Particolare dell’immagine di copertina di Cristiano De Gaetano 

“A chi esiste, resiste, trasforma” è dedicata la riflessione di Christian Tito sull’origine della grazia e della bellezza, comune a tutte le cose, che è il dolore, come si legge nella prima citazione in esergo (Cormac McCarthy, La strada). C’è un fuoco da portare – poesie di Christian Tito, pubblicata da Pietre Vive Edizioni 2022 con la curatela corale di Perìgeion, è una selezione di testi creata con l’obiettivo di tracciare, all’interno di un’unica pubblicazione, il percorso letterario del poeta tarantino, vissuto a Milano.
La scelta dei primi testi (che non seguono l’ordine cronologico di scrittura) è dirimente e simbolica: il credo muta, ed è per questo che è possibile (ed auspicabile) continuare a credere. Dalla coazione alla trasformazione delle cose si salva, forse, un bagliore nello sguardo, la vicinanza tra uomini che si sussurra senza ostentazioni. Tra gli uomini sopravvive quell’elezione costante, germinata e rappresentata dalla genitorialità (non necessariamente biologica), che affronta la genetica e la ribalta nel miracolo della vita in cui coesistono origine e futuro.
Nel ruotare automatico, poco accorto della terra, gli uomini compiono moti inconsulti mentre vivono le loro vite intersecando drammi e gioie in una simultaneità disarmante. Rimangono il senso di perdita, il pensiero che tenta di darsi spiegazioni e la preghiera che gli eventi si accordino alle speranze più vive: “perso/penso/prego che tra non molto/mani di uomini esperti,/ma spero anche buoni,/estraggano la vita dal ventre di mia moglie/e la morte dal cervello del mio amico”.
La paternità si racconta attraverso domande reciproche, in quel punto di equilibrio precario tra il bambino che chiede sostegno all’adulto e l’adulto che si abbandona all’idea dell’infanzia come àncora (e ancora), ma soltanto quando nessuno lo vede.
Uno spassionato, prosastico e liricissimo flusso di coscienza investe i versi di Tito, liberi da qualsiasi vincolo metrico e letterario. Si può rintracciare la vaghezza espositiva del monologo joyciano che si interfaccia con un’alterità capace di traslare nella figura filiale ogni altro interlocutore possibile. Ciascun uomo, d’altronde, nasce nella ricerca di maestri, di padri, di risposte alle proprie domande più intime: solo da adulti, però, si può comprendere come la miglior risposta non sia parlata ma vivente.
Il proposito antinomico di chiedere agli avi i codici futuri per vivere evitando di perdere pezzi di umanità è “la traccia di senso” che schiarisce la riluttanza della vittoria a palesarsi nella vita. Ancora un contrasto concettuale di similitudini investe il verso, descrive la poesia nella sua impossibilità definitoria, acuisce l’anima della parola (a cui non sarà data fiducia in altri testi): “noi crediamo nella parola/e forse più in quella data/prima ancora che scritta”.
L’immagine tematico-letteraria della costruzione della propria casa individua una coordinata etica in cui si incontrano (e forse combaciano) le madri con i figli, il “lavoro muto” con l’insegnamento della parola, la possibilità del cancello chiuso che funge da confine con quella del cancello aperto che diventa un varco tra il privato e il sociale.
Il dono della fragilità è una risorsa necessaria come la forza affinché un viso conservi e sappia manifestare parvenze d’umano. L’elemento naturale del fuoco, nella sua irruenza distruttrice ed escatologica, insegna (e forse costringe alla) reciprocità tra vita e morte, individuo e ambiente. Un sinallagma funzionale all’esistenza, permutato dalla filosofia, dalla religione e, soprattutto, dal buon senso, storicizza la fatica di una vita e il dramma della morte, ricostruisce gli equilibri che non si vedono: “Allora nella notte non perderti d’animo, /nel chiarore resta sempre vigile. /C’è un fuoco da portare,/da passarci di mano,/da restituire alla terra”. In effetti, la possibilità di pronunciare il proprio senso di inadeguatezza aiuta a invertire i punti di vista: “Mi sento spesso come un faro di notte con la luce rivolta dall’altra parte”.
Non tarda ad affiorare, nei testi, lo sguardo vigile e indagatorio dell’autore sull’opposizione tra bene e male che, a tratti, viene affidata a brevi prose assertive attraverso cui si svolge la riflessione sulle contraddizioni della vita di oggi.
Gli altri, gli estranei, gli sconosciuti e i defunti instaurano un dialogismo ideale con l’individualità, ne descrivono le caratteriste etiche e ne definiscono i margini esistenziali, creaturali, viscerali. D’altronde, “il mondo è pieno di registratori”.
La scelta dell’epigramma appare come rapsodia di un istinto ragionato alle cose umane. Brevi, intensi slanci riflessivi si propagano nelle parole che non dicono.
La preghiera è centrale, per Tito, nella vita di un uomo. Si parla, appunto, di preghiera e non di mera fede: l’atto ragiona sulla credenza, appare come moto introspettivo, tenacia, ricerca, e investe le cose semplici, le conduce dal significante al significato. “Io credo” è un’anafora cognitiva e ricognitiva che raccoglie l’incertezza nella posa dell’idea. L’orizzonte come linea di desideri è una tensione perenne e irrealistica, necessaria alla vita quanto faticosa. Il poeta comprende quanto sia importante non riuscire mai a toccarlo: “Sembrerebbe una legge crudele, ma se io arrivassi a sfiorare il mare dileguato con il sole, cosa potrei più sognare?”.
La scelta di rimanere lontani da ciò che non si condivide si modula in un refrain incalzante che mette in evidenza le differenze percepite tra l’io e il voi nelle finte assonanze esistenziali, rivendicate – le differenze- con una rabbia contrita. D’altronde “molti managers avranno da obiettare sulla fatica dei poeti” e, allora, il biasimo sarà reciproco.
Il poeta farmacista, tanto dedito (e polemico) al suo lavoro, costruisce un amaro divertissement di scenette da banco, tipiche di una moderna farmacia e, forse, comuni a molti altri scenari in cui sofferenza, ottiche di lucro e tensioni lavorative si incrociano in modo grottesco.
La poesia, però, perdura nelle torsioni dei tempi e degli spazi perché è proprio come quel padre buono che è buono perché non risponde ed esorta il figlio, con il suo silenzio, a cercare sé stesso.
La “Relatività del peso” involve nel tempo, trascina all’indietro i pesi specifici, li recupera a nuove dimensioni che si percepiscono in base all’intuizione del soggetto: “Resta/solo carta/la pietra/se indietro/non è stata pietra/per il poeta”.
Nella serie farmaceutica – per permutare una parte di un amato titolo rosselliano, qui evocato per contrasto e dissonanza ermeneutico-linguistica – si esegue un appello di nomi propri così comuni da far parte delle conoscenze di tutti. Quasi banale come l’atto della richiesta di un farmaco, la stanchezza dell’umanità si riversa nella lamentela, nell’attacco ai sistemi pubblici, nel pettegolezzo, nella trivialità e finanche nella barbarie.
C’è, però, una realtà dentro la realtà, quella del “farmartista” che non si ferma un attimo, che vaga per i quartieri di Milano con lo sguardo non ancora ironicamente cinico come quello di Pagliarani, ma nemmeno estatico come quello di Cucchi o di De Angelis per il loro capoluogo lombardo (visto da punti di vista opposti ma pur sempre affascinati). È a Luigi Di Ruscio, amico letterato di grande ispirazione per Tito, che è dedicata l’immagine di una resistenza nella “speranza del mondo” in cui il poeta, quando esce dal suo lavoro, corre a rotolarsi sulla neve (“Io credo che niente sia più serio del gioco”). È una “donazione totale per la speranza del mondo”.
Tra l’invettiva e la satira – sempre che sia possibile distinguerle – nascono alcune poesie dedicate all’esperienza lavorativa trasfigurata in piani gnoseologico-semantici e spirituali. La spiritualità, qui, non si intende soltanto come agonismo religioso di coercizione bensì come una materia plastica, solerte a riunire spinte umanistiche provenienti da diversi percorsi (ma dirette, tutte, verso un senso di giustizia largamente condivisibile). “Però portate la ricetta”, si raccomanda Tito.
Ne “Gli oggetti smarriti” si palesa la capacità autoriale di mutare istrionicamente il registro linguistico che, in questi testi, viene adattato a una narrazione piana e spiccatamente colloquiale. Sembra, così, che si voglia sottolineare un certo territorialismo attraverso il tenore espressivo volutamente basso e povero di punteggiatura, privo delle relative pause appartenenti più alla parola scritta che a quella parlata tutta d’un fiato: “sensibilità tutta molto ipersensibile, storia dicevo extra comunitaria ma soprattutto extraterrestre nel senso che uno s’aspetta di trovarci sulla terra la razza umana e invece trova na razza di stronzi”.
Una dichiarazione di poetica in versi sembra stabilire la funzione della poesia nella poesia stessa, sovvertendo l’equazione letteraria che la forma dia senso al contenuto e, invece, azzardando l’ipotesi che sia il senso a dare forma alla costruzione letteraria (che, perfino in versi, non abbandona la sua indipendenza di movimento e di interazione intertestuale). Così, dall’idea di ricerca della bellezza “nei più oscuri anfratti”, si passa a una breve rassegna oggettuale e fattuale che trae dagli spunti della quotidianità l’indice sovversivo-scandalistico dell’atto poetico: “la più scandalosa è la poesia”.
D’altronde “non importa se voi non leggete le poesie/perché sarà la poesia a leggervi tutti”.
Non manca una riflessione sui fatti d’attualità, filtrata attraverso l’apparente esemplarità della dicotomia tra bene e male, tra Dio e il suo Nemico, tra uomini e uomini. La verità sembra, talvolta, filtrata attraverso i dispositivi telematici che si appropriano dello sguardo della gente, mentre una gran sete allaga le coscienze (fuori e dentro la grande fiction della vita). “Nessuno è solo buono”, nemmeno Cristo.
La malattia e la follia appaiono come un contraltare del male, una reazione, un capovolgimento dell’ordine naturale in funzione della conservazione di qualcosa di immutabile, puro, indefinito.
Il degrado della solitudine (“-finalmente avremo qualcuno che può parlare agli arabi – / ma io l’arabo non lo conosco. /Io/vengo dalla Persia”) e l’abbandono dei malati operato dalla società (“c’è odore di brodo/e ci sono macchie rosse sulla canottiera/sarà sugo spero/«Alessandro è sugo, vero?»”) sono sintomi dell’irrinunciabilità del male.
Perfino Dio, dall’essere il solo, è diventato uno dei tanti, “solo,/amaramente stanco, impotente” per una fede tradita, proprio come l’uomo deluso dalla sua stessa inabilità ad esser del tutto umano. Così, anche “i poveri cristi” da crocifiggere hanno abbandonato l’epica delle loro gesta e delle loro immagini per trasformarsi in corpi bisognosi di medicine, spolpati di ogni dignità e di ogni gioia: “non esagerava il poeta nell’esporre le sevizie, /la merda ingoiata per il piacere dei mostri”.
Se il farmacista sa dell’abominio delle ottiche merceologiche e mercantili sull’etica e sulla salute, il poeta intuisce bene “come spegniamo la luce ai bambini/quando hanno ancora gli occhi aperti”. Nonostante la memoria del corpo sia più lunga e resistente di quella della storia, “stiamo soli/nel pieno della notte/ a onorare la scintilla”, attraverso la parola data e quella che verrà.

da C’è un fuoco da portare. Poesie di Christian Tito (Pietre Vive Editore 2022)

Meglio saperla
tutta la forza,
tutta la fragilità
se vuoi che si plasmi
in forma d’uomo il tuo viso.
Allora nella notte non perderti d’animo,
nel chiarore resta sempre vigile.
C’è un fuoco da portare,
da passarci di mano,
da restituire alla terra.

RELATIVITÀ DEL PESO
Resta
solo carta
la pietra
se indietro
non è stata pietra
per il poeta

FARMACIA 63
«Fai il bene e dimentica»
ha detto Silvia
e Silvia davvero fa il bene
poi, davvero, dimentica
se penso a quanto bene
a cosa è il bene
a dov’è che io l’ho visto
e se penso a quanto male
dentro il male
dentro Cristo
«nessuno è solo buono»
nessuno è solo
solo.

 

Christian Tito (Taranto, 1975), poeta, scrittore, film-maker, musicista… «farmartista» (come amava definirsi). Tra i suoi cortometraggi: I Lavoratori Vanno Ascoltati (2012), 130kmh, con Marco Benozzati (2014), USA l’America (2014), Somewhere (2015), Lo spirito del mare, con Nicola Sisci (2016). Tra le sue pubblicazioni: Dell’essere umani (Manni 2005); Tutti questi ossicini nel piatto (Zona 2010); il romanzo epistolare scritto insieme a Luigi Di Ruscio Lettere dal mondo offeso, a cura di Enza Valpiani (L’arcolaio 2014); Ai nuovi nati, poesie, pubblicato nel 2016 dal Circolo Culturale Seregn de la Memoria, edizione degli Amici del Libro d’Artista, nella collana “Fiori di torchio” a cura di Corrado Bagnoli e Piero Marellicon una incisione di Alejandro Fernàndez Centeno. È stato cofondatore e propulsore del blog poesia e arte contemporanea Perìgeion, nonché infaticabile divulgatore e scopritore di poesia, a Milano (dove viveva e lavorava), Bologna (dove ha studiato) e altrove. È mancato all’amore della famiglia e degli amici nel giugno del 2018.

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