Fotografia di Dino Ignani

 

Dentro le ombre per farne semi di Gianluca D’Andrea – Nota critica di Daniela Pericone

Uno scarto in avanti della coscienza è la direzione impressa dalla poesia di Gianluca D’Andrea nel suo Transito all’ombra (Marcos y Marcos 2016), un libro che unisce visione individuale e racconto collettivo, ricordi personali e memoria epocale. La vicenda dell’io è colta nel suo essere al centro e nel contempo separata dal mondo, poiché l’uomo si definisce in base alla relazione con il suo spazio e il suo tempo. Ecco che, in un’ampia erranza di riferimenti (da Dante a Campana, da Mandel’štam a Krüger), la scrittura di D’Andrea si orienta sulla poetica di Wallace Stevens tra piena adesione e mimesi. Anche il titolo Transito all’ombra sembra giungere per condensazione dai versi del poeta statunitense, “Non è nelle premesse che la realtà / Sia solida. Forse è un’ombra che attraversa / La polvere, una forza che attraversa un’ombra.” (Una sera qualunque a New Haven).

Da qui il motivo dell’ombra e del movimento trasborda nelle prove successive di D’Andrea, esplorazioni e approfondimenti di un cammino ben definito, se il titolo che accompagna gli inediti, Dentro le ombre per farne semi, non fa che ribadire il campo d’azione e dilatare le prospettive. L’esigenza conoscitiva è ambiziosa, il pensiero tenta di abbracciare non più e non solo la storia del singolo e della comunità, ma l’intera genesi universale, laddove l’uomo non è che un tardivo e irrisorio accidente delle conflagrazioni siderali. Il balzo non è da poco, occorre immaginare “la favola senza focus, senza uomo, / nel ciglio e nel timpano dell’orizzonte” (Il lievito della trasparenza), spingere il linguaggio nei territori della fisica e della biologia, tra spore e membrane, tra fruscii e vibrazioni, arrivare dove siano concepibili solo “lastre / galleggianti nella materia / liquida dei primi pensieri” (Artico dei primi passi). Gli scenari hanno un’evidenza apocalittica, raffigurano una condizione primigenia, ma anche una rasura da catastrofe postindustriale.

Certo è che D’Andrea è in grado di far vibrare gli strumenti poetici in qualsiasi contesto, anche quando la storia e il pensiero filosofico invadono, quasi soverchiano, i testi riuniti in Figure del popolo (Casi) e Sul presente (Appunti da Wikipedia). È ancora Stevens a dire che “la poesia è il grido della sua occasione”. D’Andrea costruisce il suo discorso intorno a fatti di cronaca o eventi della storia più o meno recente, ma non sono che pretesti per esplorare la natura del male, la violenza, il dolore, la morte: “Quel calore che cresce / prima dell’esplosione è il segno / che un muro di foglie è più solido / della vita e la morte è bella / perché non spazza via nulla”. La commistione di temi ed elementi si gioca sul filo teso della logica e dell’eziologia, tuttavia è sempre l’uomo il punto focale d’interrogazione, la traccia della sua presenza è inestinguibile, persino quando è preannuncio della fine “il calco del corpo lanciato / come la scintilla che il nucleo / trasforma gradualmente in massa” (L’ombra del 2017).

Un ulteriore passaggio concettuale si apre con le poesie riunite in Campo serra. Se la realtà è il risultato di ciò che percepiamo, l’uomo è l’attività della sua mente, fino all’intreccio senza distinzione dei diversi piani di realtà, fisica o virtuale: “non usavo le dita / ma il desiderio” (Cervello globale). La quantità di impulsi e informazioni che arriva al nostro cervello consente di accedere a livelli di conoscenza finora inimmaginabili, frammentando o per converso moltiplicando la visione: “Ogni individuo era il centro – campo / o serra – di una concatenazione, / come in un immenso cervello (?).” (Cervello globale).

È qui che il linguaggio amplifica ogni possibilità, l’opera del poeta s’identifica nel suo stesso sperimentare, accresce l’esperienza fuori e dentro di sé. Fino al punto di cedimento, fino ad accogliere, oltre ogni comprensione, la persistenza dell’ombra, “forse non esiste davvero nulla / oltre una fragilità congenita / che vorrebbe dire eredità, trasmissione, / geni antichi, incroci cellulari, / un’intrusione che arriva da un altro / tempo, un tempo-ombra” (Ferita).

Foto di Gianluca D’Andrea, dalla serie #incammino

da DENTRO LE OMBRE PER FARNE SEMI

 

III. Il lievito della trasparenza

Cespi dorati e uomini dirupano
tra le ombre. Così, trasfigurati
in pianeti, gravitano nel buio.
Cicli verdi tagliano il buio
mentre la traiettoria s’incurva
e rotola nella luce.
Raggiunto il traguardo della trasparenza
diluviano su una guaina vuota.
Il sacco si riempie di spore
e la cascata diventa più opaca,
più pesante, spacca la membrana,
cade nell’occhio che chiude la palpebra.
La favola senza focus, senza uomo,
nel ciglio e nel timpano dell’orizzonte.

 

[Il … dei semi]

C’era un occhio ad accompagnarci
sempre nell’angolo della stanza,
silenzioso, ma non lo sapevamo
e non volevamo saperlo.
Nel deserto, dopo le prime tribù,
non riconobbi il senso di affacciarmi
per paura di membra brutali,
per non dire l’abbraccio dei figli
dopo il tramonto, dopo il travaso
domestico, dopo l’ascolto.
Eppure dall’angolo della stanza,
gonfio di fruscii e vibrazioni,
l’occhio, ma non lo sapevo,
era ferito e imprigionato – dopo
le tribù, le organizzazioni complesse –
in una tenue dissociazione giornaliera.

 

VII. Artico dei primi passi

Erano costellazioni di ghiaccio
i primi animali a essere immaginati,
non pianeti o organismi ma lastre
galleggianti nella materia
liquida dei primi pensieri.
La guaina esplose nella sensazione
confortevole di quell’abbandono.
Le lastre della preghiera riflettono
l’occhio che rifiutiamo di svegliare.
Ecco che scappano al lavoro
che li dimentica e succhia.
I primi orsi lungo tutti i passi
che sappiamo e decantiamo.

 

da FIGURE DEL POPOLO (CASI)

 

Ragno a luglio

Quanto più l’uomo diviene colossale, tanto più piccola
deve diventare la sua essenza fino a che egli, non vedendo
più se stesso, si confonde con le sue macchinazioni e così
“sopravvive” ancora alla sua propria fine.
M. Heidegger (Quaderni neri – 1931/1938, Riflessioni II-VI)

Non occorre più pensare al male
che dentro noi germoglia
come un muro di asterie
perché basta fabbricarsi un sole
di armi e connessioni per sentirsi
un sole. Quel calore che cresce
prima dell’esplosione è il segno
che un muro di foglie è più solido
della vita e la morte è bella
perché non spazza via nulla
e ci proietta in un’immagine
illusoria, eppure eterna.
La segreta ambizione di essere oggetto,
parafrasando un poeta che pensava alla scrittura,
è frazionata in molteplici lapidi
in un pianeta popolato di fantasmi.
La mia ombra accumula
date e luoghi, è la turista
della distanza che vede senza movimento,
non ha il tempo di sostare a Monaco
perché deve tornare in Francia e volare
con l’occhio a Baghdad. L’ombra che sono
non si nutre di angosce ma ha paura,
continua a spostare lo sguardo
collezionando date e luoghi
ma non per lasciarli in eredità,
solo per continuare a sopravvivere
sottile tra le crepe di una casa
dissolta, nascondendosi tra fessure
virtuali come un ragno prosciugato
che non lascia tracce.

 

da SUL PRESENTE (APPUNTI DA WIKIPEDIA)

 

L’ombra del 2017

Non fui scosso dal presente distante
della mia nazione bella
della mia nazione triste,
quanto dalla solitudine da bolla
che deriva proprio dall’essere distante.
Quando tutto trema, infatti, si spera
che un sette siderale ci accolga
perché la Terra può crollare
e non ci resta che pensare
a un plausibile punto di fuga.

Con la Terra non si gioca
ma sprofonda nella sua attrazione
il calco del corpo lanciato
come la scintilla che il nucleo
trasforma gradualmente in massa.
Lo sterminio proviene da un sito
focale, un corpo imbottito,
un’idea, una pulsione, un minimo.
Così il cammino scivola e scivola
nel gioco della Terra e continua
a lasciare da parte l’attrazione,
ma il peso del calco del corpo lanciato
diventa boato e stordisce gli astanti,
i pazienti, gli alunni, i cantanti
e tutti quanti gli spettatori.

 

da CAMPO SERRA

 

Cervello globale

Una notte immaginai
la vita. Nello schermo
vidi la mia realtà digitale
sfumare in un paradiso di pensieri.
Senza attriti, non usavo le dita
ma il desiderio, i desideri come
onde d’olio. Io era più quadri
sovrapposti e in uno si dormiva.
Nessuno ascoltava i messaggi
ma era necessario continuare
a produrli, senza sforzo.
Infine mi accorsi che anche gli altri
io dormivano allo stesso modo.
Ogni individuo era il centro – campo
o serra – di una concatenazione,
come in un immenso cervello (?).
Senza dita ero appagato
come un primate che raccoglie
da solo la sua prima banana.

 

Ferita

Come non esistesse eziologia,
forse non esiste davvero nulla
oltre una fragilità congenita
che vorrebbe dire eredità, trasmissione,
geni antichi, incroci cellulari,
un’intrusione che arriva da un altro
tempo, un tempo-ombra
come le scorrerie e le razzie di sconosciuti
che scopriamo, sempre dopo, essere prossimi.

Così arriva il dolore, un giorno
mentre lavori, imprevisto,
imprevedibile e non è un’origine
ma un percorso che ci attraversa, da cui emerge
un’onda che s’increspa e può arenarsi
fino a bloccare il tempo.

 

Gianluca D’Andrea è nato a Messina nel 1976. Tra le sue pubblicazioni: Il laboratorio (LietoColle 2004); Distanze (lulu.com 2007); Chiusure (Manni 2008); [Ecosistemi] (L’arcolaio 2013); Transito all’ombra (Marcos y Marcos 2016); Forme del tempo (Arcipelago Itaca 2019). In Postille (tempi, luoghi e modi del contatto) (L’arcolaio 2017) ha raccolto i commenti a singoli testi di poesia moderna e contemporanea.
Sue poesie sono incluse in diverse antologie e tradotte in varie lingue. Per la casa editrice L’arcolaio dirige la collana di poesia Φ (phi). Collabora con l’EstroVerso e Poesia del nostro tempo.
Vive a Treviglio (BG), dove insegna nelle scuole medie.
Sito personale: https://gianlucadandrea.com

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