Il 1 dicembre 2019 presso l’Associazione ChiAmaMilano si è svolta la cerimonia di premiazione del V Premio Internazionale Franco Fortini, organizzata dall’Associazione Poiein con il contributo della Fondazione per la critica sociale, e in collaborazione con MediumPoesia. A vincere il concorso è stato Fabio Franzin, poeta nato a Milano nel 1963, ma trasferitosi a Chiarano, vicino a Treviso, nel 1970. Poeta civile, nonché operaio, ha vissuto nel paese originario della madre, proprio durante l’epoca in cui industrializzazione e cementificazione modificavano il paesaggio veneto. Attento a queste trasformazioni del paesaggio, come il conterraneo Zanzotto, ma anche ai cambiamenti sociologici, la sua scrittura in versi cerca spesso risposte alle dinamiche dei processi produttivi a cui la realtà umana è stata sottoposta negli ultimi cinquanta anni.
Estranea agli ambiti accademici, nonostante la sua opera sia sempre stata valutata positivamente anche da questi settori, la sua carriera letteraria ha spesso scontato la marginalità della poesia in dialetto, poco considerata dalla grande editoria negli ultimi due decenni. Eppure come altri dialettali della stessa generazione (ad esempio, il romagnolo Giovanni Nadiani) già con Fabrica (2009) Fabio Franzin è stato capace di catturare il linguaggio della produzione, della condizione del lavoro, la lingua viva parlata dalla gente, dagli operai. Questo suo percorso poetico è dunque anche politico, e con Corpo dea realtà, edito dalla piccola ma tenace casa editrice Puntoacapo, Fabio Franzin si interroga sulle parole capaci di resistere sul fondo della Storia comune degli uomini, parole che si levano coraggiosamente dalla catena di montaggio, mentre incitano i giovani contro gli algoritmi che valutano le prestazioni sul lavoro, che valutano la vita stessa e il valore della persona; prendendo in considerazione se stesso e la propria crisi, valuta anche l’uomo che certo si è fatto ingiutìndo fun e polvara de legno / inghiottendo fumo e polvere di legno… In sostanza opera una valutazione sul mondo operaio e in generale sui temi del lavoro in Italia, partendo da chi è ultimo nella società della produzione / consumo, e si interroga su quali risposte siano da fornire alla società italiana e all’umanità, anche a quella che verrà.
Tutta la poesia di Franzin accade tra i versi e tra le sirene che suonano la pausa pranzo e la fine del turno, mentre si rischia di finire sotto un carrello elevatore, mentre si pensa al figlio laureato, “che non finisca anche lui nello stesso capannone”. Corpo dea realtà è dunque un’opera che pone interrogativi sulle prospettive dell’umanità e delle giovani generazioni, partendo dalla realtà lavorativa tra sfruttamento e precariato, ma i monologhi del libro coinvolgono anche la sfera del linguaggio catturando, come in Teater (1978) di un altro grande della poesia dialettale milanese, cioè Franco Loi, la parola ascoltata, detta, non la lingua letteraria.
Fabio Franzin dà vita a una serie di monologhi in versi e il pensiero va alla catena umana che unisce, una catena umana che non sia solo una catena di montaggio, ma capace di chiedere verità e onestà, anche alla poesia, ed implicitamente il processo di formazione dell’opera risponde politicamente alla sottomissione che le regole della produzione e del capitalismo impongono oggi.

 

da Corpo dea realtà/Corpo della realtà (Puntoacapo 2019)

Nome e date, modèl e misure

‘A fabrica ‘ndo’ che da un mese
‘ò catà lavoro a pressàr cartoni
– co’l cancèl che òcia aa Provinciàe
ingolfàdha de tir, pitpit e forgonzhini
a òni ora del dì e dea nòt – confina
co’l zhimitero del paese. ‘Na mureta
de cimento grisa alta dó metri, tàjia
‘a base dei zhipressi in fia, e voltra
el viaét ‘n’antra bruta mura, ‘n’antro
capanón, e dopo ‘n’antro ‘ncora, serà…

Vive te ‘na tèra che no’à rispèto nianca
pa’ i morti, che no’ sa pì darghe ‘a pase
che i merita. Li pense là, co’i só fiori
de plastica, circondàdhi dal griso, dai
rumori, tiràdhi ‘ncora drento al nostro
far e desfàr, ae nostre smanie insulse.

Li pense là, tuti strenti tee coeonbère,
oniùn co’l só nome, ‘e date, come
‘e tasse de scàtoe e fòji che fen,
‘a etichéta petàdha, modèl e misure.

Nome e date, modello e misure

La fabbrica dove ho trovato lavoro
da un mese a pressare cartoni
– col cancello che guarda alla Provinciale
ingolfata di tir, clacson e furgoncini
ad ogni ora del giorno e della notte – confina
col cimitero del paese. Un muro
di cemento alto due metri, taglia
la base alla fila dei cipressi, e oltre
il vialetto, un altro muro orrendo, un altro
capannone, e poi un altro ancora, chiuso…

Vivo in una terra che non porta rispetto neanche
ai defunti, che non sa più consegnare ad essi la pace
che meritano. Li penso là, coi loro fiori
di plastica, attorniati dal grigio, dal
frastuono, tirati ancora dentro al nostro
fare e fallire, alle nostre smanie assurde.

Li penso là, fitti nelle colombaie,
ognuno col suo nome, le date, come
le pile di scatole e fogli che componiamo,
l’etichetta appiccicata, modello e misure.

*

Onbre, Meduse

Sen romài de ‘à dea memoria,
voltàdhi. Ae nostre spàe passa
figure, co’e só inpreste, ‘e só
teste basse, onbre lente sora
el ‘sfalto, disegni che se mòve
tremoeànti tel cimento dei muri.

 

Chi ièrei? Còssa pénsei de ‘verne
‘assà co’e só fadhìghe sovrumane,
i tanti sacrifici, ‘e triboeazhión?

 

Chea onbra che passa, ‘dèss che
me son voltà indrìo un secondo
– mì che no’ son mai stat bon
de vardàr sol fiss davanti, che
‘ò senpre ‘bbu paura de ‘ver pers
calcòssa, drio ‘a strada – chea onbra
seca, bassa, tuta incurvàdha in ‘vanti
che ‘ò vist te un film de Kieślowski
butàr ‘na bòzha drento un cassónet,
che razha de esenpio senpio vòea
mostrarne? Storta dal peso de ‘na
vita che no’à conossù festa e riposo,
còssa àea da spartìr co’ quee che,
aa stessa età, va in pàestra pa’ caeàr
de peso, in préstio de àni dal chirurgo
estetico? ‘a passa e ‘a ne dà fastidio,
sol che quel, e sol pa’ chi che se volta.

 

Noàntri sen de ‘à romài, pase a lori
e a chea só poesia de cài e umiltà,
‘dèès che basta sfioràr coi dei el vero
de un displèi pa’ levàr quel che a lori
no’ bastéa Maciste. Ièrei pròpio eroi?
‘sti miti stranbi co’a zhinta pa’e ernie,
‘a panzhièra? Li òeo mai conossùdhi?
Se sì no’ me ricorde pì. Bastaràe sol
inparàr a no’ voltarse – come chii
maratoneti in fuga, sfinìdhi, che sinte
‘e ganbe farse pesanti, el fià tel còl
dei inseguitori, el traguardo distante –
parché chee figure mute me ossessiona
se me volte: statue d’aria ferme tea só
antica dignità, tea verità che sbrissa
fòra, come paròe de pièra, dai só làvari
in sfesa, tee pose da vinti, da martiri
pa’ noàntri, che par ritrati de Dorian
Gray, quadri de l’orór ‘ndo’ che se
spècia, rebaltàdhe, ‘e nostre verità.
Sen de ‘à dea memoria, romài,
coi nostri smartfon in man, el tom
tom in machina… basta vardàr
e ‘ndar ‘vanti senza mai voltarse
indrìo, chi ‘o che se perde pì?
Epùra basta sol ‘na strada nòva,
fòra mapa, el segnàl che salta,
‘na svolta che ne mena drento
‘na stradhéa de sassi, in mèdho
ai canpi, e lore le ‘é là, quatàdhe
drio el muro rosa mèdho croeà
che ne spèta, a sufiàrne de scondión
el só sìabario de mèdhe busìe,
sussuri caldi che ne missia come
rimorsi, che ne fa onbra persa
fra fantasmi che no’ vòl sfantarse.

 

Ombre, Meduse

Siamo ormai oltre la memoria,
girati. Alle nostre spalle passano
figure, coi loro attrezzi, le loro
teste chine, ombre lente sopra
l’asfalto, graffiti che si spostano
tremolanti nel cemento dei muri.

 

Chi furono? Cosa pensavano di averci
donato con le loro fatiche sovrumane,
i tanti sacrifici, le tribolazioni?
Quell’ombra che transita, ora che
mi sono girato un secondo
– io che non sono mai stato capace
di guardare solo fisso in avanti, che
ho sempre avuto paura di aver perso
qualcosa, lungo la strada – quell’ombra
esile, bassa, curva in un assurdo inchino
che ho già vista in un film di Kieślowski
gettare una bottiglia dentro un cassonetto,
che razza di esempio stolto vorrà
mai esibire? Storta dal peso di una
vita che non ha conosciuto festa e riposo,
cos’ha da spartire con quelle che,
alla stessa età, vanno in palestra per dimagrire,
in prestito di anni dal chirurgo
estetico? Passa e ci dà fastidio,
solo quello, e solo per chi si gira.

 

Noi siamo oltre ormai, pace
a loro e alla poesia di calli e umiltà,
ora che basta solo sfiorare con le dita
il vetro di un display per sollevare ciò che, ad essi,
non bastava neanche Maciste. Furono proprio degli eroi?
questi miti strambi con la cinta per le ernie,
la pancera? Li ho mai conosciuti?
se sì non me ne ricordo. Basterebbe solo
imparare a non voltarsi più – come quei
maratoneti in fuga, sfiniti, che sentono
le gambe farsi pesanti, braccati
dagli inseguitori, il traguardo distante –
perché quelle figure mi ossessionano
se mi giro: statue impalpabili immobili nella loro
antica dignità, nella verità che fuoriesce
come parole di pietra, dalle loro labbra
socchiuse, nelle pose da vinti, da martiri
per noi, che paiono ritratti di Dorian
Gray, quadri dell’orrore dove si
specchiano, rovesciate, le nostre certezze.
Siamo oltre la memoria, ormai,
coi nostri smartphone in mano, il navigatore
nell’auto… basta guardare
e proseguire senza voltarsi
indietro, chi si perde più?
Eppure basta solo una strada nuova,
non contemplata dalla mappa, il segnale che si disconnette,
una curva che immette
in una stradina di sassi, in mezzo
alla campagna, ed esse sono là, celate
dietro un muro rosa diroccato
che ci attendono, a soffiarci di soppiatto
il loro sillabario di mezze menzogne,
sussurri caldi che ci rimescolano dentro come
rimorsi, che ci rendono ombra persa
fra fantasmi che non vogliono abbandonarci.

 

Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. E’ redattore della rivista di civiltà poetiche «Smerilliana». Ha pubblicato le seguenti opere di poesia Il groviglio delle virgole (Stamperia dell’arancio 2005, Premio Sandro Penna), Pare (padre) (Helvetia 2006), Mus.cio e roe (Muschio e spine) (Le voci della luna 2007, Premio San Pellegrino, Premio Insula Romana e Premio Guido Gozzano), Fabrica (Atelier 2009, Premio Pascoli, Premio Baghetta), Rosario de siénzhi (Rosario di silenzi – Rožni venec iz tišine) (Postaja Topolove 2010, edizione trilingue con traduzione in sloveno di Marko Kravos), Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera) (Edizioni Prioritarie 2010), Co’e man monche (Con le mani mozzate) (Le voci della luna 2011, Premio Achille Marazza), Canti dell’offesa (Il Vicolo 2011), Margini e rive (Città Nuova 2012), Bestie e stranbi (Di Felice, I poeti di Smerilliana 2013), Fabrica e altre poesie (Ladolfi editore 2013), Sesti/Gesti (Puntoacapo 2015), Erba e aria (Vydia 2017, Premio Thesaurus 2017, Premio Luciana Notari 2018); Corpo dea realtà/Corpo della realtà (Puntoacapo 2019, V Premio Internazionale Franco Fortini).

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