Si può giudicare un libro dal suo titolo? Probabilmente no, ma qualcosa questo vorrà pur dire. La recente traduzione di The Waste Land di T. S. Eliot a cura di Carmen Gallo edita da il Saggiatore (2021) ha molti meriti. Il principale è l’aver ripensato e rischematizzato un’opera complessa. Ad avviso di chi scrive, un merito ulteriore è l’aver proposto una nuova traduzione del titolo, per cui si passa dal vecchio Terra desolata a Terra devastata. Questa scelta, come la stessa traduttrice dichiara nelle note al testo, permette di mettere “in evidenza la dimensione storica e trans-storica del poemetto” e “non occulta l’accezione di waste come «rifiuti, scarti», quelli che troviamo nel Tamigi «pieno di bottiglie vuote, carte da sandwich, fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di sigarette»”.
La devastazione di cui parla Eliot nel corso del testo è morale e paesaggistica e i rifiuti ne sono uno dei tanti correlativi oggettivi. La scelta di Eliot di fare riferimento agli scarti si situa perfettamente nell’immaginario del suo tempo. Il legame tra rifiuti e devastazione è forte, seppur poco diffuso probabilmente, negli anni in cui l’autore scrive.
A distanza di molti decenni, la pervasività dei rifiuti è tale da essere parte indissolubile di molte esperienze individuali e collettive. Nonostante questo, la percezione di questi scarti non è cambiata. I rifiuti, la spazzatura, sono quello che non vogliamo, sintomo del peggio di noi. Si può pensare agli scarti in modo generativo? La poesia contemporanea ha un ruolo?
Questo post si pone di rispondere a queste domande.

Il salto di qualità della plastica
Il 2020 è stato, tra le tante cose, l’anno in cui due scoperte scientifiche hanno segnato il salto di qualità della plastica (o meglio, delle plastiche).
Un salto di qualità che era sotto gli occhi di molti.
Prima evidenza: il peso dei manufatti prodotti dagli esseri umani eccede quello di tutti gli esseri viventi. Il peso della plastica, 8 miliardi di tonnellate, è il doppio rispetto a quello degli animali.
Seconda evidenza: tracce di microplastiche sono state rivelate nella placenta di esseri umani gestanti.
Uniti, i due livelli dicono che potremmo aver avuto contatti con le plastiche sin dai primi giorni della nostra esistenza. Non solo, avremo rapporti con queste plastiche fino alla fine del nostro tempo. La stessa plastica con cui abbiamo avuto contatti potrebbe averne con chi verrà dopo, in uno spietato sovvertimento della nota immagine del cambiamento in cui il fiume siamo noi e la plastica sta a guardare.

Timothy Morton in Iperoggetti (Nero 2018), sostiene che il livello di contaminazione del pianeta sia tale da non poter più parlare di Natura. Quanto esperito e vissuto quotidianamente è invece un’interazione con materiali prodotti dall’essere umano, perlopiù contaminanti. La massima espressione dell’antropizzazione è quindi la devastazione dell’ambiente.
In questa sfera operano anche la plastica e gli altri scarti: materiale umano, che nel suo salto di qualità si fa oltre-umano, per durata e persistenza. In queste due dimensioni, gli scarti si strutturano nella loro componente contaminatoria.
C’è bisogno di grandi eventi catastrofici, tartarughe impigliate nelle pellicole, fiumi di plastica navigati da esploratori, per farsi medium che configuri il rischio, non percepito nella quotidianità.

L’eterno ritorno del rifiuto
È stato mostrato che la consapevolezza del cambiamento climatico sia cognitivamente stressante. Lo stress è tale da condurre molti a mettere la consapevolezza sotto un tappeto mentale, oppure negarlo del tutto (c’è pur sempre il quieto vivere di una comunità da tutelare). La cassa di dissonanza cognitiva batte dove il cuore duole, non solo nel caso del cambiamento climatico.
Per la plastica vale un discorso simile.
Nella sua presenza, essa si ripete sempre due volte: la prima volta come un materiale di supporto, la seconda come scarto. Nella prima apparizione si compie la sua utilità: leggera, poco cara e facilmente sbarazzabile, come se dopo l’utilizzo raggiungesse un altrove “ontologicamente alieno”, come sostenuto da Timothy Morton in Iperoggetti. Nella seconda apparizione si compie una speranza: rivederla sotto forma di altro materiale da utilizzare.
La maggior parte della plastica viene in realtà esportata in un altrove che continua a riguardarci. Nella gestione della spazzatura e della plastica si stanno infatti disegnando nuove disuguaglianze internazionali: da un lato quelli chi riescono a sbarazzarsi dell’ingestibile e dall’altro quelli che lo portano nel loro territorio, in un aggiornamento del sistema mondo.
Occhio non vede, cuore non duole, soprattutto se batte sulla cassa di dissonanza cognitiva. Come per il riscaldamento globale, servono grandi ed estremi fenomeni atmosferici per aumentare la consapevolezza. Nel caso della plastica, e dei rifiuti in generale, vi era stata la crisi campana a metà anni 2000, liquidata come problema locale, salvo scoprire poi le responsabilità di tutta la filiera produttiva nazionale.
Recentemente invece è arrivata la nuova consapevolezza: la scoperta di una Grande Chiazza di immondizia, una Foster-Wallaciana Grande Concavità galleggiante. La spazzatura deve invadere lo spazio semantico per presentarsi. È necessario che qualcuno guadi acque piene di rifiuti per far guardare la pubblica opinione:

Questi sono
I miei fiumi

Giuseppe Ungaretti, da Vita d’un uomo. Tutte le poesie (Mondadori 2005)

Si fa fatica, di contro, a percepire la contaminazione come quotidiana, lenta. Si fa fatica a pensarla partire dagli scarti che produciamo. Ciò che noi siamo è ciò che non vogliamo.

Umani, troppo umani, oltre-umani
Si può definire un immaginario che dia agli scarti una dimensione quotidiana? Si possono recuperare gli scarti e porre una nuova base per pensarsi? I precedenti non mancano, perché sarebbe come descrivere il patologico per definire il normale, idea ampiamente presente nell’opera freudiana, oppure partire dalle crisi per capire le dinamiche comunitarie, idea ampiamente presente ne La fine del mondo (Einaudi 2019) di Ernesto De Martino. Si tratta, infine, di vedere quanto generative siano le degenerazioni nei gesti di ogni giorno, soprattutto quelli non consapevoli, che si ritengono essere altro da noi.
Oltre ai precedenti della teoria psicologica e antropologica, esistono esempi in letteratura? In particolare, nella poesia italiana contemporanea?
Con le dovute cautele, si può. Si faranno qui due esempi in tal senso.
Il primo esempio viene da un testo di Luigi di Ruscio:

Di questo italiano straniero non sappiamo niente
si sa solo che puzza ed esiste.

da L’ultima raccolta (Manni 2002)

Di Ruscio prende in esame una doppia idea di scarto: la prima fa riferimento ai rapporti interni alle fabbriche, le sue gerarchie che vogliono i lavoratori immigrati come ultimi. Questi sembrano presentarsi agli altri soltanto in funzione di caratteri direttamente esperibili in una situazione sociale che non prevede contatto (la puzza).
La seconda idea di scarto presa in considerazione da Di Ruscio è poi legata a un’operazione di memoria, che recupera una fase storico-sociale, le migrazioni dei cittadini italiani, per molti rimosso sotto un tappeto mentale. In Di Ruscio, le caratteristiche fisiche degli scartati vengono fuori prepotentemente, facendosi veicoli di memoria storica e attributo identitario.
Molto più orientato verso una poetica degli oggetti è il Francesco Terzago di Caratteri (Vydia 2018). Nel libro, oltre a una forte presenza di oggetti in plastica (fiori di plastica, giocattoli di plastica, tovaglie di plastica), compare diverse volte la polvere, che è medium di un vissuto precedente all’esperienza individuale:

la polvere ci è sgradevole in modo transitorio,
poiché con l’umidità di questi luoghi presto
si raggruma, si fa terra, si fa muschio bianco,
erba nera; chissà – con la dovuta pazienza
sarà la radice, che scenderà giù, nel profondo,
tra le scapole.

da Caratteri (Vydia 2018)

Terzago mostra la storia presente negli scarti e attraverso di essi immagina scenari futuri.
In questi due esempi, ciò che è scartato ha caratteristiche tali da definire il funzionamento dei rapporti sociali e la possibilità di proiettarsi nel tempo. Lo scarto è parte di un’intelaiatura di significati che non possono essere ignorati perché definiscono, non per differenza, ma per addizione.

Contributi per un immaginario degli scarti
Si può partire da questi esempi per definire una poetica degli scarti. Una modalità potrebbe partire indagando i meccanismi di gestione del troppo, prima che diventi rifiuto. Si potrà poi giungere a un arco interpretativo, che veda nei rifiuti la gestione di noi stessi e la funzione del ricordo. Tutto questo, per evitare che debbano essere i grandi fenomeni catastrofici a farsi unico medium di apparizione di entità che si ritengono appartenere a una sfera altra, non-quotidiana.
Per far sì, infine, che i margini vengano inclusi e non più scartati.

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