Particolare di una foto di Laurent Rebours

 

Architrenius di Giovanni di Altavilla è uscito oggi per Carocci editore. Ho avuto la possibilità già due anni fa di leggere alcune parti e commentare il latino, a Roma, a casa dei poeti Lorenzo Carlucci e Laura Marino, che hanno curato questa edizione. Un latino ostico con parole derivanti dal greco, poi declinate, per un poema denso di riferimenti a luoghi e personaggi del Medioevo, a moltissima mitologia e storia classica. Leggendo le bozze del libro mi resi conto che Lorenzo Carlucci e Laura Marino avevano fatto una grandissima scoperta. Credo che per la letteratura tutta e in particolare quella italiana, sia una notizia grandiosa, sconvolgente per chi è ossessionato dall’originalità delle opere, per altri invece capace ancora una volta di dimostrare la grande cultura di Dante e di Leopardi.

Innanzitutto di cosa parla Architrenius e qual è la sua filosofia?

Laura Marino: La trama del poema è la seguente. Un uomo, giunto a metà della sua vita, si volge agli anni trascorsi e si accorge di non aver dedicato un solo giorno alla virtù; si interroga circa le cause dell’intrinseca infelicità degli uomini e della loro naturale propensione al vizio. Decide, pertanto, di andare alla ricerca della Natura, che ritiene responsabile della creazione del genere umano, per scoprire le ragioni del suo accanimento verso le creature. Mosso da questo intento, e morale e conoscitivo, il protagonista attraversa tutte le parti del mondo, luoghi reali e allegorici che sono le rappresentazioni dei vizi umani: la casa di Venere, la Taverna, la città di Parigi, gremita di studenti di logica, la Corte e il Chiostro eretti sul monte dell’Ambizione e sul colle della Presunzione, il campo di battaglia tra prodighi e avari. In queste peregrinazioni, l’eroe interagisce con i personaggi viziosi che abitano questi tableaux, si tratta di personaggi mitici, come Venere e Cupido, eroici come Sir Gawain, o storici, come il console Crasso, o anche soltanto verosimili rappresentanti di classi sociali, il mercante, l’usuraio, o tipi fissi come il ricco epulone. Infine il protagonista, quasi disperando di poter trovare risposta al suo interrogativo morale (tanto ogni esperienza dimostrava la naturale sofferenza dell’uomo e la sua viziosità quasi a porvi riparo), sbarca all’isola di Tylos: qui una corona di antichi saggi, sapienti e filosofi, declama lunghe orazioni sulle virtù dapprima stoiche e poi più strettamente cristiane. Anche in questo caso il protagonista lamenta l’insufficienza di questa morale nel rispondere al suo quesito, addirittura essi definiscono il mundus come immundissimus. Infine si palesa la gigante personificazione della Natura che propina alle orecchie già sature del protagonista una lunghissima e complicata lezione di Cosmologia. Architrenio è disperato, niente e nessuno ha potuto mostrargli una via agibile per la salvezza: piange ai piedi della Dea, madre e matrigna del genere umano, gridando la rabbia e il dolore di tutti gli uomini. La dea muta e si dispone a rispondere, il romanzo si avvia alla sua conclusione felice: viene proposta all’eroe in sposa la Moderazione, affinché egli possa inserirsi nel ciclo di riproduzione imposto ai viventi dalla Genesi. Una dettagliatissima descrizione del banchetto nuziale, definito infine come l’eterno banchetto divino, chiude il poema su ancelle, doni, strumenti musicali e vivande a simbolo delle virtù.
Rinvenire una ideologia certa o delle ascendenze sicure da un testo così complesso e vario – e soprattutto intoccato dalla critica contemporanea – è un compito molto arduo e soprattutto l’opera si offre passibile di molteplici interpretazioni. Nell’introduzione al volume ho provato a definire alcune coordinate filosofiche per inquadrare l’opera, ma c’è tanto ancora da fare! Un ostacolo non indifferente è dato dal fatto che la posizione espressa dal protagonista in viaggio (proprio dal punto di vista etico-filosofico) non coincide immediatamente con quella dell’autore. Per intenderci, i primi lamenti di Architrenio hanno tutto l’aspetto di un pensiero manicheo, che intravede cioè in una potenza malvagia, la Natura, il demiurgo del mondo, indipendente dalla volontà divina. Questa è una posizione molto forte e anche eterodossa perché mette in discussione l’esistenza della Provvidenza e della bontà della creazione, ma tutto il viaggio è mosso dalla volontà di sconfessare questa credenza; così infatti accade nel finale quando la Natura sposa il giovane protagonista e si rivela come seconda a Dio. Anche rispetto alla cosiddetta Scuola di Chartres la situazione è molto simile: se per certi versi il protagonista afferma le medesime speranze razionalistiche, presto questi si accorge dell’insufficienza della ragione umana di catturare gli enti più sottili (cioè le stelle che erano un importante oggetto di studio nella scuola francese). Da questa Scuola dipende invece il platonismo di fondo che sostiene l’intera opera e che si traduce in una profonda e sentita consapevolezza della distanza tra il finito e l’infinito, tra l’uomo e Dio, un abisso che la Grazia sola sembra poter colmare. Ho dato soltanto un paio di spunti di ragionamento, la verità è che si tratta di un testo straordinariamente ricco che funziona come certi diamanti accostati a fonti di luce: si rifrange in molti rivoli, confonde, acceca, disturba, consola, aderisce a quel che poi rifiuta e si rasserena in quella forma del pensiero che dapprima aveva giudicato fallace, nega e afferma per concludersi in un finale non aperto, certo, ma neanche di immediata interpretazione.

Come è stata riscoperta quest’opera, quali le traduzioni attuali e le fonti riguardo alla ricezione nel corso della storia?

Lorenzo Carlucci: L’opera non è stata propriamente “riscoperta”, o almeno non da noi! Pensa che il testo latino integrale è addirittura disponibile in rete nella Bibliotheca Augustana (http://www.hs-augsburg.de/~harsch/Chronologia/Lspost12/IohannesHauvilla/hau_arc0.html). Ma la storia della ricezione dell’Architrenius è assai singolare. Prima della nostra traduzione l’unica versione in lingua moderna è quella in prosa inglese di Winthrop Wetherbee del 1994, riedita quest’anno per la Harvard University Press in una edizione riveduta. Un mio omonimo Nicholas P. Carlucci tradusse l’opera (sempre in prosa inglese) nella sua dissertazione dottorale del 1977 rimasta però inedita. Queste traduzioni si basano sull’edizione critica moderna che è quella di Paul G. Schmidt del 1974.
Ciò nonostante, il poema di Giovanni è rimasto in qualche modo tra i “sommersi” del canone occidentale – basti pensare che finora non ha ricevuto attenzione monografica, e che esistono soltanto una manciata di articoli dedicati all’Architrenius.
Eppure nella sua epoca l’Architrenius era un classico: ebbe grande successo tra i contemporanei, diventando quasi immediatamente parte del curriculum degli studi. Gervaso di Melkley, autore di una influente Poetria, assicura che lo studio attento dell’Architrenius sarebbe “da solo sufficiente a educare un animo rude”. Al successo immediato segue però un periodo di progressiva marginalizzazione durante il Rinascimento, forse condizionato – almeno in Italia – da una violenta stroncatura dell’Architrenius da parte del Petrarca, che lo descrive come una “accozzaglia di parole” che suscita ilarità e mal di stomaco “a tal punto, volendo dire tutto, non dice nulla”. Giovanni e il suo poema subiscono l’ostracismo da parte del ciceronianesimo imperante tra i nuovi umanisti; si assiste alla ricomparsa del testo presso la stamperia parigina dell’erasmiano Josse Bade Ascensius nel 1517, all’alba della Riforma. L’editio princeps diviene però precocemente rarissima, e segue, in epoca di Controriforma, un nuovo periodo di oblio quasi completo. Il testo viene “riscoperto” dai filologi anglosassoni e francesi di fine Ottocento, fatto salvo un precoce intervento di Warton alla fine del Settecento nella sua History of English Poetry, opera che ebbe grande influenza sul Romanticismo europeo. Ma nella temperie culturale dell’epoca, nel clima di costruzione delle letterature nazionali, l’Architrenius viene nuovamente collocato al margine del canone, per quanto venga censito (spesso anche elogiativamente) nelle storie della letteratura francese e inglese. Wright, che ne dà una prima edizione critica nel 1872, lo etichetta come letteratura satirica, pur giudicandone l’autore il “più rimarchevole poeta del dodicesimo secolo”.
A ben vedere, come alcune nostre ricognizioni hanno dimostrato, l’Architrenius ha avuto una trasmissione continua ma quasi esoterica, ed è stato, prima dell’Ottocento, invariabilmente lodato come una delle opere più importanti, se non la più importante, del XII secolo. Nonostante non rispondesse al gusto dominante, i maggiori umanisti europei lo giudicano il miglior poema del XII secolo. Il testo di Giovanni ha trovato nei secoli alcuni estimatori d’eccezione, molti dei quali rappresentanti di qualche forma di inquietudine – se non di dissidenza – religiosa. Tra questi spicca, per esempio, la figura di Giovan Battista Pio, primo commentatore di Lucrezio e grandissimo estimatore del poema di Giovanni di Altavilla, da cui cita ampiamente proprio nel suo commento del 1511 al De Rerum Natura. All’inizio del XX secolo il massone Rudolf Steiner annovera Giovanni di Altavilla, insieme a Gioacchino da Fiore, tra gli illuminati del XII secolo, ponendoli a un livello superiore ai maestri filosofi della Scuola di Chartres quali Bernardo Silvestre e Alano di Lilla. Anche C.S. Lewis, le cui simpatie per il manicheismo sono ben note, non manca di riconoscere la grandezza del poema: esso “supera di gran lunga tutti i suoi analoghi”. Commentando la risoluzione del protagonista di andare pellegrino per il mondo alla ricerca della Natura per chiederle conto del suo odio verso l’uomo, Lewis scrive: “Improvvisamente, in mezzo a tanti esametri diligenti, è una voce viva che si leva e comincia a parlare. Subito dimentichiamo i nostri interessi storici e lasciamo da parte le date: è espressa qui un’aspirazione universale, e, se non fosse per la lingua, questi versi potrebbero appartenere a un’epoca qualsiasi”.
Questa storia può almeno in parte spiegarsi, oltre che con le caratteristiche stilistiche del latino di Giovanni, anche in base ai contenuti ideologici dell’opera: l’idea di Natura che domina l’Architrenius, e l’ambiguità del suo messaggio finale non potevano farne il campione di alcuna delle ideologie dominanti dalla sua comparsa fino ai nostri giorni.
La condanna del Petrarca, il latino ardito e sperimentale, l’ambiguità e la complessità del messaggio dottrinale dell’Architrenius ne hanno fatto un testo “sommerso” del canone occidentale, almeno dal punto di osservazione della critica contemporanea. Lo studio della sua influenza sulla letteratura europea è un’impresa che promette interessanti sorprese, come le nostre prime ricognizioni sui casi di Dante e di Leopardi, credo, dimostrano. Non si tratta di una questione di gusto: si tratta di ricollocare al posto che le spetta un’opera che, come tutti i dati disponibili suggeriscono, ha esercitato una influenza attiva e prolungata sulla letteratura europea.

L’inizio del Capitolo VIII dell’Architrenius, mi ha fatto immediatamente pensare a come inizia la Commedia. Pensate anche voi che Dante abbia trovato il modo di citare l’opera di Altavilla?

Laura Marino: “Citare” forse non è la terminologia adeguata; per non attirare l’avversione degli studiosi il primo giorno della pubblicazione, limitiamoci ad analizzare i dati che saltano all’occhio del lettore al primissimo sguardo. La struttura delle due opere è estremamente simile vista, diciamo, anche solo da lontano: un protagonista-everyman affronta, in carne e ossa, un viaggio attraverso mondi trascendentali (sottratti alla contingenza del tempo) ove sono rappresentati i vizi attraverso personaggi viziosi (storici, mitici, verosimili); scopo del viaggio è l’affrancamento dal peccato per se stesso e per l’uomo in generale; giunge infine a gustare la gioia divina. E già qui siamo davanti a qualcosa di inedito rispetto al resto delle fonti dantesche note. Per quanto riguarda proprio l’inizio della vicenda (un uomo, a metà della sua vita, si rende conto di aver vissuto immerso nel vizio ed affronta un viaggio con lo scopo di redimere e comprendere le cause della propria condotta) le somiglianze sono molto stringenti, ma anche topiche (non tanto direttamente, quanto nei commentarii alle opere dell’epica classica). Più notevole mi sembra il riferimento alla silva (traduzione latina della hyle platonica, ossia della materia) nei versi incipitari di entrambe le vicende: non è necessario che ricordi la selva di Dante, nell’Architrenius il protagonista è connotato dalla selvaticità del volto attraverso una serie di metafore “boschive” (“Dumescente pilis facie, radioque iuvente/ obscuris pallente genis, cum mala viriles / exacuit nemorosa rubos nec primula mento/ vellera mollescunt, virides quot luserit annos,/ respicit […]; Libro I, 217-220).

Foto di @Laurent Rebours

Anche stilisticamente o in riferimento alle questioni di genere letterario, l’Architrenius presenta un profilo straordinariamente sovrapponibile a quello della Commedia; esso ha infatti il pregio di essere un collettore delle tendenze letterarie coeve, in special modo le forme nuove del romanzo e quelle più intellettualistiche, quindi filosofiche, scientifiche e teoretiche, raccogliendo in sé anche i caratteri peculiari della letteratura allegorico-didascalica e della letteratura mitologica e storica antiche e tardoantiche; tale carattere è evidente nello spiccato plurilinguismo del testo. Questa capacità di convogliare la cultura medievale in un’opera-mondo plurima e compatta insieme è, come sappiamo tutti, uno dei talenti precipui della Commedia. Mi sto limitando a ciò che è evidente già dalla prima lettura dell’opera, pur se ho rinvenuto alcune vere e proprie “citazioni” letterali (ovviamente in traduzione dal latino dell’Architrenius al volgare della Commedia), che da sole non basterebbero certamente a postulare una conoscenza diretta da parte di Dante del poema di Giovanni, ma ottengono un valore di un certo rilievo grazia alla somiglianza strutturale. Tra le varie, vale la pena riferire la battaglia tra i prodighi e gli avari, rappresentata nell’Inferno e nel quinto libro di Architrenius e che in questa forma è assente da qualsiasi altro testo precedente a Dante.
Queste notizie preliminari mi sembrano, intanto, sufficienti a domandarsi se Dante poteva in qualche modo avere contatto con un testo scritto un secolo prima nel Nord della Francia. Qui diventa tutto molto più nebuloso e complicato perché sappiamo pochissimo della vita di Dante e dei luoghi della sua formazione; tanti studiosi si stanno occupando proprio in questi ultimi anni di ricostruire la biblioteca di Dante e la geografia fisica e intellettuale dei suoi studia. Certo è che la mobilità dei beni librari nel XII e nel XIII secolo europei è di molto superiore a quel che comunemente si crede e il grande successo dell’Architrenius a ridosso della sua pubblicazione ci fa pensare che esistono le possibilità reali di un incontro tra il poema latino e Dante. Si tratta di un campo minato estremamente complesso e ancora da esplorare; finora possiamo dire con certezza che il testo ha tutto l’aspetto di un antecedente della Commedia. Anche qualora non si trovasse un manoscritto di area italiana del tempo di Dante, questo accidente non basterebbe a squalificare del tutto l’ipotesi di una lettura diretta da parte di Dante, tali e tante le congruenze tra le due opere e ingiustificabili attraverso qualsivoglia mediazione.

Poi, certo, c’è il viaggio nei peccati del protagonista: ho trovato che mentre Giovanni di Altavilla soffre ironicamente o con distacco per tutti i vizi dei personaggi nominati, ispira nel lettore una licenziosa simpatia, in Dante questa prospettiva invece si fonda nel dolore e nella presa di posizione, spesso netta, se pensiamo all’Inferno come luogo in cui i personaggi sono stati inseriti. In Giovanni di Altavilla prevale il dubbio su come possano gli uomini redimersi e c’è anche una riflessione su come essi si vadano a originarsi, essendo l’uomo parte della Natura e suo corruttore. In Dante la posizione sembra più netta, la natura dei peccati più chiara, come la via della redenzione. Come spiegare differenze così profonde dal punto di vista ideologico?

Laura Marino: Mi trovo a dissentire, non tanto sulla differenza ideologica tra i due, che esiste certamente, quanto sull’atteggiamento del protagonista del poema latino nell’incontro con i viziosi. Tra l’altro questa lettura era chiara già al pubblico medievale, infatti nel Prologo (successivo e non di Giovanni) si afferma: “In quasi ciascun luogo della sua peregrinazione [Architrenio] ha compassione per il mondo che naufraga sotto i flutti dei vizi”. Quel che rende l’Architrenius straordinariamente moderno è proprio la tenuta psicologica del protagonista e dei personaggi secondari; ovvero, l’istanza filosofica iniziale è la seguente: perché la Natura ha creato un uomo incapace di rispettare le leggi naturali, cioè intrinsecamente vizioso? Quando si avventura nel mondo dei vizi il protagonista in fondo preferirebbe dare la colpa all’uomo, cioè irridere i viziosi e distaccarsene come “malvagi”, perché questo permetterebbe la salvezza dell’immagine della Natura, quindi della bontà della creazione. La tendenza psicologica del protagonista è quella che hai notato tu, ma se leggi bene, ti accorgerai che alla fine di ogni incontro con i viziosi, Architrenio, o direttamente la voce narrante del poeta, nota la coazione dell’uomo a comportarsi peccaminosamente perché è la sua stessa natura, o la natura dei beni materiali a rendere necessario il vizio. Così, vediamo che il goloso e il beone sono spinti a mangiare e a bere perché la vita umana è un susseguirsi di sofferenze, che certi beni materiali hanno il potere di alleviare; nella corte il male che si procurano gli uomini vicendevolmente dipende dalla paura del potente e dallo stato di necessità materiale dei poveri; e così via dicendo. Quindi il protagonista ha due atteggiamenti diversi, talvolta l’uno dopo l’altro, talaltra sovrapposti, nel corso dei suoi incontri: l’ironia e la satira, come forme di un certo distacco emotivo, e la lamentazione, come forma della compassione per la comune natura umana, così depravata ab origine, deviata e sofferente di necessità. D’altro canto la posizione di Dante stesso nell’inferno è estremamente varia, alla compassione empatica con Francesca da Rimini si accostano le invettive contro Fiorenza e la violenza verso Filippo Argenti, per esempio. Il rapporto che hanno i due protagonisti con i personaggi secondari è quindi molto simile. Semmai la differenza è strutturale: Dante viaggia attraverso un oltremondo che è architettonicamente concluso dalla volontà divina e ha un geografia simbolicamente chiara, il male sotto e a salire per gradi di bene fino a Dio; Dante auctor sa dirigere il suo protagonista in un ordine morale assoluto e certo perché si riferisce a un significato etico del mondo immutabile e statico, consegnato a priori. Giovanni è, invece, tutto coinvolto nella quête-quaestio del suo protagonista, dentro un senso che si va costruendo insieme alle marce erratiche del suo anti-eroe della sapienza, del suo personaggio negatore di ogni forma armonica del creato. Il bene e il male nella Commedia sono chiaramente identificati e hanno una loro sede stabile, fissa; è dentro questa stabilità e fissità che Dante personaggio può permettersi di mostrare affinità e distanze emotivi con i vari peccatori. L’Architrenius è un mondo in fieri, proprio in virtù dello scardinamento delle coordinate etiche, il protagonista può affondare in tutti gli abissi del male e guardare all’infinita pena dell’esistere, forte della fede in un significato che sarà concesso solo attraverso il cercare. Attribuisco queste differenze a fattori di carattere sociologico-economico e filosofico: è indubbio che la rinascenza del XII secolo dava a Giovanni la libertà e la forza di ripensare l’esistente secondo categorie nuove, così la crisi dei vecchi sistemi economico-accademici gettava le basi di nuove realtà sociali, come la borghesia intellettuale; in generale la fine del secolo imponeva ripensamenti e ricostruzioni su una fiducia di base nella capacità dell’uomo, che il razionalismo della cosiddetta Scuola di Chartres aveva generato. Il contesto socio-economico della scrittura della Commedia lo conosciamo tutti: agli albori del quattordicesimo secolo era necessario licenziare il Medioevo in una formula di indiscussa chiarezza e stabilità, che sa e può organizzare il mondo in un ordine non alterabile, anzi consegnato come eterno e indiscutibile.

Secondo voi, perché Petrarca era così contariato dall’opera di Giovanni di Altavilla?

Lorenzo Carlucci: La stroncatura da parte del Petrarca risulta, se letta nel suo contesto, del tutto strumentale. Petrarca critica l’Architrenius all’interno di una veemente polemica con il grande teologo francese Jean de Hesdin, intorno al problema dell’esilio avignonese del papato. De Hesdin, nel suo scritto contro Francesco Petrarca, cita l’elogio di Parigi da Architrenius 2, 484-493, all’interno di un elaborato argomento volto a dimostrare la superiorità culturale della Francia e dunque l’opportunità della permanenza del papato in terra francese. Se addirittura un inglese come Giovanni di Altavilla, ossia un nemico giurato della Francia, scrive de Hesdin, tesse un simile elogio di Parigi, questo non può che corrispondere a verità! Petrarca risponde tatticamente squalificando l’auctoritas, ossia l’Architrenius. E’ chiaro che si tratta di un argomento del tutto estrinseco che non riguarda minimamente la specificità letteraria del volume.
Sorprende e fa riflettere sui meccanismi di costituizione del canone letterario osservare quanto il giudizio di Petrarca abbia pesato sulla fortuna dell’Architrenius, tanto che ancora adesso alcuni studiosi si compiacciono di schierarsi con l’autorevole poeta nel giudicarlo un poema di scarso valore. Velli e Pacca hanno però rilevato alcuni imprestiti del Petrarca dal poema di Giovanni. Inoltre, se Petrarca ha davvero letto l’Architrenius, come egli stesso afferma di aver fatto, non gli sarà sfuggito come all’idilliaca descrizione di Parigi faccia immediatamente seguito un intero libro che contraddice nettamente la precedente immagine: vi troviamo la descrizione impietosa e realistica delle miserrime condizioni di vita degli studenti universitari parigini, la cui misera esistenza si svolge tra camere anguste, sordidi servi e zuppe di cavolo. Dalle magistrali descrizioni satiriche della “orrida turba di logici” parigini proprio Petrarca potrebbe aver tratto alcune delle sue acri invettive contro quell’ambiente intellettuale a lui per tanti motivi profondamente avverso, che descrive come una “insana e chiassosa plebe di scolastici”.

Laura Marino: Mi riaggancio alla risposta precedente. Se Dante poneva a oggetto della Commedia l’oltremondo come forma eterna e immutabile del mondo dei viventi, Giovanni pone a oggetto dell’Architrenius l’uomo e la sua ricerca di significato dentro il mutevole dell’esistente. La grande modernità del Dodicesimo secolo è testimoniata dall’Architrenius, almeno per alcuni caratteri che sembrano un vero e proprio ponte verso l’umanesimo del Quattrocento, quasi una macchina del tempo: la centralità dell’uomo e del suo sgomento profondo per il Male, il coraggio di discutere e avventurarsi contro i sistemi di significato attivi nel proprio secolo, un’indagine lucida e “senza sconti” dentro il dolore e le contraddizioni dell’esistenza. Non mi sembra possibile che questo testo ideologicamente dirompente sia passato dalle mani di Petrarca senza destare l’interesse dell’ideatore della machina negationis dei Triumphi. Gli accenti livorosi che dedica l’aretino al poema di Giovanni sono certamente causati anche dal fastidio per un latino concettuoso, esorbitante, espressivo, tutt’altro che ciceroniano; chissà se le 4000 linee di esametri non siano comunque, anche se apparentemente disprezzate, germogliate in qualche rimando letterale. Ancora tutto da vagliare il rapporto possibile tra l’Architrenius e l’opera di Petrarca: ho ragione di credere che possano emergere sorprese interessanti.

Sul concetto di Natura, quali le differenze con l’ideologia di Leopardi?

Lorenzo Carlucci: La domanda è incredibilmente complessa: qual è l’ideologia di Leopardi? Nel suo insieme, o anche soltanto nei suoi esiti ultimi, essa non è affatto chiara né univoca e resta oggetto di indagine per gli studiosi. Conteso tra cattolici e marxisti, tra materialisti e nichilisti, Leopardi è uno dei poeti la cui esegesi risente maggiormente del clima culturale del momento. Anche l’ideologia dell’Architrenius, ahimé, è oggetto di dibattito nella pur esigua letteratura critica ad oggi esistente. Personalmente credo che sia all’opera nel poema una consapevole “retorica dell’ambiguità”.
Mi limito dunque a considerare le differenze tra l’ideologia dell’Architrenius e quella del Dialogo della Natura e di un Islandese, che è comunque considerata una delle espressioni più compiute e originali dell’ “ultimo Leopardi”, quello del “pessimismo cosmico”.
Sarebbe ancor più saggio limitarsi a confrontare le ideologie dei due protagonisti, ossia del personaggio Architrenio e dell’Islandese, piuttosto che quelle degli autori. Questo perché in entrambe le opere gli autori ricorrono alla forma del dialogo (tra uomo e Natura) e a una serie di procedimenti dell’ironia – espedienti che rendono (ritengo volutamente) problematico il passaggio tra l’ideologia dei personaggi e quella dell’autore.
I punti di consonanza sono estremamente forti: i protagonisti delle due opere accusano la Natura della misera condizione di inerme sofferenza dell’uomo rispetto ai mali fisici e morali, ascrivendole un sentimento di odio verso le proprie creature. Entrambi si dichiarano insoddisfatti degli argomenti classici del provvidenzialismo (in particolare dell’argomento teleologico) e riscontrano l’ineluttabilità del desolante meccanismo del vizio, il cui motore è una insaziabile quanto inevitabile cupidigia.

La tentazione di identificare nell’ideologia dell’Islandese l’ideologia del suo autore è forte, leggendo per esempio quanto scrive Leopardi nello Zibaldone, il 2 gennaio 1829: “La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi.” Il dettato risulta perfettamente consonante con l’ideologia non tanto di Giovanni, quanto del suo protagonista, quell’Archi-trenius, ossia Arci-Lamentatore (i threnoi sono appunto le lamentazioni funebri nonché la traduzione greca delle bibliche Lamentazioni di Geremia) al quale, si potrebbe pensare, Leopardi allude usando il termine “lamento”.

Per quanto riguarda le differenze, mi soffermo su quelle più macroscopiche, perlomeno a livello letterale.
Nel poema medievale la Natura fa due brevi professioni di benignità, cosa che non accade nell’operetta di Leopardi. All’inizio della sua prima battuta la Natura enuncia l’argomento classico del mondo costruito da Dio come una casa per l’uomo (argomento teleologico). A questa dichiarazione fa seguito una lunghissima e algida dissertazione di Astronomia, durante la quale ogni indizio di specificità della creazione nei confronti dell’uomo risulta del tutto assente. La mole e il tecnicismo della lezione di Astronomia sono tali che Schmidt giudica l’intero segmento “un corpo estraneo”. Ma la funzione narrativa e filosofica è invece molto chiara. Il protagonista stesso del poema medievale interrompe la lezione e protesta contro la sua inefficacia e risolvere il suo dilemma metafisico sull’esistenza umana. Nell’operetta di Leopardi la Natura non si dichiara mai benigna. E’ l’Islandese a prevenire la sua interlocutrice esponendo, in vena satirica, l’argomento del mondo come “villa”. A ben vedere, però, in Architrenius, il protagonista risponde all’argomento del mondo come “villa” enunciato dalla Natura lamentandone l’inefficacia a rispondere al proprio quesito iniziale sul male. In apertura della sua ultima battuta, la Natura in Architrenius ribadisce di non avere intenzioni malevole verso l’uomo. Io ti servo ricoprendoti di doni, e tu dimostri ingratitudine perché non lo comprendi. Niente di più lontano, siamo d’accordo, dalla Natura dell’Islandese. Eppure anche in questo caso esiste una profonda consonanza tra le due opere: i presunti “doni” della Natura in Architrenius non sono mai “species-specific”; la Natura invoca soltanto la propria attività di “creazione continua” e accusa l’uomo di esser corto di comprendonio. Anche in Leopardi la Natura dileggia, come una madre e una maestra, l’Islandese. D’altra parte, per quanto alcuni critici insistano sull’assenza di fini nella Natura leopardiana, essa dichiara esplicitamente di avere dei fini (delle intenzioni) che non sono la felicità o l’infelicità degli uomini: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità.” La Natura di Leopardi non è la Natura che agisce per caso del Voltaire del Dialogue du Philosophe et de la Nature; è una Natura che agisce secondo intenzioni che sfuggono all’intelligenza umana – concetto altamente compatibile con il concetto di Natura come causa seconda, dotata di una larga autonomia ma da ultimo ordinata da Dio, propria del naturalismo dei filosofi chartriani del XII secolo, cui Architrenio fa il verso. Mi sembra quindi che a una distanza nella lettera tra l’Architrenius e l’operetta leopardiana soggiaccia una più profonda e significativa consonanza ideologica.
Lo stesso direi riguardo all’altra differenza macroscopica tra le due vicende. I finali delle due opere sono diametralmente opposti: L’Islandese muore mentre Architrenio si sposa, seguendo il consiglio della Natura, con la vergine Moderazione, al fine di procreare. Ma anche qui è evidente, in primo luogo, che l’opposizione riguarda i due poli opposti del medesimo meccanismo di continua “creazione e distruzione” che costituisce la Natura in entrambi i sistemi di pensiero: la vita e la morte sono le due facce del processo di creazione continua cui la Natura presiede. I protagonisti delle due opere si adeguano, volenti o nolenti, alla legge che in Architrenius la Natura enuncia come propria sanctio nella sua ultima replica: l’uomo non deve morire senza aver procreato. Si tratta di quella legge di conservazione della specie che secondo Leopardi è la “spaventevole, ma vera conchiusione di tutta la metafisica”.
Certo l’enfasi dell’uno sulla procreazione e dell’altro sulla distruzione sono opposte e l’opposizione è significativa. Architrenio sembra andare felicemente alle nozze, mentre l’Islandese non si redime dalla propria disperazione. Il finale di Architrenius, però, potrebbe leggersi – ed è stato letto – in chiave satirica: più di un esegeta ha rilevato che il dilemma iniziale del protagonista (perché la Natura ha creato l’uomo malvagio?) non viene risolto, almeno sul piano razionale: come scrive Binni commentando il finale del Dialogo leopardiano, “la Natura – che non ha più nulla da obiettare sul piano del colloquio – dà una risposta di fatto”.
In conclusione direi che le due opere, a distanza di secoli, rappresentano una posizione ideologica assai consonante sul “problema di tutti i problemi”, ossia il Problema del Male, o della Provvidenza; una posizione che flirta con un certo dualismo – forse manicheo –, significativamente pessimistica, con numerose eco lucreziane, ma – mi preme sottolinearlo – non per questo incompatibile con il Cristianesimo. Si pensi al caso di Arnobio di Sicca, che non esitava a descrivere l’uomo in questi termini: “l’uomo, una cosa infelice e misera, che si duole della sua esistenza, che detesta e piange il suo stato, che capisce di esser nato solo perché i mali avessero a diffondersi e ci fossero sempre infelici di cui dolori si pascesse un non so qual potere ascoso e crudele, contrario al genere umano” (Arnobio, nat. 1, 27).

In questi giorni ho pensato al fatto che Leopardi non aveva necessità di riscrivere, prendendo ampie parti di Architrenius, il Dialogo della Natura e di un Islandese. Per alcuni studiosi di Leopardi, convinti della sua originalità, potrebbe essere qualcosa di difficile da accettare, ma da poeta trovo che Leopardi, ancora una volta, è stato geniale. Era consapevole di quello che stava facendo, stava realizzando un grande omaggio a Giovanni di Altavilla. Pensate sia così? Qual è la vostra impressione?

Lorenzo Carlucci: Sono convinto che Leopardi abbia consapevolmente tratto ispirazione dall’Architrenius, realizzando quello che tu chiami un grande omaggio al suo autore.
Non sappiamo esattamente quando e dove Leopardi abbia letto per la prima volta l’Architrenius, ma le ipotesi plausibili sono tutte assai affascinanti. Potrebbe averlo letto sin dagli anni della gioventù, segnati da ricerche di testi rari e manoscritti insieme a Monaldo (un manoscritto dell’Architrenius, già di Prospero Podiani, è conservato nella biblioteca di Perugia). Potrebbe averlo ricevuto in lettura dal Giordani, altra misteriosa figura legata al giansenismo e alla dissidenza religiosa. E’ infine assai plausibile che Leopardi abbia (ri)letto l’opera durante il suo soggiorno romano, durante il quale lavorò in Vaticana, sperando in un impiego fisso; proprio negli anni di ideazione e scrittura del Dialogo della Natura e di un Islandese. Tre manoscritti del poema medievale sono conservati in Vaticana. In una lettera da Roma al padre, Leopardi racconta di aver copiato da un manoscritto, nascondendosi dal bibliotecario della Vaticana, un’opera la cui divulgazione avrebbe fatto un “gran romore”. Mi piace immaginare che si trattasse dell’Architrenius. Il clima, va ricordato, è lo stesso in cui Angelo Mai, mentore a Roma di Leopardi, riscoprì i manoscritti medievali dei cosiddetti Mitografi vaticani (1831). Inoltre, per chi dubitasse della capacità di Leopardi di decifrare un manoscritto antico, ricordiamo che una copia in ottimo stato della cinquecentina è conservata presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma.
Come indicazione di un utilizzo consapevole dell’Architrenius da parte di Leopardi, trovo molto convincente l’ipotesi da noi formulata circa la presenza di un riferimento “criptato” al poema di Giovanni nel finale dell’operetta. In un articolo del 1985 Eva Viani ha rilevato che la morte dell’Islandese (sbranato da due leoni oppure ricoperto dalla sabbia) ricalca il racconto della morte di Eraclito nella raccolta bizantina di vite dei filosofi detta Suidas Lexicon; il senso di questa allusione, a detta della studiosa, a Eraclito è rimasta però inspiegata. Crediamo che la chiave della risposta sia nell’Architrenius: per tutti i dotti dell’epoca di Leopardi, Eraclito è noto come “Il Piangitore”, il filosofo che piange dei mali del mondo, opposto al Democritus ridens, che invece se ne fa beffe. Facendo morire il suo Islandese come Eraclito il Piangitore Leopardi sta rivelando in forma criptata la fonte di ispirazione della sua operetta, ossia le vicende dell’Arci-Piangitore, l’Archi-trenius protagonista del poema di Giovanni. Un tale divertissement fu forse suggerito al Leopardi da Charles Nodier, influente erudito francese noto al Recanatese, che proprio nel 1826, ossia durante gli anni di composizione del Dialogo, descrisse Giovanni di Altavilla come un “Héraclite chrétien”.
Del Nodier Leopardi riporta, come unico titolo nelle sue liste di lettura del Novembre 1828, un volume sul plagio. Non certo di plagio si tratta, per i nostri standard. L’uso che Leopardi può aver fatto dell’Architrenius è semmai una geniale riscrittura dei punti essenziali di un poema di più di quattromila versi in un’operetta in prosa di poche pagine.
Leopardi non aveva certo “necessità” di riscrivere l’opera di Giovanni, nel senso che non gli mancavano certo il genio e l’estro per produrre opere originali. Ma è pure vero che il culto dell’originalità è una fissazione romantica. Il timore di alcuni studiosi che la scoperta di una fonte come l’Architrenius per il Dialogo della Natura e di un Islandese metta in questione l’originalità di Leopardi è una preoccupazione a mio avviso mal riposta. Quale idea Leopardi avesse dell’originalità è piuttosto chiaro da quanto scrive: “quasi tutti gli scritti nostri sono copie di altre copie, ed ecco perché sì pochi sono gli scrittori originali”.
E’ pure chiaro e noto come gran parte dell’opera di Leopardi sia intessuta di imprestiti e eco della letteratura precedente. In questo caso la sorpresa è che si tratta di un’operetta della quale si è esaltata la modernità e l’originalità del concetto di Natura, operetta nella quale si epitomizza una certa immagine di Leopardi. Ammettere che gran parte dell’impianto e del contenuto dell’operetta sia preso in prestito da un poema cristiano del XII secolo può essere difficile. Per me significa soltanto arricchire la nostra idea di Leopardi. E’ una nuova testimonianza del suo incredibile acume, che gli permise di individuare con assoluta chiarezza i nuclei teorici salienti del poema medievale che sfuggiranno completamente a più di uno studioso moderno. In particolare la carica potenzialmente eterodossa del poema di Giovanni è stata subito chiara agli occhi del Recanatese, già estremamente interessato alle forme del dualismo e del manicheismo antico e medievale, rivitalizzato dagli scritti del Bayle e che contava numerosi simpatizzanti tra gli Illuministi.
L’operazione di Leopardi sul testo dell’Architrenius è del tutto non banale e merita di essere studiata a fondo. Per esempio, mi sembra che Leopardi abbia sovrapposto elementi tratti dall’incontro con la Natura in Architrenius con elementi tratti dall’incontro del protagonista, nel poema medievale, con una personificazione femminile mostruosa della Cupiditas, ossia della cupidigia. La tesi soggiacente è molto chiara: la cupidigia insaziabile, radice di tutti i mali secondo San Paolo, è innata nell’uomo per Natura. E’ ciò di cui l’Islandese accusa la Natura, ossia di aver “infuso” nell’uomo “tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere” accanto all’impossibilità di soddisfarla. Sovrapponendo l’incontro con la Cupidigia all’incontro con la Natura Leopardi ha anche colto uno degli aspetti più sorprendenti del poema di Giovanni, ossia l’accento posto sulla “naturalezza” del vizio.
E’ suggestivo e quasi commovente immaginare cosa possa aver provato Leopardi, il quale ha vissuto una perenne e sofferta tensione critica riguardo all’insegnamento cattolico, trovandosi di fronte un poema cristiano medievale in cui il Problema del Male e della Provvidenza vengono affrontati così di petto, in cui vibrano tanto fortemente eco lucreziane, arnobiane e forse “catare”, in cui è preferito un assetto problematico e anti-razionalista alle risposte più canoniche invalse nell’apologetica cattolica riguardo alla teodicea (il male come privazione, il peccato originale, etc.), un poema in cui la soluzione pragmatica al problema dell’esistenza umana si dà soltanto a valle di una ammissione di “nichilità” dell’individuo: “guarda, O dea, questo nulla, anzi meno che nulla”, implora il protagonista di Architrenius prima di prorompere nella sua invettiva maggiore alla Natura “matrigna” e carnefice della sua propria famiglia.

Mi trovo dunque a ringraziarvi per la scoperta, perché questa vostra traduzione ci porta a scoprire un mondo letterario, fatto di rimandi, di risposte, tra i secoli, inaspettate. Sembrano tutti vivi, Giovanni di Altavilla, Dante, Leopardi… Vi ringrazio per la dedizione, per la traduzione, per tutti gli insegnamenti che questa scoperta ancora ci riserverà. Sembra che non resti altro, a questo meraviglioso dialogo, che leggerlo e forse “ricopiarlo”, riscriverlo noi stessi da ciò che ci ha tramandato Giovanni di Altavilla.

da Architrenius (Carrocci 2019)

Libro I

Capitolo 8
Il rammemorare di Architrenio sulle sue azioni passate
e qui inizia la narrazione dell’opera

Mentre il volto s’inselva di peli e il raggio di giovinezza
sulle guance scure scolora e la mascella boscosa
affila i rovi virili e sul mento la prima peluria
non addolcisce più, si volge a guardare quanti anni
virenti ha sprecato e come l’età più fiorente ha plasmato 220
la sua tenerezza, Architrenio memore pensa, dispiega
gli estremi recessi del petto, esplora le stanze sommerse
nella mente profonda, e per i buoni costumi
non trova esservi luogo, né d’aver dedicato un sol giorno
alle virtù. “Mi ha forse” si chiede “per usi siffatti 225
partorito madre Natura, mi mandò perché armi
dannate io porti ai celesti, perché i reati esacerbino
l’odio dei divi? Perché trasgredisca le leggi e il diritto
e i decreti del mio Giove? Forse che la potenza del vizio
opprime eterna i mortali? Forse la colpa trabocca, 230
palude invìsa agli dèi? Quale madre abbandona
la prole in tanta rovina e non veglia sul figlio che fece,
così che mai l’empietà gli sputi addosso una macchia?

Capitolo 9
La potenza della Natura

Lei infatti può questo e di più, ha mani maestre
in tutte le arti, da alcun limite certo è costretta 235
la somma potenza: degli astri le orbite infiamma,
ruota i cieli col fuoco, rompe l’aria coi corsi stellari,
fa molle la sfera dell’acqua, consolida il peso terrestre,
corona il suolo di fiori, inviscera gemme nelle onde,
illumina l’aria, intesse le stelle sull’Olimpo, 240
Natura è ogni cosa che vedi, quella con le incudini
onnìpare fabbrica, ogni cosa che vuole d’un cenno
costruisce operosa e sparge miracoli di un nuovo evento.
Lei stessa può deviare i corsi abituali delle cose,
e prodiga semina enormi forme di mostri e varia 245
lo stile del generare, e con un parto tremendo,
puerpera piena di larve, delinea anomali volti.

[…]

Ma espone me inerme ad altre pestifere serpi
e logorato io sono dalle idre ritorte dei vizi.
Non pesa al mio fianco nudo una spada di pace,
con le squame dei Calibi d’una cotta non stringe le maglie, 315
non cresta il mio capo audace d’un elmo svettante,
non oppone alle frecce un muro di scudi: né gli Stinfalidi
del vizio temono gli archi che la Natura provvede,
né la penna che offende furtiva dissuade i malvagi.

Capitolo 11
Il proposito di Architrenio

Ora so cosa fare: fuggitivo attraverso la terra, 320
io devo cercare Natura. Giungerò ovunque ella segreta
le stanze remote nasconda, porterò alla luce
le cause latenti dell’odio e forse i legami d’amore
spezzato potrò riparare, andrò: la pace ai dolori
porterà compassionevole e indulgerà soccorrevole 325
un aiuto a chi chiede, si farà persuadere, affannose
carpirà con l’orecchio le preci, col midollo della mente
le parole berrà blanditiva, seccherà mansueta le umide
guance grondanti di lacrime, il figlio indurrà alle promesse
la madre” – La speranza consolatrice rigetta 330
il timore e sostiene le imprese, non teme nulla di peggio
che il rifiuto a tentare – “andrò di corsa, io andrò
più veloce e vedrò quale sia la Fortuna pei miseri.”

Capitolo 12
La peregrinazione del medesimo

Sì rotto è lo sterile indugio del rinviare, l’impresa
princìpia, l’opera incalza, percorre gli assi del mondo 335
e con piede sollecito Architrenio consuma la terra:
suda sui monti, attraversa le valli con gamba dolente,
si sfianca sopra i dirupi, sulle lande precorre i venti,
le salite lo ammalano, i pendii fanno lieve lo sforzo;
col carro dei piedi percorre l’asciutto, il bagnato 340
con il remo delle mani, rematore e vascello a se stesso;
non interrompe il cammino se il piede si duole dei sassi,
se il rovo scava le gambe, se i rami colpiscono il viso,
se il cespo ara il volto o la Bora furente flagella la faccia,
se brucia ai raggi la pelle, se sotto i rovesci raffredda, 345
se sotto Febo si asseta e il manto s’imbeve di piogge,
se l’ira del freddo o del caldo si fa feroce e l’Inverno
bianca ligustra la testa che nera l’estate invioletta,
lo fa il sole Moro di viso, Britanno di neve la bruma.

[…]

Libro II

Capitolo 10
Il bicchiere di troppo

Dunque, agitando il boccale, con gola sguaiata “wesseil” 310
e ancora “wesseil”; lo sforzo è più di finire il vino
che la sete; con più zelo bramano di prosciugare
il vino più che la sete, nunzia del Liberatore
è la sete, al palato riarso comanda imperiosa
di reiterare i boccali, ai doni di Bacco le destre 315
invita più blanda, son molti i bicchieri e più ancora
per l’arsura della sete e Bacco riceve maggiori
lodi dalle preghiere di una gola bruciante e riarsa.
Non ha misura il boccale, se non quando il sorso trabocca,
si ripete il primo cammino, la nausea rimette i regali, 320
nuovi vini alle coppe: guastàti da un succo giallino,
dalle vene riviene alle coppe, a Bacco i suoi doni
riporta indignata, intanto affretta il ritorno il pantano,
o Bacco, all’indietro ti affretti, onde all’indietro correte.
Così la nausea castiga il sorso mal ponderato 325
mentre rifugge gli eccessi la parca voluttà della Natura.
Non basta ingoiare abbastanza, credersi oltre il crinale
del naufragio nell’acque, toccare col piede il sommo
dell’abisso e non sprofondare; l’improba gola traligna
gli usi lieti delle cose, mal sopporta i digiuni, non sa 330
fermarsi secondo la regola della misura, le cose
usa fino alla pena, mentre la copia solleva
il ventre più pieno del giusto, mentre l’uomo desidera
essere meno beato, per aver favorito i suoi voti
si maledice le mani; la gola trasforma in tormenti 335
le delizie che la Natura creò e risparmia soltanto
i modesti bocconi del povero: ahi! Mai sobria,
mai misurata riceve, sazia e digiuna, il flagello.

[…]

Libro V

Capitolo 9
Il mostro della Cupidigia

Disse e le estreme parole in lacrime immerse e con pioggia
si sgonfiò il vento che l’ira della lingua aveva ritorto.
E avendo già errato – per piane e per erte – in grande
parte del mondo, incontra un mostro, per il viandante
un insolito terrore; ché il cielo percuote col vertice 240
e con le dita distese superoccupa il globo terrestre,
come Febe allontana metà dei fuochi fraterni,
così questo toglie i raggi di Cristo e le luci migliori,
madre dell’Avarizia, Cupidigia digiuna di sonno,
condannata a produrre una sete eterna, saziata 245
da nessun bene, devota al lucro, farà
le mani artefici di rapine e vedrà i recessi
degli Antipodi e il giorno della notte e le ombre sinistre,
i segreti del seno bruciante e i molli Sabei
e i rigidi Geti senza sole e la porta di Febo 250
primeva e i suoi scogli, dove l’ultima Thule s’esilia,
per smungere le varie specie delle cose, inseguendo
con lungo sudore dell’animo avaro i beni terrestri,
per infine servire gli scrigni con modica somma.

Capitolo 10
Cosa sente Architrenio riguardo la cupidigia

Inorridì e, osservato chi fosse, fissandolo disse: 255
“Questa figlia della notte Stigia, infelicissima ai superi,
abolisce la norma divina, cancella il diritto, invalida
i contratti, rimuove i patti, abrade le leggi,
danna l’onesto, rompe le amicizie, svelle l’amore,
dà fuoco alla fede: è piena discordia. Laddove 260
è ardore di lucro combatte, con ogni impegno ai forzieri
si corre; infatti la sola reverenza al denaro può d’ogni
cosa mondana a piacere godere fin quanto lo vuole.

[…]

Capitolo 14
La guerra tra prodighi e avari

Beve, finito il discorso, con l’orecchio improvvisi tumulti,
ode l’aria rotta dai gladii e dai tuoni di Marte,
là dove litiga l’aria con colpi d’orribile suono, 345
volge l’attonito viaggio, s’accosta con passi dubbiosi,
dove Marte agisce feroce, il gladio fa piovere stragi,
le stelle s’intesson di dardi, le regioni superne la freccia
atterrisce e si annotta d’una coltre di strali il cielo.
La cima dell’elmo verdeggia, la lorìca sorride 350
d’un nitore d’argento, il mucrone minaccia con lo splendore,
rampa un leone fiammante sull’umbone, agita l’oro
sulle aste un drago di fuoco volitante, con lezzo di morte
adesca la cuspide, sputa fiamme il fiero destriero,
crude di sangue le borchie, schiuma di essere retto 355
dalla briglia sdegnata, trabocca l’ardore nell’ira del freno,
vola in punta di zoccolo, frusta il crine gli arti rapiti,
la scossa del petto il nemico batte come ariete avverso,
il cielo tuona di Marte, saetta l’aria con fiamma di spada.
Piange di sangue la terra, veste il mare d’identica porpora, 360
di morte le acque traboccano, la terra beve onde di sangue,
l’aria mugghia di cavalli, nitrisce il seno dell’etere
col lituo, il gladio risuona dei colpi, l’umbone per gli urti;
fremono sassi nel turbine, tórce in fuoco, frecce in volo;
l’impeto tace l’avvento del piombo, l’ala di freccia, 365
né la fionda preannuncia la strage né l’arco le ferite.
Balza nelle armi il Furore, la Discordia annoda le schiere,
il Terrore spinge i carri, la Ferocia è auriga ai destrieri,
l’Ira trascina gli uomini, l’Audacia, la figlia maggiore
di Marte e la Demenza che porta il vessillo di guerra. 370
La spada si scontra alla ferza, la canna alla freccia,
il pedisonante al cornìpede, seno al fianco, zoccolo al corno,
lo scudo all’umbone, al lituo la tromba, al dardo la lancia,
a lorìca la cotta, all’elmo criniera, il frassino all’asta.
Nuota Marte nella morte, nelle spade è il Furore affilato 375
e, mentre trafigge, ridonda un’onda di morte feroce.

Capitolo 15
Discorso di Galvano ad Architrenio su Corinèo

Giova il veder ciò che teme, la novità della vista
genera affetto e promesse, si meraviglia ed – ecco –
improvviso a chi guarda, compare un pulverulento
milite sopra un ansante cavallo. Si danno saluti 380
che tornano in pace reciproca. Chi sia, dove vada, impara
l’uno e l’altro insegna. Infine Architrenio lo incalza
e chiede sollecito la nazione e la stirpe; e quello:
“Troia la stirpe, i natali Lodonesia mi diede, nutrice
Cornovaglia mi offrì la mammella irrigua della condotta, 385
smeraldo scoperto dai Frigi dopo l’odio del Fato.
Questa il vittore del mondo, novello Tirinto, timore
di Achille e dell’Atride, Corinèo, dei Giganti la sega,
clava mostrìtera, scelse per figlia onnigenerante
di Troia alleata, il figlio alla madre fiaccata 390
dall’esilio offrì un seno di piogge e di latte mellifero.
Per questo detta dapprima Corinèia, passato del tempo,
Cornovaglia fu detta, erede del nome corrotto.

[…]

Libro IV

Capitolo 9
Orazione di Architrenio alla Natura

“Guarda, o dea, questo nulla, anzi meno che nulla! Del pianto
i ruscelli, gli stagni di lacrime, di dolore gli abissi
tu possa esaurire e seccare i vivai pieni di mali.
Mi torco e il mio garrulo pianto confessa i tormenti dell’animo
e i sospiri a gran voce denunciano le latebre del morbo. 160
Non fingo col pianto; da nuvole di primavera è disciolta
la pioggia e rovescia tempeste l’intima nube dell’occhio,
dall’animo è tratto il dolore, certissima causa del pianto
soggiace e vere sventure muovono le mie querele.
Ché sono atterrito, nell’anima languente da tante inesauste 165
tempeste e tutto mi dolgo, circondato da tutte le pesti
così da muovere al pianto Falaride o il secco Democrito,
così che un nuovo umidore cosparga gli scogli.
Così la Bora del mondo mi agita e naufrago contro
le secche dell’umana Sirte, così mi inghiottisce Cariddi 170
implacabile, il mare latrante di Scilla mi frusta.
In questi naufragi, io credo che il Tartaro avrebbe, piangendo,
compassione di me forestiero, Megera perfino sospetto
di flettere e le criniere selvagge ammansire. Per questo
caso ogni ferocia sfrenata smetterebbe di nuocere, 175
la pietà addolcirebbe la durezza del rigore
inflessibile, si placherebbe l’ira impetuosa di Giove.
Forse che compatirai la tua prole, Natura, afflitta
dai flagelli dei crimini? Quale gelo verso la prole
ha turbato la pace materna? L’amore di madre ha imparato 180
l’odio di una matrigna? O seni che mai offrirete
i dolci favi del miele! Ahi prole che sempre un amaro
cibo dovrà gustare! La pietà di una madre si veste
di rigore e indurisce una Ino nella pietra di Procne.
Ma di che dubito, è forse permesso attribuire alla madre 185
la colpa del lutto? La pietà aborrisce vessare
con querele la madre. Lo vieta la reverenza alla madre,
l’ira ordina di parlare; la rabbia scioglie in sozzura
la bocca, il pudore la frena. Ma già del pudore declino
il comando, mi domina una Erinni più grande. 190
Non controllo – lo ammetto – il torrente dell’ira: di te
con tua pace, io mi lamento, Natura. A te si prosterna
l’apice di ogni maestà, e tu di traverso ci guardi
sempre con occhio avaro, a nessuna dolcezza la chiusa
mano sai aprire. L’uomo, dei dolori la preda, immerge 195
la vita nelle tristezze, non conosce amichevoli anni,
né prende piacere in letizia, di fresche brezze non gode.
Decisi di stringere le colpe umane in un numero,
ma disperò della meta l’impresa, né un limite può
aver chiuso l’aperto principio; poiché eguaglia la sabbia 200
la turba dei mali, con i quali l’umana demenza
dichiara una guerra ai celesti, il fulmine e l’ira dei divi
l’uomo si attira. La destra di Giove il fuoco di Lipari
scaglia splendendo più d’ira che per il fulmine, vìndice
sceglie il perdono dei nemici, si astiene dal tuono 205
che minaccia e la clemenza ostacola i colpi sferrati,
la dilazione della pena rende audaci nei crimini.
Togli, madre, l’odio! Finalmente ammansisci, deponi
la matrigna, nutri, tu dolce! Una madre ogni buona condotta
possiede e non giova al bambino con solo una libbra o un’oncia.” 210

Capitolo 10
La risposta della Natura e la promessa di soccorso

[…]
Ora detergi il luto del pianto e, rimosso il limo,
lascia, dopo le tenebre, entrare la luce. Tu aneli
ai seni stillanti virtù della nutrice, tu vecchio 235
lattante, annoso fanciullo canuto negli anni non come
nel petto, vecchio dall’animo imberbe. Già la canizie
che spetta alla mente verrà, sarà maturata nell’intimo,
che verde non marcisca l’uomo, sarà dato a chi chiede
il dolce, che delibando si sazi l’alunno assetato, 240
per cui il bimbo e la sordida infanzia abbandonino l’animo.

Capitolo 11
La sanzione della Natura nelle procreazioni delle cose

La nostra sanzione proibisce che come sterile ramo
l’uomo marcisca e sotterri il frutto, e che abbia ostruito
le vie per negare la prole. La religione nativa
comanda di usare le forze del seme assegnato e produrre 245
una lunga discendenza, affinché non si ammanti
d’ontano degenere o platano, alloro sempre verginello,
o salice giovinetta dalla fronda che mai partorisce,
o d’ogni cosa pudica nella foglia vuota o nel fiore.

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