Fotografia di Jakob Goldstein (Festival della poesia contemporanea, Zagreb 2007)

Nel 2005 esce con LietoColle Passando per New York, una raccolta firmata dal poeta triestino Christian Sinicco. Si tratta di un libro che si presenta da subito elegantemente con la copertina disegnata da Ugo Pierri e una carta leggera, ruvida. Si potrebbe trovare tra le poesie in esso contenute un soggetto che risulta interessante in uno sguardo sulle pubblicazioni del primo decennio del Duemila: il “passaggio”. Infatti, l’idea di passaggio, non solo inteso come gesto di attraversamento da subito esplicitato nel titolo, è anche una presa di posizione morale inserita coscientemente nel proprio contesto storico.

In una nota su Poiein, Gianmario Lucini osservava questo movimento di passaggio sottolineandone il nesso intrinseco con il “pensiero debole” teorizzato da Rovatti e Vattimo. Infatti, in Passando per New York si troverebbe, in parte, una certa fiducia postmoderna, nata in seguito a rilevanti cadute ideologiche, riposta nella possibilità che singole voci nella loro molteplicità assumano su se stesse un peso decisivo nella comunicazione collettiva. A riguardo si pensi alle parole del filosofo torinese Gianni Vattimo in La società trasparente (Garzanti 1989): «Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” – minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche – che prendono la parola, finalmente non più tacitate o represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti». Le “individualità limitate” otterrebbero allora una responsabilità non da poco – quella per cui la propria parola oltrepassi la spazialità dell’intimo, dell’interiorità e risuoni fuori di sé, nell’Altro, trasformando significati, ma mantenendo il proprio essere “locale”. Un passaggio dunque.

Per osservare questa prospettiva morale è bene partire da uno sguardo ad un evento accaduto nel 2001: in seguito alla caduta delle Torri Gemelle, l’allora presidente George Bush tenne un discorso sulle macerie, noto come il Bullhorn Speech. In esso, dopo che un soccorritore sottolineò che non si riusciva a sentire ciò che egli stesse dicendo, dichiarò con un megafono: «Io riesco a sentirvi! Io riesco a sentirvi! Il resto del mondo vi sente! E le persone – le persone che hanno buttato già questi edifici ci sentiranno molto presto!»[1]. L’immagine divenne immediatamente propaganda, così come le parole da lui pronunciate e su di esse si fece leva durante tutta la guerra in Afghanistan. Tutt’ora quel “ci sentiranno” possiede un potere comunicativo trascinante.

Fotografia di Daniele Ferroni (Independent Poetry 2019)

A riguardo, durante un dialogo con Sinicco, il poeta ha commentato questo fatto sottolineando che se la parola immessa nella propaganda genera conflitto, quella propria della poesia dovrebbe allora controbattere, risignificando i messaggi e portando speranza, forse persino utopie, le quali sarebbero di gran lunga più costruttive della tensione logorante del discorso propagandistico. La speranza non sarebbe però qualunque speranza, bensì quella specifica che risiede nell’idea che il messaggio possa avere un ruolo decisivo e che la parola possa riplasmarlo. Tale operazione sarebbe permessa da un passaggio, ovvero quello che attraversa la parola della propria intimità per portarla all’alterità tramite l’atto poetico: «Si tratta di ospitare l’atto poetico nella propria vita. Di portare a coscienza il valore della poesia. E però il valore della poesia risiede nella poesia. Certamente c’è una fragilità in questa risignificazione delle parole, ma a quei tempi era necessaria».

Questo tipo di oltrepassamento rientra a pieno diritto in un fenomeno lirico e generalizzato, già ampiamente studiato, in cui la parola poetica diviene “spazio” di verità, si rende un’arena dell’attraversamento di singole soggettività – proprio io dico questa parola e in qualche modo questo io deve arrivare a te e nel passaggio da “io” a “te” bisogna che non ci si spogli della verità.

Per comprenderlo al meglio si può pensare a Maurizio Ferraris, il quale in Storia dell’ermeneutica (Bompiani 2008), sottolineava che la scrittura può essere intesa «come lo spazio in cui la comprensione perviene a una oggettività assoluta, liberata dalla presenza attiva e intenzionale di una soggettività vivente. La scrittura garantisce “la tradizionalizzazione assoluta dell’oggetto, la sua oggettività assoluta, cioè la purezza del suo rapporto con una soggettività trascendentale universale […] La pura storicità trascendentale. Senza l’estrema obiettivazione permessa dalla scrittura, ogni linguaggio resterebbe ancora prigioniero della intenzionalità fattuale e attuale di un soggetto parlante o di una comunità di soggetti parlanti. Virtualizzando assolutamente il dialogo, la scrittura crea una sorta di campo trascendentale autonomo da cui ogni soggetto può assentarsi” (Derrida, 1962,84)».[2]

Inizialmente il “passaggio” presente nella raccolta di Sinicco potrebbe apparire contrastante con quella “oggettività assoluta” sopra delineata, ma in realtà l’oggettività della soggettività è un tema già affrontato da molti pensatori. A proposito è interessante il pensiero che compare in Verità e interpretazione di Luigi Pareyson, il quale, riferendosi al discorso filosofico, scrive che: «La verità non è oggetto, ma origine del discorso filosofico, e il discorso filosofico non è enunciazione, ma sede della verità. La filosofia non parla direttamente della verità, la quale non è un complemento di argomento, di cui si possa dire de veritate, e di cui e su cui si possa parlare: la verità è impulso, ma non risultato del discorso, e quindi si sottrae ad esso nell’atto stesso che lo alimenta e lo fonda. Un discorso oggettivo sulla verità non solo non è filosofico, ma a rigore è impossibile, nel senso che la verità scompare proprio nell’atto in cui è presa a oggetto d’un discorso, e non è più verità quella di cui si può parlare: la verità, piuttosto, è presente nel discorso, a sollecitarlo e a costituirne l’inesauribile riserva. La verità si lascia certamente possedere dalla filosofia, ma non in un’enunciazione assoluta e definitiva, valida per tutti e per sempre come unica vera: tocca invece alla filosofia darne un’interpretazione personale e osarne una formulazione a proprio rischio e pericolo, con la consapevolezza che non è l’interpretazione a esaurire e monopolizzare la verità, ma la verità a concedersi all’interpretazione rinnovandola incessantemente».[3] Da qui possiamo vedere che se la parola scritta è “spazio” di verità, il discorso filosofico, così come quello poetico, è la “sede” di verità. Una cosa è la parola, un’altra è il discorso. Inserire nell’esame la questione dell’interpretazione risulta emblematico per comprendere al meglio la raccolta di cui qui si sta trattando; questo perché il passaggio come pensato dal poeta Christian Sinicco ha come agente una soggettività che si rende oggettiva, ovvero che è in grado di prendere voce, di farsi ascoltare e di risignificare totalmente messaggi e materiali di contenuto.

La verità portata nell’Altro tramite l’atto poetico è in Passando per New York un obiettivo fondamentale che porta la parola scritta a rendersi luogo spogliatosi della “soggettività vivente”, ma che, attraverso il suo partecipare ad un discorso poetico, se la riprende, la riconquista. Per vederlo possiamo leggere direttamente alcuni versi di passaggio sull’infinito che sento di te:

Il colore che contengono le parole si è espanso
mescolandosi alla forza dello sguardo

La sfumatura soggettiva delle parole, in contatto con lo sguardo cosciente, si “espande”, si rende poesia. La raccolta di Sinicco è dunque terreno di inversioni di polarità, in cui soggettività e oggettività si caricano a vicenda. Una danza di passaggi che possiede un sapore sognante e non lo possiede a caso. Infatti, è proprio nello spazio onirico che avviene la magia per cui oggetto e soggetto si mescolano in un’unica entità omogenea, attraversandosi costantemente. In Passando per New York l’onirico si apre nella poesia tramite un “varco”, sul quale è stato possibile dialogare direttamente con l’autore: «Aprire un varco in se stessi con le parole significa riportarsi ad un nucleo grazie al quale possiamo risignificare l’esperienza della realtà». Ora però la questione si pone sul come questo “varco” possa generarsi. La risposta nella raccolta è data dal linguaggio poetico stesso: si tratta di un processo onirico che si plasma tramite la parola ispirata. Questo dato necessario, anche se non sufficiente per il passaggio all’oggettivo, che è il “varco”, è anche un termine presente in più poesie della raccolta:

apro un varco in me per tutto ciò che non esiste
e viene tollerato da moltitudini, in piedi
riscaldandosi dal freddo polare di un’anima pensierosa
che sente i battiti e il respiro della storia […]

Questi versi tratti da primo passaggio su New York, in risposta ad un Arcano di Jack Hirschman permettono un assaggio di tutto ciò. Ma per osservarlo al meglio si dovrebbe pensare a quel “sacred river” di Coleridge:

In Xanadu did Kubla Khan
a stately pleasure-dome decree:
where Alph, the sacred river, ran
through caverns measureless to man
down to a sunless sea.[4]

Il legame che risiede tra il “varco” e il “sacred river” è riposto in una sorta di “vision in a dream”. Infatti, se la questione è poter includere la soggettività nell’oggettività allora per Sinicco, così come per Coleridge, ciò non può che avvenire in uno stato specifico che è quello del sogno. Allora il movimento si spingerà a caricare i simboli, a inserirsi in una trance cosciente al fine di dare luce alla parola poetica. In Passando per New York ciò avviene nel testo soprattutto grazie alla presenza di moltissimi doppi legami, utilizzati come direbbe l’autore stesso come «espedienti artistici che permettono quell’allungamento o tensione di cui si serve la scrittura nella sua possibilità trasformativa».

Passaggi e varchi onirici però non bastano a raccontare questa raccolta, che come si diceva ha un forte nucleo morale e storicizzato. Se tutto ciò che si è detto del passaggio e della verità nella parola scritta risulta realizzato, allora che farsene dei poeti? Essi, infatti, vengono del tutto responsabilizzati, rappresenterebbero anzi voci decisive nel dialogo politico. Sinicco opera anche in questa domanda con un oltrepassamento: bisogna attraversare anche i poeti. A descrivere in maniera limpida questo tentativo è Luigi Nacci, in una nota di lettura su Fucinemute: «Mettendo in primo piano la necessità comunicativa della poesia, Sinicco abbandona ogni tentazione intimista o minimalista; […] non teme di “sporcare” i nomi di grandi personaggi del passato, da Rimbaud a Pound, da Leopardi a Montale (e molti altri sono i citati), immettendoli con tutto il loro fardello simbolico nell’oggi, nell’11 settembre che ha cambiato il mondo, nelle macerie fatte di case bombardate e di cameramen d’assalto, perché «la tua carne poesia io rubo al supermercato» (Argentina): contro la poesia dei salotti, dei poeti che si incensano (anche i giovani non sono esenti dalle autocelebrazioni), Sinicco opta per la parola che unisce la materia/sangue al poiein inteso come furto, atto finalizzato a rivendicare, a denunciare un’ingiustizia («ora sappiamo che è un delitto / il non rubare quando si ha fame» cantava De André in Nella mia ora di libertà) e ambienta tale rito nel supermercato, uno dei tanti luoghi (o non-luoghi) della postmodernità; né ha paura di stare dalla parte di Prevért, autore snobbato da coloro che diffidano dei poeti letti e amati dalla gente: «il poeta ha paradossalmente paura del bagno di folla perché è il bagno del suo sangue che abbraccia ognuno» dice Sinicco nella bibliografia a chiusura della silloge, rimarcando un ulteriore elemento di novità rispetto a molti suoi colleghi coetanei: in una stagione in cui si deve constatare «il vuoto intellettuale dei nostri tempi» (così scriveva amaramente Romano Luperini su “L’Unità” del 18 febbario 2004 […]), il poeta ha il compito di assumere le proprie responsabilità, di riflettere su ciò che lo circonda, di stare, per usare un’espressione nota, più dalla parte di Dante e meno da quella di Petrarca. »

A questo punto però vale la pena osservare dal vivo quanto si è cercato di proporre in questi appunti attraverso la lettura, passando per Christian Sinicco.

[1] «I can hear you! I can hear you! The rest of the world hears you! And the people — and the people who knocked these buildings down will hear all of us soon!»

[2] Maurizio Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani 2008, pp. 277-8

[3] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 2018, pp. 205-6

[4] Nel Xanadu alza Kubla Khan / dimora di delizie un duomo / dove Alf, il fiume sacro, scorre / per caverne vietate all’uomo / a un mare senza sole.

 

da Passando per New York (LietoColle 2005)

primo passaggio su New York
in risposta ad un Arcano di Jack Hirschman

Scende la neve nera
sopra New York,
la neve nera di piccole labbra rosate
e nuvole da cui non vorrei sgorgasse l’origine
di una creatura talmente inospitale da fluttuare
nella natura… O Man, per ogni spenta coscienza
i versi composti dalla sera inginocchiata,
dalla sera frantumata, dalle tante parole inutili
posano luci e melograni di pensieri
infiammati con le ultime lettere dondolanti al vento.
Quotidiani non si possono stendere, non ci sono
sul canto che libera il mio vuoto volante
su questa sera che cade portando la farsa con sé.
Apro la bocca ai sultani delle stelle
dove svaniscono lentamente ospedali su milioni di ali,
apro un varco in me per tutto ciò che viene tollerato da moltitudini, in piedi
riscaldandosi dal freddo polare di un’anima pensierosa
che sente i battiti e il respiro della storia mentre le sue gambe di cielo
sgretolano come marmo e materiale plastico
al primo passaggio dell’amore.
Sotto la tenebra di grandine alterata, che ci vorrebbe ricoprire, la voce
di un uomo come tanti altri in fila scomposta calpesta
su quel ponte stanco il destino invisibile che attraversa tutti:
ultimamente è percorso masticato
di un sentimento di sgomento, di panico
perché vivere è soffrire e soffrire è vivere la guerra
tormentata di una Psiche roteante
che sull’Olimpo della memoria brucia ogni suo dio.
Ed è dall’inizio di questa oscurità cerebrale che io gli chiedo
solo amore per me e per ogni uomo, ma vedo in lui l’unità di crisi
e più di diecimila uomini operosi che corrono in cerchio su occhi di buio
e hanno paura di morire ma danno la vita per la vita.
All’inizio di questa oscurità cerebrale
questo folle volo non può ancora atterrare sui sentimenti che vorticano ma le ragioni
dei signori degli eserciti già sostituiscono il signore degli eserciti dov’è la Palestina
in festa con rami d’ulivo e celebra
l’angoscia dell’uomo che come il palestinese cattolico o mussulmano ha ancora angoscia, o l’ebreo
israeliano o il mussulmano israeliano sulla linea rossa
di sangue che continua a fuoriuscire.

Ma chi ha barattato
questo volo libero e individuale?
Chi ha barattato
ha due soluzioni da meditare e il rischio è contemporaneo:
la guerra globale, gli eserciti degli insetti potenti che senza nome sul portafoglio di valori
costruiscono la torre dell’invidia, piena di nicchie, cadente e ne fanno simbolo
del malessere, dio di carta, e da ogni parte vogliono planare
senza misericordia, restituire distrutta
con un processo lento ed inquinante questa limpida lampada con il nulla oleoso
che raccolgono come un gioco sotterraneo di soldi,
di odio, di interessi sulla nostra coscienza!
La coscienza che si illude per non vedere,
gli uomini con regole fallite di benessere
che quotidianamente stampano anima di marca,
la guerra che ci uccide da dentro e che comincia fuori
a trasmettersi dai nostri esseri condizionati, manichini di altri!
O la limpida lampada
che piange una pupilla per contrastare questo nulla,
la limpida lampada sopra Washington, Pittsburgh, Philadelphia, Seattle, Kabul
in fiamme, Gerusalemme, Pechino, Mosca, New York sui suoi palazzi!
New York
da dove la gente è in fuga
e su quel ponte non è solo New York in fuga.
Se come un solvente assieme diradiamo l’ignoranza con ogni mezzo
ed altre lampade con simili occhi che piangono allargando questa luce
tante luci espandono sulla pianura senza fine
sopra la nostra coscienza,
sulla nostra coscienza,
nella coscienza e oltre,
dentro
sciogliendo la neve nera
che cade,
sciogliendo la neve nera
la neve nera
la neve nera
la neve nera
non cadrà
mai più.

 

reazione della nostra velocità
al disastro della generazione di Allen
Ginsberg, Dylan Thomas, Ezra Pound

Sulle scorie
mentre scelgo la polvere,
sui libri chiusi
come una scintilla morente
l’ingiusta giovinezza mia
addiziona le Madrid,
Rome coi tricolori,
Berlin bombardate,
Hiroshima vuote,
Paris occupate dai palazzi,
ciudad lacerate,
strappate e nervose
ginocchia che corrono.
Con una mente interna,
noncuranti del resto, benzina
pronta al riciclo, i nervi sfiatatoi allungano e tendono
l’umanità pompa, orecchie che in persistente nausea
suonano il timpano di verità allagate… Spesso, in periferia,
l’industria nel petto dell’uomo robot
è un nuovo cuore aperto
e bruciante
Eternità.
Guardami storia
mentre scelgo di piangere stamattina
la polvere sui libri chiusi
come una scintilla morente;
guarda l’ingiusta giovinezza mia
e della mia generazione
dissolvere. Guarda.

Tra i cespugli che passano, nuvole secche
di un deserto, l’uomo precipitato di città
rompe la carlinga
e quel volto
del senza corpo oramai,
la velocità immane
tenuta da forze
più grandi di qualsiasi forza,
si vede. Su innumerevoli giri di frequenza
questa velocità
dilania la poesia di Ezra
sul vento del potere Pound,
l’astronomia di Thomas
sulle navi di lobby e di metallo Ginsberg,
la ciurma salpata
con ali di muffa e soldi, sulle vergogne
tutto ciò che ha nome ignoranza. La guerra,
quella inosservata, che proclama
il suo individuo, sottraendolo
ad un universo diverso
che non pare umano ed è invece l’umano
prodotto della distillazione,
lo scarto del sistema
vomitante il suo polmone,
una costa di lettighe
intrecciate da chi è nulla. La morte
è il nostro contributo al progresso, storia?
Ma tra i cespugli che passano, nuvole secche
di un deserto, esplode la velocità come lo sgomento
di chi abbia visto il padre
urlare nella notte,
urlare tra le lenzuola, vi coglie nella febbre
di ciò che preferireste dimenticare.
Allora vi alzate,
sulla pelle
la velocità
non vi resiste
e sul deserto
dell’uomo precipitato di città
sciogliete il volto.
Dopo poco sapranno
cos’è la generazione.

passaggio dell’amore
sulla rivoluzione di una poesia di Jacques Prévert

voglio solo te
voglio solo te
voglio solo te

 

passaggio sull’infinito che sento di te

Quando ti accarezzo per un bacio
è perché sento l’emozione di te
aprirsi un varco tra le parole,
quelle mani d’infinito. Vorrei
non sapere dello spazio che ovunque si estende
per non esser così sciocco da descriverti i capelli:
si sciolgono come un oceano sulla mia bocca
mentre li scosto per il collo.
Il colore che contengono le parole si è espanso
mescolandosi alla forza dello sguardo
che sento come una carezza sulla nuca
eppure non vedo.

 

passaggio di una poesia
di Emily Dickinson

La bellezza straordinaria non ti abbandona
ora che siamo distanti e senza possibilità alcuna
di vederci più; ma i fili che uniscono le parole
in quell’infinito sbattere di ciglia su scie senza meta,
i fili che trasformano la rabbia sulle montagne
rosa, nella decisione di tramontare,
che sciolgono l’epilogo della guerra
dentro di te e dentro di me,
rompono l’indifferenza
e non lasciano confini.
Non mi raggomitolo,
penso agli occhi che svaniscono
nella notte in pianura, al vapore
di una finestra di cielo.
Non mi raggomitolo in un’idea, darò vita
ad un lago di bianco
sui disegni di un libro,
farò abbracciare gli amanti.
Poiché sulla strada eterna
che dal mare porta a Jalalabad,
su verso l’Hindukush,
sopra Kabul, Kandahar,
le montagne dentro di te
sono dentro di me.

 

Passaggio sui grattacieli
di una poesia di Matteo Danieli e di Rafael Alberti

Questo strano tramonto
liberato dai versi
mentre parli di sentirci più spesso
in ogni direzione vibri
corre nel mondo.
Quando io imparavo da te e tu imparavi da me
a portare nello sguardo parole
che se no non sarebbero state,
era tempo in cui pensavamo
che nulla sarebbe accaduto
senza quel passaggio sul Sole. Non pensavamo,
era il domani.

 

Christian Sinicco è nato a Trieste nel 1975. Su «Fucine Mute», tra i primi periodici multimediali ad essere iscritto nel Registro Stampa in Italia (1998), nel 2002, avvia il progetto di catalogazione della poesia delle nuove generazioni, che continua oggi su Poesiadelnostrotempo.it assieme a quello sulla poesia dialettale. Ha inoltre collaborato con i blog e le riviste AbsolutePoetry.org, Villagelibri Scheiwiller e Argo. È Presidente della giuria del Premio Internazionale Franco Fortini e giurato nei premi Pierluigi Cappello, Gianmario Lucini e Giuseppe Malattia della Vallata; dirige il piccolo festival Ad alcuni piace la poesia (San Leonardo Valcellina, PN). Tra le sue pubblicazioni: Passando per New York (LietoColle 2005; prefazione di Cristina Benussi), L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila (Gwynplaine 2014) e Alter (Vydia 2019; prefazione di Giancarlo Alfano).

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