Fotografia di Dino Ignani

Avrei ritenuto doverose sul prossimo numero della rivista (se in questi giorni per altri motivi che spiegherò prossimamente non avessi doverosamente dato le mie dimissioni) alcune righe per spiegare la mancata partecipazione mia e di alcuni altri autori legati all’esperienza Atelier al seminario “Ansia del canone” organizzato in questi mesi dal Centro di Poesia dell’Università di Bologna: la nostra assenza è infatti stata considerata un vuoto da parte di diversi interlocutori e quindi credo questa sia una buona occasione per ribadire alcune linee sul lavoro che è stato fatto. Spero che queste riflessioni, proposte oggi in altra sede, possano comunque essere utili nei tempi a venire per mettere alcuni punti fermi ma al tempo stesso sollevare altrettante perplessità nella convinzione che solo in questo modo si possa costruire un dibattito non fine a se stesso, ma utile alla produzione delle opere e alla corretta valutazione di quelle del recente passato.

A mio parere già nel titolo del Seminario esistono i termini per una mancata partecipazione: Atelier fin dai tempi de L’opera comune ha definito la mappatura dei propri confini, scriveva Marco Merlin nel numero 14 della rivista, anticipazione del libro: «Qui nessuno si sente portavoce di una generazione che non c’è, che esiste solo nella misura in cui la si costruisce – meta ideale anche qualora servisse a far scoppiare la “sacrosanta rissa” del confronto.» Trascorsi un paio di decenni queste parole ancora più che una profezia sembrano configurarsi come un vero e proprio monito.
I termini ansiogeni inseriti dal seminario sono reali, materia di chiunque abbia la sventura di muoversi tra gli attuali social potrà constatarlo, l’idea costante che qualcuno debba schiacciare qualcun altro, l’impossibilità di confronto se non tra simili, il rifiuto per le esperienze differenti ma soprattutto per ogni tipo di dubbio, timore, l’idea come già nella quotidianità che l’unico modo per difendersi dal nemico sia chiudersi tra le proprie quattro mura.
L’esperienza di Atelier è andata in un’altra direzione e mi auguro che si sia compreso già nella tre giorni organizzata a Parma presso la Biblioteca Guanda lo scorso autunno: la presenza contemporanea di Gianfranco Lauretano per la rivista ClanDestino e di Fabrizio Lombardo per la rivista Versodove, cioè di coloro coi quali forse Merlin avrebbe fatto la rissa ha raccontato innanzitutto il ruolo che ha e che dovrebbe avere chi ancora in poesia vuole fare militanza. Lo determina molto bene Guido Mattia Gallerani (a sua volta già ex direttore di Atelier) in un articolo apparso lo scorso 5 Febbraio su Il Manifesto “George Steiner, nella lettura critica la sua militanza”, dopo la scomparsa di quest’ultimo, ragionando sulla sua opera e su quella di Harold Bloom: « Giudicare la qualità dell’opera è operazione decisiva del critico, il cui scopo è discernere tra il buono e l’ottimo, non tra il buono e il cattivo, come fa il recensore o il critico militante ».
I dubbi emersi già a Parma e in altre sedi su alcune derive a cui stiamo assistendo nella tendenza della recente scrittura poetica vanno in questa direzione: è impossibile per quanto mi riguarda stabilire un canone, ma soprattutto andare oltre a un ruolo di mappatura che ha continuato a fare Atelier con La generazione entrante e Abitare la parola, ancora una volta in netta antitesi anche metodologica con chi ad esempio in questo momento sta facendo uscire lavori che trattano contemporaneamente due generazioni, quella degli anni Ottanta e degli anni Novanta. Forse piuttosto che continuare a porre il tema sulla eventuale possibilità che una fotografia sulla scrittura poetica a campo largo abbia in realtà interessi di canonizzazione (questione ampiamente mossaci e su cui ampiamente abbiamo risposto negli anni), bisognerebbe andare a chiedere ad altri come si giustificano operazioni che, abbracciando anagrafiche tanto diverse, non fanno altro che delineare un posizionamento strategico all’interno del sempre più ristretto panorama poetico.
Perché è un fatto più volte sottolineato che i temi oggi sono altri, e non appartengono solo alle ultime generazioni: i vuoti a cui stiamo assistendo nella analisi di generazioni ampiamente strutturate come quelle dei nati negli anni Sessanta portano a una contrazione anche editoriale potenzialmente deflagrante, non solo perché questi autori oggi come in quasi tutte le Nazioni dovrebbero essere la colonna matura e autorevole della nostra scrittura, ma perché in assenza di questa l’impoverimento delle generazioni successive è pressoché certo mancando un humus fresco da cui attingere.
Non possono gli uffici stampa o gli agenti letterari sostituirsi alla critica nel definire chi o cosa deve essere pubblicato, se questo accade anche in un piccolo mondo come la poesia il rischio che il sistema imploda è alto: lo sguardo sempre rivolto verso l’altro, il racconto della pietas e non la ricerca del pietismo dovrebbero portarci verso altre consapevolezze; la generazione dei nati negli anni Sessanta e chi faceva parte de L’opera comune, nata in buona parte nella prima metà degli anni Settanta, conosce molto bene tutto questo (non è la mia anagrafica, non parlo quindi pro domo mea); lo conosce chi vive fuori dai nostri confini, anche gli attuali trentenni, si veda ad esempio Artem Fejgel’man nel lavoro sulla nuova poesia di area russofona curato da Paolo Galvagni, da me commissionato, che leggerete sul prossimo numero di Atelier – doverci rifugiare costantemente all’estero per garantire certi parametri non è un buon segnale.
La generazione de L’opera comune chiedeva ascolto a chi li aveva preceduti, oggi per assurdo chiede ancora ascolto, per inversi motivi, a chi li ha succeduti: prima di arrivare al canone una lunga serie di passaggi intermedi sarebbe doverosa, prima di tutto la corretta affermazione anche in scala più vasta delle opere che rischiano di perdersi nei rapporti di equilibri e di forze a cui stiamo assistendo. Una corretta volontà di ascolto non si risolve certamente con l’ansia, ma prendendosi il tempo (e il tempo oggi veramente è cosa rara) per definire non cosa ci è vicino, o prossimo, o utile, ma cosa vale la pena veramente portare avanti, soprattutto a livello sostanziale e senza portare la grande parte percentuale della discussione sugli aspetti formali. Se verremo schiacciati dalla maniera, avremo perso tutti, e chi si dovrebbe veramente occupare del canone (non le riviste militanti) non avrà più nulla da canonizzare e l’unica ansia che rimarrà, come purtroppo per larghe tratte è già, sarà quella dell’autoaffermazione.
Discorso che, per una materia antropologicamente dell’uomo e collettiva come la poesia, è quanto di più prossimo alla rovina.

E alcune nuove precisazioni su due recenti uscite.

Approfitto di questo ragionamento per soffermarmi su alcuni ulteriori punti emersi in questi giorni dopo l’uscita dell’articolo di Roberto Batisti su La balena bianca e di una intervista rilasciata da Alberto Pellegatta.
Batisti ripropone nella sua analisi alcuni ragionamenti mossi da Elisa Vignali (al tempo redattrice della rivista) sul numero 65 di Atelier inerenti a l’uscita de La generazione entrante. Credo sarebbe opportuno compiere un salto di ormai già quasi dieci anni e riproporre alcune analisi che diedero vita a quel libro piuttosto che rileggerle oggi come Batisti fa con la sicurezza di dieci anni e molte opere sulle spalle. L’impianto de La generazione entrante è simile a quello de L’opera comune, ne ripropone senso e urgenza con la coscienza che quella generazione intermedia nata alla fine degli anni ’70 non ricadeva pienamente nel racconto che si tentava di fare, risultava già più definita e in grado di smarcarsi da entrambe, con autori in grado di essere riconoscibili anche solo a una prima lettura (caratteristica divenuta col succedere delle anagrafiche sempre più rara). Pregi e difetti degli autori nati negli anni ’80 si ritrovavano invece pienamente ne La generazione entrante: chi come Giulia Rusconi ne I padri è riuscita a dare un racconto preciso e ha consegnato un’opera in grado di rimanere, chi incluso o meno in questo lavoro ha deciso di restare su colori più sfumati e non ha consegnato opera di altrettanta potenza e impatto anche al netto di nomi diventati una sorta di brand, ben più riconosciuti rispetto alla loro stessa opera poetica (in fondo è la tesi che da sempre mi muove, che sia l’opera a definire l’autore, non l’autore stesso).
Certamente ho avuto modo di lamentarmi più volte in quegli anni che il grande “difetto” de La generazione entrante sia stato che, contrariamente a quanto accaduto per i nati negli anni Settanta, nessuno ha deciso di lavorare ad opere anche in antitesi a questo lavoro. Sarebbe stato importante che in quegli anni un laureando o un dottorando come Batisti all’epoca, e magari proprio dalla prestigiosa Università di Bologna, avesse preso il coraggio a due mani e avesse proposto la propria idea, i propri autori, la propria visione e lo avesse fatto con ampia possibilità di scommessa e al tempo stesso di fallimento. Ma come diceva Don Abbondio “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.
Per quanto riguarda una recentissima intervista ad Alberto Pellegatta che ha appena fondato la casa editrice Taut, mi permetto un consiglio non richiesto, ma al tempo stesso uso quanto ho affermato per alcuni ulteriori piccoli ma non marginali spunti. Per iniziare trovo quanto meno avventato definire “imbarazzante” il livello dell’attuale poesia, e nel contempo fare uscire una antologia legata ai nati dopo il 1985, perché frasi così trancianti (e non credo di essere stato tenero negli ultimi anni né di avere rimarcato più volte rischi e problematiche) rischiano, in assenza di opere strutturate, da un lato di ammazzare la cura che lo scrivente considera come antidoto, schiacciandola sotto pesi ed aspettative troppo grandi per essere affrontate in via di formazione, dall’altro con una metodologia fin troppe volte già vista finire per essere l’operazione strategica nella quale alla fine ad emergere diventa solo il curatore, e non i teorici protagonisti. Pellegatta ribadisco è poeta e persona troppo intelligente e mi auguro questa si risolva esclusivamente come una uscita troppo avventata in una intervista che probabilmente poteva essere più specifica ed andare maggiormente sulle questioni stringenti. Sicuramente uno dei passaggi che a mio avviso non può passare inosservato ed è quello sulla complessità e sulla difficoltà dell’editoria letteraria, e su questo dato che la tendenza a mio avviso è orientata in questa direzione, forse una piccola riflessione va fatta.
Pellegatta come chiunque altro sa che una delle conquiste della più recente nostra poesia dipende dalla mancata complessità artificiale data ad esempio da Maurizio Cucchi con Il disperso, piuttosto che da Milo De Angelis in Biografia Sommaria e Tema dell’addio, o ancora Mario Benedetti con Umana Gloria; insomma una capacità anche della grande editoria (in questo caso Mondadori) di andare oltre quell’immaginario lettore più simile alla casalinga di Voghera di Arbasiniana memoria e al tempo stesso di non rinchiudersi nel micromondo protetto di una poesia ombelicale e iperspecialistica come già precedentemente indicato (soprattutto per Cucchi, argine alla fine degli anni Settanta assieme a Magrelli di quella poesia ipersperimentale che aveva in qualche modo fatto proprie le esigenze oggi reclamate da Pellegatta, ma mi chiedo ha senso oggi tornare indietro e dimenticare le conquiste degli ultimi 40 anni?). Credo insomma che generare scientemente e consapevolmente un vuoto nella grande editoria impedendo la fruizione a una comunità di lettori più ampia, porti inevitabilmente quel vuoto ad essere colmato dal punto di vista letterario da altro (e già la mediatizzazione di alcune proposte editoriali, a volte anche supportate da parte della nostra critica, lo sta confermando), e porti chi si ostinasse in una strada oligarchica a perdere sempre più l’approccio con la realtà finendo per rendere la propria vita in versi non più una vita universale come nel caso di Giudici, ma una vita privata e per definizione antipoetica.
E in fondo se leggo il Pellegatta poeta, gli inciampi del Pellegatta intervistato non li trovo. Il tema ancora una volta è per chi vogliamo scrivere e chi sono i nostri interlocutori, e in una società nella quale aumenta esponenzialmente la possibilità di fruizione, ma cala drasticamente il tempo di riflessione sulle singole informazioni tutto questo, in una materia come la poesia, rischia davvero di non essere un ragionamento banale.

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1 Comment

  1. Davide Crimi 14/03/2020 at 5:50 pm

    non ho capito granché, oltre alla polemica di affari inter vos. Soprattutto, non è comprensibile “l’esasperato petrarchismo” che, sinceramente, appare una meteora in un cielo vuoto, dominato dal verso libero e dal nulla pneumatico. Sarei stato curioso di capire meglio, ma trovo solo nomi di persona.