Fotografia di Daniele Ferroni

 

Propongo di seguito non tanto una nota di lettura bensì un diario di lettura, un breve tentativo di procedere con l’autore, una prova intima senza spiegazioni, perché di quest’ultime ne esistono già molte, mentre di esperimenti d’ascolto se ne potrebbe persino provare nostalgia. Sono riportate solo alcune delle annotazioni, per lo più intoccate e dunque incensurate, al fine di ricavarne un gesto.

Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno; e questa è disonestà ma la rettorica αναγχάζει με ταύτα βία ο in altre parole «e pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi»
C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica

1 dicembre 2020, Trieste

Nel 2011 uscì un’intervista ad Alessandro Ramberti su Poesia2punto. Tra le sue brevi risposte non risuona nulla di stravolgente: inviti alla lettura e all’umiltà, brevi frecciatine, di cui alcune accompagnate da emoji, e un augurio di apertura alla poesia da parte delle istituzioni culturali italiane. Tutto sommato un’intervista inutile, ma comunque non dannosa. Un’intervista a tratti sensata, ma impostata frettolosamente quasi per inerzia. Vi è in essa, però, una sola frase che ha più peso, più valore e più materia delle altre: «la poesia è per sua natura un fare». Ramberti, in fondo, poteva benissimo essere entrato in contatto con quel “fare” non solo tramite le sue opere di poesia, ma anche grazie al lavoro editoriale con Fara Editore. In ogni caso, la poesia definita come “un fare” o la si sperimenta o la si osserva morire nella sua definizione e, al di là di Ramberti, questa è forse la grande problematica: come si può sperimentare un fare che è poetico, un fare che è poesia?

Dieci anni prima, Franco Loi e Christian Sinicco intrapresero un dialogo su Fucine Mute che finì per ricadere proprio in una simile domanda. Loi, in armonia con il pensiero greco, sosteneva che «il fare della poesia è un fare che viene da lontano, un ritmo che proviene dall’universo. Come la natura, le stagioni, il respiro, il poeta ascolta il ritmo e lo segue. Così quando siamo innamorati siamo in una sequenza ritmica che investe tutto l’universo e cambiano le distanze, siamo più vicini al mondo e agli uomini. La poesia è un modo antico ed eterno di essere immersi nel mondo, nelle energie che fanno la vita». Sinicco, invece, rifletteva sulla «poesia come mezzo per giungere a noi stessi, la nostra vita che è molto di più di ciò che noi siamo portati a credere».

Non è che tali indagini fossero inedite, è anzi dall’opera filosofica di Heidegger che si è stati portati a esplorare questo territorio, ma ciò non significa che la critica o la poesia italiana abbiano mai realmente ricavato (fuorché rari casi individuali) una mappa che potesse sostenere una sperimentazione. Dunque, nel primo decennio del Duemila rimaneva questa la chiave di volta della ricerca e non è per nulla strano che le varie orbite si siano incrociate in essa, cosicché, nel 2005, Ramberti curò La coda della galassia, un’antologia a cui prese parte anche Sinicco e che desiderava «dare un suono al senso».

Premettendo che, come scriveva Porta, «va da sé che un’antologia di poesia è prima di tutto un fatto personale, e nello stesso tempo la realizzazione di un progetto che vuole farsi interprete di un capitolo della storia letteraria», La coda della galassia non si rende interprete, ma presenta nondimeno una realtà: pochi o nessuno conoscevano (ma ha senso porre questo verbo anche al presente) il significato di “sperimentare” un “fare”. Tra questi però la presenza di Sinicco è la più interessante per vari motivi. Innanzitutto, perché il poeta triestino si è posto da subito in uno sguardo onesto a riguardo: per dire che qualcosa è stato sperimentato è fondamentale che il movimento del pensare sia ripercorribile in tutte le sue curvature, in ogni slancio e depressione, e, dato che tale percorribilità non appare (come potrebbe d’altronde? Si tratta di un fare che è soprasensibile e dunque inapparente), più che di un “fare”, dunque di un’azione sperimentata e sperimentabile, il poeta resta presente ad un «accadere». Accade, esiste e questo basta per assistere al miracolo della parola. Poi, se è e cosa sia, è un fatto altro.

Per precisione, è coerente sottolineare che, nell’antologia del 2005 è pubblicata Città esplosa, un lavoro che, come dichiarato dall’autore in un’intervista di Michele Paoletti su Laboratori Poesia, venne in realtà scritto nel 2001. Oggi è divenuta la prima parte di Alter (Vydia, 2019), opera spesso descritta dall’autore con il termine “psichedelica”, ma, all’epoca, una piccola silloge che restava nuda e solitaria ad anticipare gran parte della produzione letteraria di Sinicco. Questo ariete, per così dire, onesto, è un valido punto di partenza per osservare la poesia che avviene, partenza che si presuppone un giorno diverrà per qualcuno un arrivo, qualcuno che possa dire “il fare della mia poesia è puro pensare che risuona e l’ho risalito attraverso questi versi e lo dichiaro con tale sincerità che avrei il coraggio di recitare questi versi nell’orecchio d’un uomo che muore”.

2 dicembre 2020, Trieste

Ma, dunque, procediamo in partenza, dalla parola.

Quando mi svegliai la prima volta
guardando giù il mio cuscino lontano
un occhio aveva la federa:
allora saltai l’abisso fra me
e l’azzurro delle ciglia
[…]

vidi
la Città esplosa

Laddove vi sia concento nella generazione della parola – che sia pure poesia – vi è un accordo di mondo e volontà. Musicalmente parlando l’accordo è indefinibile, non ha senso definirlo se non per via negationis. Un accordo o lo si osserva (dove, per “osservare”, non vi è alcun ammiccamento sinestetico, ma puro pensare) o è meglio non dirlo. Taciuto, lo si comprende.

Certo, in seguito ad una città che esplode non resta che silenzio, una «calma in quel flutto denso»1. Tuttavia, a essere oggettivi, si tratta di un silenzio avvertito e non generato, un silenzio ispirato da altro (qualsiasi altro: una bomba, un vuoto, un abisso, eccetera). Sono passati vent’anni e questi versi non bastano più proprio a causa di questo: il silenzio dev’essere voluto, dev’essere l’atto d’amore compiuto da una forza di volontà che germina nell’azione. D’altronde il silenzio non c’è nemmeno per Sinicco, poiché egli, a tutti gli effetti, ne stava scrivendo.

18 gennaio 2021, Trieste

Alla domanda ‘come sperimentare un fare che è poesia?’ non si può rispondere con nulla che accade, ma ciò che accade può venire accolto. L’onestà di Sinicco rispetto a molte opere dei primi anni Duemila risiede in questo:

un corpo o un’anima
o qualsiasi cosa io sia
quando mi svegliai per la prima volta
saltai l’abisso fra me e l’occhio
saltai nei profondissimi vuoti
saltai, e caddi nella verità

Non è la mancanza di una concezione dell’uomo a parlare, bensì il soggetto: egli non si conosce eppure incontra “verità”. Vi cade dentro per la precisione, ma, d’altronde, per un soggetto che canta “qualsiasi cosa io sia”, sarebbe impossibile altrimenti. La verità accade in questi versi (ma almeno accade qualcosa). Qualunque poeta abbia lasciato parlare la mancanza, di fatto ha voluto che non accadesse nulla.

Il gesto di Sinicco dev’essere stato noeticamente faticoso e, forse, sofferto, infatti non gli è restato altro che ricercare la sperimentabilità al di là della parola: la grafia si allarga, i versi si centralizzano nel seguito dell’opera, fino al porsi verticalmente alla fine. Nel pratico è come se il poeta in questione avesse tentato di incidere la verticalità manualmente, ma solo in quanto restava incompiuta nel pensare.

Un’altra prova di sincerità, disperata sì, ma da leggere con tenerezza. Ecco dunque un appunto per la lettura a voce: più si ingrossa l’immagine della parola (la lettera stampata, ma non solo, vale anche la sua riflessità nel pensare) e più s’abbassi il tono. È infatti da tenere a mente che la poesia di Sinicco dev’essere letta anche a voce, poiché il poeta stesso la leggeva a voce e ve ne sono numerose tracce come le performance con i Baby Gelido (erano gli anni degli Ammutinati a Trieste, ovvero anni in cui si ragionava molto sulla poesia detta, fosse anche in lingua ignota e straniera).

1 febbraio 2021, Trieste, sempre Trieste

La città esplosa accade, nel senso che non vi è libertà, perché ciò che accade è forza che spinge, non motore immobile. Non si è nulla se trascinati da forze. Di conseguenza il gesto poetico di Sinicco andava osservato nel primo verso («quando mi svegliai la prima volta») con cautela, poiché lì vi era un piccolo profumo di libertà resa possibile ma quasi immediatamente recisa.

Ecco che allora la volontà non regge, l’intento si inarca per incurvarsi e infine precipita nell’immagine – che per quanto sinceri restino i versi s’immergono pur sempre in immagini. Tant’è che seguendo questa operazione poetica diviene quasi spontaneo esprimersi a metafore (‘mareggiata del pensare’, ‘doline’ o ‘pietre carsiche’, sarà che anche Sinicco è triestino, ma erano proprio queste le immagini, inequivocabili, che mi apparivano se abbandonavo la volontà all’esplosione della città). Se al gesto poetico compartecipasse una presenza nel pensare vivo la volontà non crollerebbe e l’esplosione sarebbe solo un’idea che, astratta, muore.

e se la realtà dovesse frantumarsi del tutto
come aspettiamo del resto che accada
attaccando ogni forma di vita
resistendo ad ogni terribile fontana
che strappa la scoria di sciami di pensieri
[…]
e morde la voglia di cupe inadempienze
di un futuro risibile e di oggi e di ieri
io
prima di lei
frantumo tutto
e genero la vita

La “voglia di cupe inadempienze” è un testimone caro della volontà sclerotica in poesia: si vuole ciò che si può non volere. In fondo, Dostoevskij lo aveva dipinto in più opere: l’uomo sa rifiutare con più facilità la libertà che il male. Tant’è che molti lettori comprendono senza sforzo il Grande Inquisitore in I fratelli Karamazov, ma devono piegarsi con dolore su loro stessi anche soltanto per intuire il bacio del Cristo alla fine della leggenda.

In ogni caso, se in molti scritti dei primi anni del Duemila la volontà cristallizzata resta ad ammobiliare un soggetto svuotato, in Città esplosa è possibile ricavarne un’occasione: «io», giustamente posto come unico materiale sonoro, come unico significato di un intero verso. Infatti, comprendendo che è il soggetto che “frantuma tutto” e che permette alla verità di accadere, si “genera la vita”. Dubito che Sinicco all’epoca avesse a coscienza il tesoro a cui s’era approssimato, in quanto ritorna troppo frequentemente a riflessità, ma il fare che è poesia si può sperimentare proprio in questo moto: un pensare precipitato si rende slancio ad un volo, come avviene nella dinamica delle rondini (e come sto cercando di permettermi attraverso questa lettura).

Forse nell’individualità di Sinicco il volo avvenne, per quanto riguarda la sua realizzazione poetica ve n’è un’orma, ma che potrebbe benissimo essere stata tracciata da intuizione e che dunque non è valida per un’oggettiva postura che renda possibile il ritorno alla libertà:

non era chiaro se fuggire o combattere
quel corpo che si insinuava aorta
dello spirito, non era chiaro
se nella grande arena vibrasse
la distruzione o il ricongiungimento
alla natura
oscura
del segnale
che emetteva

con le parti luminose dell’eco
sopra la Città sciolse
la visione e la forza
espanse

in ogni direzione e l’essere

fu senza misura
e il silenzio che si creò

non aveva spazio per la dimensione

24 marzo 2021, Trieste

Ancora silenzio. Lo ritrovo come la necessità poetica della mia generazione. Non un silenzio misticante, facilmente appoggiato ad immagini, che siano salate o meno – quello infatti non tace. E nemmeno il silenzio rabbioso, schifato, annacquato di imperdonabilità. È ormai fondamentale un silenzio meticoloso che si compia con precisione.
Silenzio che non si compì negli anni Duemila, che non si compì mai nel modo in cui potrebbe venir compiuto ora. Adesso potrebbe essere un silenzio libero, una volontà che è pensare e un pensare che è volontà. Una poesia che si generi dal silenzio e che oltrepassi così quella parola “innamorata”.

È la vetta dell’abisso che esce allo scoperto […]
apre sopra il peso del mantello tra le pietre
ciò che rimane della stazione dell’umano
muto arcipelago

1 aprile 2021, ancora Trieste

Oggi, di La coda della galassia mi stupisce un dettaglio minuscolo: il commento di Davide Rondoni a Città esplosa di Sinicco. L’ha descritta come una «furia percettiva». A primo acchito può sfuggire, ma è una sinestesia. Una vera sinestesia! Come quella che mi aveva descritto la poeta Rosaria Lo Russo raccontandomi che la prima volta che provò la sinestesia accadde da bambina e accadde nella pancia. Ora non riesco a smettere di immaginarmi la pancia di Rondoni. Fornace di sinestesie delicate.

19 aprile 2021, Trieste
ma non avere paura
ultimo uomo
dopo di te
l’angelo dell’embrione solare
brucerà il vento e scoprirà
l’osso del mondo

L’“embrione solare”, accompagnato conseguentemente nel testo di Sinicco da i «monti della luna», è stato un gesto poetico che mi ha riportato al movimento di base nell’inizio di Il flauto magico: Sarastro da un lato e La regina della notte dall’altro. Quella di Sinicco è una briciola del salto che è possibile compiere osservando l’opera di Mozart e Schikaneder, ma una strada di briciole potrebbe riportare qualcuno a casa un giorno. Il fatto è che la luna di Sinicco non canta Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, ma possiede una simile caratteristica: la riflessità. Il pensare vivo che risuona nella poesia non può essere riflesso, deve dunque mantenersi solare. Chiaramente, utilizzando immagini (ad esempio «brucerà il vento»), il poeta non può che intuire la solarità (o meglio “la terrestrità del sole”, come scriveva Onofri) che rimane per lui embrionale. Per una poesia solare bisogna essere liberi e per essere liberi è necessario coraggio, un coraggio eroico.

Ciò che segue Città esplosa ne è la testimonianza. Nell’antologia è stata infatti aggiunta anche Amaia. L’ultima visione, un poemetto datato 1999, che, poco prima di chiudere il testo, scrive: «E sono io, riflesso / Una figura di rara potenza / Impressionante, tremendo, occhi mai visti / Profondi di un mare che non posso guardare! / E sono io, io, che mi guardo, ma è impossibile questo / Troppo, troppo grande, troppo vasto, troppo per me questo silenzio».

Più rileggo questi versi più comprendo che, per procedere in una poesia che sia tale, ha senso passare per Christian Sinicco, poiché è la limpida postura di chi voglia avviarsi nel silenzio prima di cantare, di chi coltivi tale intento con sincerità. Certo, negli anni Città esplosa è divenuta altro, nonché Alter, e ha smarrito Amaia, per riconquistare una postura più pulita, ma trovo in questa specifica apparizione di Sinicco negli anni Duemila una poesia che vuole essere morale. Poi che ci riesca è un altro discorso (e se ci fosse riuscito non vi sarebbe alcun bisogno di scriverne a riguardo), ma la postura non è forse un primo momento dell’apprendimento al volo?

Claudia Mirrione scriveva a riguardo: «La città esplosa è il racconto poetico di una deflagrazione atomica (anfibolicamente riferentesi sia ad una dissoluzione di infinitesimi “minima” atomici sia, più storicamente, all’esplosione della bomba H). L’ekpyrosis, cioè la fine di un ciclo del mondo, il passaggio stoico dal fuoco al fuoco nella teoria elementare, viene però descritta come una corsa di generazioni, un’accelerazione di energia […]». Ma io non parlerei di “passaggio stoico dal fuoco al fuoco”, quanto piuttosto “ascesi da una riflessità ad una autodeterminazione”.

Una conclusione

Si potrebbero concludere queste annotazioni o appunti o come li si preferisca denominare, sottolineando che Alessandro Ramberti ha costruito un’operazione antologica da riscoprire – e, in tale direzione, è utile la stravagante lettera di Tolmino Baldassari-, proprio in quanto vi è stato dato spazio a posture come quella presente nella prima Città esplosa di Sinicco. Scrivo “prima”, perché le versioni che seguirono furono cambiate radicalmente.

A Venezia, vicino alla chiesa di San Fantin – quella modesta facciata di marmo e geometrie che sembra sempre osservare di sott’occhio il teatro La Fenice -, vi è la Galerie Bordas, la piccola casa di Prova d’artista, progetto curato da Domenico Brancale. Essa diede vita a molte opere interessanti tra cui, nel 2014, a un libro d’artista contenente Città esplosa, la quale risultava però così diversa da ciò che Sinicco aveva creato con La coda della galassia che gran parte dei versi sopra citati nemmeno compaiono. Sono stati eliminati o “tagliati”, come dice l’autore.

Ci vuole coraggio per mantenere certe posture, a volte queste possono patire le stesse cristallizzazioni contro le quali s’erano impostate, anche solo per la paura che esse non bastino a spiccare un volo. Ci vuole una fiducia nel pensare. La postura di Città esplosa è inevitabilmente mutata in tredici anni e ha smarrito l’interesse, forse giovanile, verso quella possibilità di “svegliarsi” (parola che viene tra l’altro sostituita con «vidi»), di imparare l’atto di un fare che è poesia, guadagnandone però molto altro che, purtroppo, in questa sede non può venire approfondito, ma che avrebbe senso osservare (ad esempio il caso dell’opera pubblicata da Galerie Bordas potrebbe venire studiato a partire dalla scelta della carta stessa, ma gli studi possibili sono chiaramente molti).

Le posture si evolvono, così come si muove la volontà dell’autore, ma la volontà, che è pensare che interagisce col mondo, nel pronunciare poesia non può mai escludere il pensare. Essendo volontà, però, non è un vettore unidirezionale né un gioco di leve, si tratta di una potenza cui moto è meraviglia, è amore, è coraggio, da coltivare in silenzio, da osservare vivamente. Ci vuole coraggio per non abbandonarsi all’esplosione.

Christian Sinicco è nato a Trieste nel 1975. Nel 2002 diviene caporedattore di “Fucine Mute”, tra i primi periodici multimediali ad essere iscritto nel Registro Stampa in Italia (1998), dove avvia il progetto di catalogazione della poesia delle nuove generazioni; intervista anche alcuni tra i poeti italiani più significativi, come Mario Luzi, Maria Luisa Spaziani e Franco Loi. Ha pubblicato: Passando per New York (LietoColle 2005; prefazione di Cristina Benussi), la plaquette Ballate di Lagosta Mare del Poema (CFR 2014; introduzione di Alberto Bertoni e nota di Cristina Benussi) e il libro d’arte Città esplosa (Prova D’Artista / Galerie Bordas, Venezia 2016) poi contenuto in Alter (Vydia 2019; introduzione di Giancarlo Alfano). Le sue poesie sono state tradotte in albanese, bielorusso, catalano, croato, inglese, lettone, olandese, slovacco, sloveno, spagnolo, tedesco e turco. Attualmente dirige Poesia del nostro tempo – poesiadelnostrotempo.it. Per Argo ha curato l’indagine sulla nuova poesia dialettale L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (1950-2013) (Gwynplaine 2014) e tre annuari di poesia internazionale. Presidente del Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini”, si occupa di poesia, di lingue e dialetti, nelle giurie dei premi “Giuseppe Malattia della Vallata”, “Pierluigi Cappello”, “Gianmario Lucini” e “Rainer Maria Rilke” Duino Aurisina; dirige il piccolo festival Ad alcuni piace la poesia (Montereale Valcellina, PN) e, all’interno di Duino&book il Festival degli Angeli; a Trieste ha fondato il gruppo di poesia Ammutinati e, in seguito, la Lips – Lega Italiana Poetry Slam, di cui è stato presidente, nonché ha diretto alcuni festival, tra cui Iperporti – Scali Internazionali di Letteratura.

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