Mentre riflettevo e scrivevo sulle poesie di questo ultimo libro in versi di Giovanni Nadiani, in attesa di incontrarlo personalmente, per uno scambio di idee e sguardi sulla scrittura e sulla vita, mi è giunta la notizia della sua scomparsa. Ora, è stato difficile proseguire, ma in ogni caso è stato importantissimo, anzi, necessario. L’ho avvertito come un modo per portare avanti quel dialogo che avevamo iniziato, con scambio di libri e lettere. Ho voluto seguire il suo insegnamento, quel bisogno di fare con l’altro, per incontrarlo, anche in poesia, verso un orizzonte di conoscenza condiviso, attraverso una parola che crea comunione, e una lingua da custodire, da preservare, da sperimentare… Da traghettare, con fatica e dedizione, nonostante (IMBACONT) questa bolgia della comunicazione, In una citazione, tra le altre, in esergo a questo libro, Giovanni aveva riportato queste parole di Samuel Beckett:

 

Bisogna continuare; è tutto quello che so […]; bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo, bisogna dire delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle, fino a quando esse non mi trovino, fino a quando non mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse è già avvenuto, forse mi hanno già detto, forse mi hanno portato fino alla soglia della mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono, non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo [Malone muore].

 

Anamarcurd (L’arcolaio, 2015) è l’ultima e assai preziosa prova in cui Giovanni Nadiani mette in versi, nella lingua del suo dialetto, parlato a Reda nell’aperta campagna faentina, una solida consapevolezza sulle cose della vita, accanto all’ironia acuta e garbata, che da sempre ne caratterizza la scrittura. Il titolo è da subito una dichiarazione di limite, di resa, ma anche di risposta ambigua e provocatoria, che in qualche modo fa l’eco al capolavoro felliniano di Amarcord, e richiama un’altra magnifica opera in versi, Ricordi di Alzheimer di Alberto Bertoni, che di questo libro firma la prefazione.
Alla sua inclinazione scanzonata e irridente fa da controcanto la profondità della riflessione e del pensiero che si dispiega ad ogni pagina. Ogni poesia, qui, rivela una filosofia di vita, che –nonostante il buio, la perdita, la possibilità del non ricordo- è sempre tesa all’incontro con l’altro, alla bellezza, alla sete di conoscenza e di condivisione. Perché, nonostante il male, siamo condannati ad amare, senza mai fermarci, dobbiamo continuare a cercare l’altro e con esso condividere ciò che di bello, ancora, ci può riservare la vita («u s’à cundanê a vlé ben / a cvel ch’a faðen dè par dè / par truvê l’ecvazion / a la suluzion / d’nö avén mai asé d’pruvê / a incuntrê chj étr int l’imparê»).
Questa sete di ascolto e incessante ricerca, richiede un cambio e uno scambio di prospettiva, che porta ad osservare la vita e ciò che accade, da un punto di vista diverso, provando a mettersi nei panni dell’altro. Atteggiamento che raramente si è disposti ad assumere, poiché richiede la rinuncia a se stessi, una dose di umiltà e una straordinaria apertura mentale: doti che caratterizzavano questo grande poeta. («Noi che vediamo il mondo / soltanto coi nostri occhi // non ci accorgiamo che gli altri / vivono il mondo coi loro occhi»)… e questa valutazione, così apparentemente semplice, è in qualche modo geniale e necessaria, se si pensa a ciò che accade nel mondo oggi.
Nella poesia Invidia, ad esempio, la scena ritrae un abbraccio complice e consolatorio tra una studentessa impaurita per l’esame e la sua professoressa di musica, la moglie del poeta. La scena è descritta attraverso lo specchietto retrovisore dell’auto: una prospettiva studiata per focalizzare qualcosa che riguarda il presente (lo specchio) e il passato (la vista sul retro). Ed è struggente la dichiarazione che chiude questo testo: «… e per tutto il tempo in cui vi vedo / sullo specchietto retrovisore mi dico / che sono quasi geloso per lei invidioso / di tutta quella musica / dentro voi due attorno a voi due / nel cortile della scuola». Ancora più malinconica, se pronunciata nella lingua originale, il suo dialetto, che conferisce all’immagine una profonda armonia tra senso e suono.
Anmarcurd matura nella drammatica lotta tra passato e futuro, nella presa di coscienza del valore delle briciole, degli attimi, dei gesti donati e condivisi… del senso di fare le cose, della straordinaria portata dell’amore. Nel testo intitolato (Noi) c’è una bellissima e verissima riflessione sulla vertigine temporale, sulla necessità di agire con calma, sapendo che i momenti vissuti non possono ritornare, con la stessa forza, intensità, significato.
Giovanni ha scritto questa opera sapendo di essere malato, sapendo che non ci sarebbe stato un futuro luminoso, ad attenderlo. Sapendo, forse, che non ci sarebbe stato un futuro. La possiamo considerare il suo testamento letterario, in cui vengono messe a nudo, con una grande onestà intellettuale e umana, tutte le fragilità che una persona, nel corso della vita e della malattia, può incontrare. Si avverte il valore di certi momenti, scatti sul quotidiano, sguardi, frammenti. Ci si chiede il senso di tutto quello che nel quotidiano si fa, se poi ogni cosa rischia di essere cancellata, dimenticata (dalla mente) e scordata (dal cuore), per la fretta con cui ci affanniamo nel quotidiano; e delle lunghe nottate insonni, in attesa che arrivi l’alba, nella precarietà dei giorni, nell’inconsistenza di un divertimento effimero che sbiadisce spaventosamente davanti al dolore e alla solitudine. Quando si avverte – o si invoca – l’abisso «…noi che ci avvolgiamo / nelle coperte / e ci accucciamo tra il cuscino e il muro / che in silenzio preghiamo / perché il buio il sonno e i sogni / arrivino presto / a portarci via…».
C’è un percorso nel libro, che attraversa le varie prospettive: da quella più privata e inconfessabile, alla visione collettiva. Nella seconda sezione, infatti, che prende il titolo proprio dalla poesia , si sviluppa ad ogni pagina una sorta di inno corale, dove si ribadisce chi e cosa siamo noi: uno sguardo d’insieme, che evoca un senso di appartenenza ad una realtà composita, fatta di famiglia, amici, vicini, comunità. Ecco, quello che Giovanni ha sempre tenuto alto, nel suo lavoro poetico – e in particolare in Anmarcurd – è il senso della comunità, con tutti i suoi pregi e difetti; una concezione molto vicina al senso di comunione cristiana. Siamo creature di questo spazio e di questo tempo, abbiamo avuto la fortuna di incontrarci e di condividere questo pezzo di strada, anche attraverso una lingua comune – la lingua madre.
E proprio questo senso di comunità, di esserci accanto all’altro (ai figli, alla moglie, al vicino, agli amici, ai compagni di viaggio…), per accogliere e condividere è la cifra del suo scrivere. E del suo essere, perché tutte le persone che hanno incontrato Giovanni Nadiani, ne hanno sempre apprezzato la generosità, la disponibilità, l’intelligenza luminosa e acuminata, la disposizione al dialogo e alla compagnia.
Infine, Anmarcurd è un libro intriso di coraggio. La visione intima, il dramma personale, lo strazio del buio che arriva, smorzato a tratti dall’ironia e da una incredibile forza d’animo. L’uomo, e insieme il poeta, ha avuto il coraggio di mettersi a nudo sulla pagina, con grande onestà e profondo spirito religioso, accettando con dignità il limite che caratterizza la natura umana. Ci sono io e ci siamo noi, così, qui e ora, con tutti i problemi, le paure, le angosce. Non possiamo sfuggire al male, al dolore fisico, al degrado… E nonostante questo, la sofferenza rende più lucidi, fa sentire più intensamente il bene che abbiamo dentro, per questo mondo, che non vorremmo lasciare e non vorremmo mai smettere di raccontare. Attraverso una lingua antica, che porta con sé il passato e che accoglie il presente, mentre si contamina e si rinnova. E’ questa la lingua di Giovanni: nonostante la tensione al nulla, al vuoto, alla polvere che assorbe ciò che siamo, il suono oltrepassa il tempo; il suono è il principio, come insegna il Vangelo di Giovanni (« In principio era il Verbo (Lόgos), / il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio» Giovanni 1: 1-3).
Ogni suono, ogni singolo verso di Giovanni Nadiani risuonerà nelle nostre corde, riportandoci alla mente quel sorriso autentico e carico di luce, il suo essere poeta e uomo di grande spessore, che con grande stima e gratitudine vogliamo ricordare.

 

da ANMARCURD (L’arcolaio 2015)

IMBACONT

… da cvarâñt’èn ormai e piò
dal vôlt incòra a s’disten
e’ côr ch’e’ bat a mel da un êtar mònd
la piôva ch’la cori nt e’ gargöz dal doz d’rezna

sinö la lona pina a rídas ‘t faza
int la nöstra tësta l’è pracis:
la paràbola ch’la n’ven brisa
l’esâm d’maturitê da dêr insen
un’êtra vôlta cun la prof d’matemàtica
a fês la gnegna a dês dla ligéra…

.. fórsi l’è stê pröpi par cvest
che e’ nöstar stòmach l’à arbutê e’ disten u s’à cundanê a vlé ben
a cvel ch’a faðen dè par dè
par truvê l’ecvazion a la suluzion
d’nö avén mai asé d’pruvê
a incuntrê chj étr int l’imparê
e cun chj étr
(par nó – vec – ormai un êtar mònd)
spartì tot i mument cal briðal d’bël
ch’al s’fa s-cen insen …

NONOSTANTE …da quarant’anni e più, ormai / a volte ancora ci svegliamo / il cuore in subbuglio da un altro mondo / la pioggia gorgoglia nelle grondaie di ruggine oppure la luna piena riderci in faccia / per la nostra mente è indifferente: / la parabola che non viene / l’esame di maturità da sostenere insieme / un’altra volta con la prof di matematica/ a farci un ghigno in faccia a dirci scansafatiche… // ….. forse è stato proprio per questo / che il nostro stomaco ha ribaltato il destino / ci ha condannato ad amare / ciò che facciamo giorno per giorno / per trovare l’equazione alla soluzione / di non essere mai sazi di provare / ad incontrare gli altri nell’imparare / e con gli altri / (per noi – vecchi – ormai un altro mondo) / condividere in ogni istante quelle briciole di bello / che ci rendono uomini insieme …

nó ch’a fasen i cvel
sèmpar in freza
pinsend ch’e’ vnirà e’ su dè ch’a putren lavurê
cum ch’u s’dev
cun tota la chêlma ch’u i vó par fêr i cvel fet ben…
nó a n’s’n’adasen brisa
che chi cvel ch’a lè
fet in prisia e furia
l’éra e’ masum
ch’a putegna fê
adës ch’u s’è fat terd
l’è bur
e a n’gn’ariven piò drì
nè cun la fôrza
ch’a j aven pers
e gnânch cun i dè
ch’a j aven finì
par nö scorar de’ sens
d’fê chi cvel
ch’a n’l’avden piò invel…

NOI – noi che facciamo le cose / sempre in fretta / pensando che verrà il giorno / in cui potremo lavorare come si deve / con tutta la calma che ci vuole / per fare le cose fatte bene / noi non ci accorgiamo / che quelle cose lì / fatte in fretta e furia / erano il massimo / che potevamo fare / ora che si è fatto tardi / è buio / e non ci arriviamo più / né con la forza / che abbiamo perso / e nemmeno coi giorni / che abbiamo finito / per non parlare del senso / di fare quelle cose / che non lo vediamo più da nessuna parte…

 

INVIGIA
…la burdela mora albanesa prema dla clas arpuneda dri da la muraja de’ curtil
cun la chitara ins al spali ch’l’aspeta inguseda par l’urel dl’esam d’terza
ch’la t aspeta
te
ch’la n ved l’ora che t ariva
te
pr brazet
te
mi moj
prufesuresa int l’indirizzo musicale
te
mi moj
piò streta ch’ne me
cun la pasion che te t é spartì a lè cun li la musica d’una vita a culur pina d’fiur (senza la pavura d’fer ridr)
a la faza di culega ch’i l’amaza dè par dè cun la pavura de’ su ruger dla buciadura…
…e par quant ch’a v vegh
int e’ spicet dla màchina a m degh ch’a so quasi gelos d’li invigios d’tota cla musica
dentr a vó dò atorna a vó dò
int e’ curtil dla scola
in do che te tra du tri dè
t an la vdiré piò
ch’la dona…

INVIDIA – … la ragazzina mora albanese prima della classe / / nascosta dietro il muretto del cortile / con la chitarra sulle spalle / impaurita alle lacrime per l’orale dell’esame di terza / che ti aspetta / te / che non vede l’ora che arrivi / tu / per abbracciarti / te / mia moglie / insegnante sull’indirizzo musi- cale / tu / mia moglie / più stretta di me / con la passione che hai condiviso con lei / la musica di una vita a colori piena di fiori / (senza la paura di essere ridicole) / alla faccia dei col- leghi che l’ammazzano giorno per giorno / con la paura della bocciatura … / … e per tutto il tempo in cui vi vedo / sullo specchietto retrovisore mi dico / che sono quasi geloso per lei invidioso / di tutta quella musica / dentro voi due attorno a voi due / nel cortile della scuola / dove tu tra alcuni giorni / non vedrai più / quella donna …

 

Giovanni Nadiani è nato nel 1954 a Cotignola (Ra) e ci ha lasciati il 27 luglio 2016. Dal 2001 ha svolto attività di ricerca e di insegnamento presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori dell’Università di Bologna, sede di Forlì.
Ha pubblicato alcune monografie e diversi saggi su questioni di teoria e pratica della traduzione letteraria e multimediale, su lingue e generi testuali minoritari.
Per Mobydick ha pubblicato le raccolte poetiche e’ sech (1989); TIR (1994), parti delle quali sono confluite nell’antologia personale Feriae (Marsilio, Venezia 1999); Beyond the Romagna Sky (2000) e nel 2010 Guardrail (Pequod); le raccolte di storie brevi Nonstorie (1992); Solo musica italiana (1995); Flash – Storie bastarde (2004). Cinque pometti dal titolo Sens sono stati pubblicati dall’editore Pazzini (2000). Del 2002 è il monologo teatrale Förmica – Flusso d’in-coscienza, mentre del 2005 è il doppio album di monologhi sulla musica dei Faxtet Romagna Garden – caBARet (Mobydick). Del 2004 è il volume di liriche Eternit® (Editore Cofine, Roma). Per l’editore Bacchilega – Sette Sere ha pubblicato nel 2006 il CD S-cen/People – DialetCabaret. Sempre col Faxtet per Mobydick ha pubblicato nel 2007 i CD-libro di poesie sonore in musica Best of e’ sech. Anamarcurd, esce nel 2015 per la Casa editrice L’arcolaio di Forlì. Per la sua attività poetica ha ottenuto moltissimi premi. In qualità di traduttore ha curato, tra l’altro, le opere di numerosi poeti e narratori tedeschi, neerlandesi e di varie aree linguistiche minoritarie.

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