio paese e quello che invece il governo e la gente che l’appoggiava avevano costruito. Mi sono sentita più straniera dentro a una cella nel mio paese, nella terra in cui sono nata, che dopo, quando sono andata via. Quel poliziotto era un giovane della mia età: pensavo che anche lui volesse la libertà che desideravo per me stessa e per le nuove generazioni. Forse lui non aveva studiato come me, non aveva la stessa mia consapevolezza, non aveva vissuto le mie stesse esperienze. Io avevo scritto poesie, racconti, articoli, realizzato documentari, mi ero interessata come attivista politica di diverse problematiche. Il mio paese avrebbe dovuto riconoscere il mio impegno, invece sono stata messa in difficoltà: con tanto dolore ho dovuto lasciare la mia terra, le mie radici, la mia famiglia, i parenti, abbandonare tutto quello a cui mi ero dedicata, il seme del lavoro che avevo piantato con cura, senza avere più niente in mano. Mi hanno detto vattene via, noi non abbiamo un tappeto rosso per te, come se quella terra non fosse anche la mia, come se non fossi iraniana anch’io, ma una straniera indesiderata. Nell’attimo in cui il poliziotto mi ha guardata negli occhi e mi ha detto vattene via, che cosa vuoi dall’Iran, noi non abbiamo problemi, ho sentito che il mio tempo lì era finito, ho perso la speranza. Mi chiedo sempre se quella scelta è stata giusta, se non sarebbe forse stato più utile restare in Iran e continuare a lottare. Non riesco a smettere di chiedermi se ho fatto bene a scappare, è come vivere sempre in uno stato di sospensione. Quando diventi un emigrante vivi in un mondo tagliato a metà, il calendario che c’è nel tuo paese non ha nulla in comune con il nuovo e tu non trovi i giorni che hai perduto, sei felice per le feste degli altri, ma senti che non puoi partecipare perché non ti appartengono, non sono le tue feste, e nemmeno puoi essere felice quando la tua famiglia festeggia laggiù perché non ci sei, sei lontana, non mangi i dolci con loro, non assaggi niente, non senti quel profumo, quel gusto, le voci allegre non hanno più quella consistenza nella tua realtà… Per un periodo vivi nei ricordi, ma col tempo sei costretta a lasciarli andare, perché devi vivere la realtà. Così costruisci un mondo di mezzo, per te stessa, dove conservi la lingua, il calendario, le immagini del tuo paese, i volti dei tuoi cari che appaiono nei collegamenti Skype: tieni vivo il legame con gli affetti che hai abbandonato. Poi arriva il tempo di inventare un nuovo dizionario con cui scrivere un’altra vita. Io vengo dal Medio Oriente, da una terra di mezzo, e questo adesso che sono lontana ha anche un altro significato: che ormai tutto è diviso, la mia famiglia è in parte in Iran e in parte qui, ho amici là e amici in Italia, porto dentro di me un oceano pieno di ricordi e memorie, e qualche volta mi chiedo se sono reali o immaginari.
C’è una bellissima poesia in persiano che racconta di piccoli fiori che stanno in una scatola di terra, e negli ultimi versi c’è un interrogativo: perché anche noi uomini non possiamo essere così, vivere come questi fiori, portando la nostra terra sempre con noi stessi, la nostra casa dentro di noi? La mia terra, la mia casa, adesso sono io.

Qual è stato il tuo rapporto con la scrittura in questo percorso di emigrazione? Come hai superato il confine della lingua, giungendo a scrivere anche in italiano?

Scrivere è stata la cosa che mi ha aiutata di più, durante tutto il viaggio e nei primi tempi in Italia. Quando ero in Turchia ho avuto la notizia che un articolo che avevo pubblicato sulla storia dell’Iran degli anni Settanta aveva vinto un premio ed ero stata invitata a ritirare il riconoscimento e a partecipare a una conferenza. Anche se non potevo più tornare nel mio paese, la notizia mi ha dato molte energie. Mentre ero in Turchia ho scritto due racconti, pubblicati in Svizzera, in un giornale legato ai temi dell’emigrazione. Mi hanno mandato una foto dell’articolo: mi ha trasmesso le forze per andare avanti. Appena giunta in Italia, in primavera, il mio libro di racconti è stato pubblicato in Iran, dopo due anni d’attesa, e ha vinto un premio. Ho iniziato a scrivere poesie a otto anni e la scrittura mi ha sempre accompagnata, mi ha aiutata a superare le difficoltà. Ho immaginato la scrittura come un filo che mi ha tenuta stretta per tutto il viaggio, tappa dopo tappa, ha dato un tema, un ordine a tutto al mio migrare. Solo poco tempo fa ho iniziato a scrivere in lingua italiana, ma non mi sento ancora pronta a scrivere poesie in italiano, mi viene da scrivere sempre nella mia lingua madre, il persiano, e sono contenta: la mia lingua resta con me, non voglio smettere di scrivere in persiano. Quando parliamo di arte, parliamo di una lingua comune a tutto il mondo, che non dipende dalle bandiere, dalla geografia, dai confini: questo posso affermarlo con certezza, per me è vero. Solo che per la letteratura ci sono tante limitazioni perché quando parliamo di lingua, di traduzione, soprattutto di traduzione poetica, c’è bisogno di conoscere la storia, la radice delle parole, conoscere il mondo in cui quella lingua si radica. Per esempio se scrivo il nome di una strada, di un luogo, questi riferimenti hanno senso in Iran, hanno un valore, portano con sé l’eco di tanti ricordi, non c’è bisogno di scrivere altro. Ma quando lo traduci in un’altra lingua, devi sempre mettere una nota per spiegare che cosa significa nominare questa strada o quel luogo, e anche quale simbolo rappresenta in Iran. Questa è la prima difficoltà. Poi bisogna trovare le parole giuste, precise, esatte. La lingua persiana per me è una lingua perfetta per la poesia, non ha nessun buco, nessuna mancanza. La lingua persiana consente di giocare con le parole, puoi rigirare i verbi e muoverti nel tempo all’improvviso, puoi giocare con il singolare e il plurale delle parole. Io ho imparato bene a farlo, ho padronanza piena della mia lingua. Per questo tradurre, giocare allo stesso modo con le parole dell’italiano, per me è difficile. Poi c’è la musicalità che nella traduzione si perde, la poesia ha un suo ritmo che cambia, mutata la lingua. La lingua italiana è una lingua piena, molto forte, il confronto con il persiano è complesso, perché si tratta di due idiomi con storie e grammatiche completamente diverse, un mondo di riferimenti simbolici e metaforici lontani tra loro. Queste diversità sono però anche una risorsa, una cosa bella: durante le letture delle mie poesie tradotte in italiano, spesso mi viene domandato come sono arrivata a creare certe immagini, certe associazioni. È la vita che ho vissuto, che ho portato come una piccola gioia dentro di me, le esperienze che ho fatto, quello che ho indossato, che ho mangiato, che ho sognato. La lingua iraniana ti mette davanti a tante possibilità, è un gioco continuo, ci sono problemi da risolvere come in un puzzle, parole che hanno un lucchetto: devi avere la chiave per entrarci dentro. Invece la lingua italiana la sento più lineare, più liscia rispetto all’iraniano. Comunque, nonostante tutte queste difficoltà, sono riuscita a tradurre alcune mie poesie e ho avuto commenti positivi e tante domande anche da gente che aveva viaggiato in Iran e trovava nei miei versi dei riferimenti che aveva imparato a conoscere. Il desiderio è quello di tradurre al meglio tutte le mie poesie e i miei racconti, perché parlano di un mondo diverso da questo, e danno modo di conoscermi, in primo luogo come donna, poi come viaggiatrice, come persona che ha riempito un grosso zaino e ha iniziato un viaggio, dall’oggi al domani, lasciando un mondo intero per aprire uno spiraglio altrove, lontano. Racconto anche di tante donne incontrate, che hanno vissuto esperienze dolorose. Come poeta ho bisogno di gente che mi ascolta, in Iran questo succedeva perché pubblicavo su riviste mensili e settimanali, partecipavo a programmi e letture poetiche. Ora, quando scrivo nella mia lingua, non so chi chiamare perché mi ascolti. Il mio fidanzato, che è italiano (è stato mio compagno di università), mi dice di leggere per lui, perché sta imparando il persiano. Ma mi manca l’ascolto di un pubblico.
Imparare la lingua del paese in cui si emigra è importate, letteratura a parte, perché significa trovare le parole per raccontare la propria storia. Quando sono uscita dal campo di Cara sapevo solo dire “grazie” e ”ciao”. In due mesi non avevo imparato altro, nemmeno un verbo. Ho iniziato a studiare la lingua da autodidatta, con l’aiuto di materiali trovati online, ascoltando radio e tv, ma non sono mai andata a scuola per seguire un vero corso di italiano, e questo è stato un problema perché l’ho imparato male, con errori, e ora accantonare parole e verbi sbagliati, dimenticarli e imparare al loro posto la lingua corretta è un po’ difficile.

1.
rifiuta
gli accordi di autobus e treni
rifiuta
le ali di acciaio e i binari
che
ti portano lontano da te
piano piano,
che riciclano
in un angolo del mio paese
per carri armati
kalashnikov e
alti tralicci.
hey signora!
io ho parlato di te sempre,
di abbandonare le ansie nel Pacifico,
in un luogo tra la mia e la tua terra
dove non arriva nessun binario e nessuna strada.
Apri il finestrino,
urla lungo Vali Asr
e anima il solito intenso traffico.
Abbiamo battuto sull’ultimo barattolo di latta,
Ascolti,
arriva solo la voce di una vuota grancassa di libertà.
Sono lega di acciaio e di sangue,
simile al suono del piatto su un piatto,
come una giuggiola,
come un melograno,
come la bici di mio nonno che non ritorna mai.
come te…
hey!
strada sofferta,
come te Vali Asr.
2.
Dietro di me
una donna sta camminando sotto una bara di parole,
con il tatuaggio di una colomba sul suo collo.
Sta canticchiando una poesia di Lorca.
I fichi, le foglie ampie con il nettare viscido e bianco,
Ruvido e morbido,
il tuo dolore femminile.
Gli emarginati afflitti,
tossiscono via le loro ferite,
sulla recinzione.
L’ultima linea che resta dell’ultima stazione
Arriva a te.
E ora
Queste parole dividono il mondo in due parti,
tu!
tu che vieni con una mediterranea malinconia negli occhi,
e
con una colomba sull’arteria,
queste parole ti mostrano tutta.
3.
Auguri alle tue nuove dita,
cresciute in mezzo a quelle vecchie,
per più grilletti e aratri
utili solo a seminare più morti.
Gli occhi caduti ai piedi dei defunti
le tue dita,
contano,
mancano.
E si ripete
la corda e il nodo,
l’urlo e il piscio,
nocca per nocca la paura del dito,
nal nero al violetto
i pigmenti rotti con capillare violenza.
Tutto,
solo per il timore del polpastrello.
appare lo sconforto sulle mie guance,
e un suono che rompe i miei timpani,
e lo spioncino della tua eiaculazione precoce,
è nebbia,
una sigaretta tra le tue dita,
il rosso
diventa una canzone immortale
sopra la crosta opalescente.
Magari la notte nuda
potesse spogliarsi
per chi ci ha lasciato la pelle

Azam Bahrami, nata in Iran, ha studiato Management e Fisica dell’Ambiente a Torino. Fin da giovanissima si è occupata attivamente di questioni legate ai diritti delle donne. In seguito a questa attività, è stata più volte condannata al carcere: per questa ragione ha scelto di lasciare il suo paese e ha chiesto asilo politico in Italia, dove oggi vive, con lo status di rifugiata. Nel 2011 ha pubblicato Una donna in due ruoli, che ha vinto come miglior libro di racconti brevi il concorso di letteratura indipendente “Sadegh Hedayat”. È autrice di varie raccolte di racconti e poesie in lingua persiana, e di articoli pubblicati online che affrontano problematiche come la condizione delle donne in Iran, il fenomeno dell’immigrazione, la questione dell’inquinamento ambientale e le varie forme di violazione dei diritti umani. Ha pubblicato le raccolte poetiche I bottoni del mio vestito sono ancora chiusi (2013) per la rivista on line “Se Panj” e Un uccello sull’arteria (H&S Media, 2016).

 

La rubrica “Confine donna: poesie e storie d’emigrazione” è ideata e curata da Silvia Rosa

 

 

(Visited 303 times, 1 visits today)