Gloria Riggio ha trionfato all’edizione 2023 del campionato della Lega Italiana Poetry Slam (LIPS). Una vittoria che conferma l’apprezzamento del pubblico nazionale, precedentemente ottenuto dalla poetessa agrigentina ai campionati del 2022, quando si è classificata seconda. È stato finora sottolineato che si tratta della prima donna a vincere il campionato LIPS. Lo spettro dei primati dovuti a caratteristiche ascritte è ampliabile: si tratta infatti della persona più giovane (23 anni) e allo stesso tempo della prima meridionale. Risulta molto più interessante però sottolineare quanto questa vittoria rappresenti una svolta all’interno della scena del Poetry Slam in Italia. Per poter illustrare al meglio questa idea nel ridotto spazio dell’introduzione all’intervista a Gloria Riggio, è necessario un confronto tra lei e i più recenti campioni nazionali LIPS (Simone Savogin, Luca Bernardini, Emanuele Ingrosso, Lorenzo Maragoni e Filippo Capobianco). A differenza di questi ultimi, si tratta della prima persona il cui percorso individuale e artistico è iniziato nella poesia prima di approdare nel mondo del poetry slam. Oltre agli studi universitari intrapresi (studi storici e filologico-letterari), Riggio ha già pubblicato due libri: Il mirto e la rosa (Edizioni La Gru 2017) e La stagione del dubbio, (Edizioni La Gru 2017) e vinto premi di poesia non specificatamente legati alla poesia orale e performativa: Premio Internazionale Navarro (2018), La strada degli Scrittori (2018), Ciò che Caino non sa (2020), Bologna in lettere (2022), Poemare (2023). Dal 2017 è stata ospite di riviste: Carteggi Letterari, Inverso, Il Visionario, Transiti Poetici. Infine, i suoi versi sono stati tradotti in lingua straniera per alcune riviste estere: in spagnolo dal Centro Culturale Tina Modotti, in greco per la rivista Εξιτήριον, in tedesco dall’Ufficio ViaVai all’interno del booklet Sturm und Poetry.

Oltre a questo, per Inverso si occupa di analisi e critica, in particolare dell’indagine relativa alla decurtazione e al recupero della produzione poetica femminile dal canone letterario e dalla manualistica scolastica italiani, con il tentativo di contribuire a produrre la riemersione di alcune inestimabili voci e dello studio della traiettoria della poesia orale e performativa contemporanea in ambito italiano ed europeo.

I precedenti campioni vengono perlopiù da altre discipline, soprattutto il teatro, e fanno coincidere l’attività poetica con quella della slam poetry. Questo aspetto si rivela nella scrittura e nel tipo di esibizione proposta da Riggio. Dove quella dei precedenti campioni è fortemente incentrata sulla performance e l’abilità tecnica, la poetessa agrigentina trova la sua forza nel testo, riducendo al minimo il gesto teatrale. A livello di temi, sono indagati soprattutto le migrazioni, l’odio sociale, i cambiamenti climatici e la violenza sulle donne. L’io scompare quasi del tutto, proponendo quella che potrebbe essere definita a pieno una poesia civile. Prendendo in prestito il titolo di un testo di Kae Tempest Empatia radicale, si potrebbe definire la poetica di Riggio come empatia radicata. Con questa espressione si intende il partire da quanto la circonda (fatti di cronaca, brevi ricordi personali) per costruire una narrazione poetica che diventa universale.
Per capire al meglio tutti gli aspetti sopra illustrati, ecco una breve intervista con la campionessa LIPS.

I testi che porti di solito ai poetry slam, seppure trattino di temi diversi, sembrano caratterizzati da una profonda coerenza, quasi a definire una visione del mondo e della società con forti basi morali e civili. Da cosa nasce questo approccio?

Com’è naturale, l’approccio ad una qualsiasi forma d’arte ha una sua origine spontanea che evolve variando nel tempo: tentarne una profilazione diventa quasi un esercizio a posteriori, utile forse a identificare quali moti tracci in noi e quali noi tracciamo attraverso di essa.

Trovo che nella mia esperienza la parola poetica riesca da sempre ad intercettare il punto di intersezione tra interiorità ed esteriorità, e dunque di ascolto e conoscenza di sé e dell’altro da sé, e di ciascuno dei due in reciproca funzione dell’altro.

Concentrarsi sul mondo o sulla società ha a che fare col fatto che, come l’arte, «la poesia abitua all’identificazione/finanche nelle pieghe del paesaggio e dunque alla compassione […]. Io che ho sentito il tuo dolore/ non potrò mai più farti del male». Questa a abitudine alla identificazione ho ragione di credere avvenga, nel caso specifico e in generale, nella lettura prima ancora che nella scrittura; con Fitzgerald: «questa è la parte più bella di tutta la letteratura: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

Maria Grazia Calandrone in quei primi versi tratti dalla raccolta Il bene morale (Crocetti 2017) individua un nodo costitutivo della questione, residente a mio avviso più ancora che nella compassione nell’accezione kunderiana del termine, nell’identificazione propria della letteratura, fortiori della poesia e di esse come metafore puntuali della relazionalità e dell’abitare il mondo – da cui l’approccio a cui fai riferimento.

Lamarque in un’intervista di qualche anno fa dice che la poesia cammina su un filo e che ogni poeta ha un suo rischio di caduta. Credo allora che la scrittura compia in me una prioritizzazione del sentire per urgenza e lo restituisca in una forma che lo estrinsechi dalla sola fruizione interiore – qui, forse, il mio possibile rischio di caduta.

Se, poi, l’oggetto di questo sentire investe anche il discorso politico in senso ampio o dettagliato è perché la libertà è un corpo agile in movimento, e il contesto socio-politico e culturale ne profila respiro e lividi: la cura della sua agilità è da sempre l’interesse della poesia.

Quanto della tua esibizione sui palchi del poetry slam può essere considerato performativo nel senso più corporeo del termine?

Probabilmente il minimo indispensabile a dare corpo alle parole: la voce, la gestualità manuale ed espressiva, l’interpretazione. La performance, nel mio caso e in questa fase di ricerca nella poesia orale, credo semplifichi sino quasi all’essenziale il ricamo del movimento scenico sul tessuto testuale. In aprile, a Roma, al termine di una replica del mio spettacolo Periodi Ipotetici, un amico e poeta mi disse di aver smesso, ad un certo punto dello spettacolo, di vedermi sul palco e di aver visto di lì in poi solo le immagini, i suoni, i simboli e le storie, di aver visto da un certo punto in poi solo le poesie: mi piacque molto; intendo, dimenticarmi di me come per diluizione dentro il racconto poetico, abitare lo spazio del corpo ricordandosene per accenni, identificarmi nella voce, nelle parole, nella poesia, avvertire con precisione la dimensione corporea abitare lo spazio ma anche assumere contorni rarefatti, consistenze aeree, sentire una forma di dissoluzione trasformativa, diventare altro.

Per fare questo sottrarre equivale a potenziare, ed è forse il caso di dire che me ne sono accorta per strada, che cioè è stato il solo modo in cui in origine sentissi di riuscire e che non abbia costituito un processo predittivo ma piuttosto la comprensione del perché – sarebbe meglio dire del come – fosse il solo modo in me naturale.

Una delle critiche negative maggiori fatte al mondo della slam poetry è il “non reggere su carta”, intendendo la tendenza ad accattivarsi il pubblico tramite tecniche retoriche che in parte compensano un testo carente. Il tuo caso dimostra il contrario. Quanto ha inciso la qualità testuale nelle tue vittorie nei Poetry Slam?

Considerando così assottigliata la dimensione della performatività in favore dell’oralità e della testualità, quest’ultima deve aver avuto un ruolo rilevante nell’ascolto che ho ricevuto dal pubblico. Questo è valso nel corso della finale nazionale a Rimini e per ogni poetry slam al quale abbia partecipato nel corso di questo ultimo anno e mezzo, e cioè a dire dal primo poetry slam LIPS a cui ho preso parte nel marzo del 2022. Si era all’interno del Teatro di Meano, nell’ambito della rassegna organizzata dal Trento Poetry Slam, l’associazione di cui faccio parte e che ha rappresentato per me il primo incontro con un’idea diversa di interazione in seno alla letteratura, svincolata da una dimensione prevalentemente individuale e capace di una forma di generatività e ricerca concreta e vitale.

Nella scrittura poetica, quando capisci che il testo è fatto per essere letto in pubblico oppure per restare sul foglio?

Il processo, in origine, credo sia stato simile: sia nella scrittura la cui conseguenza è la carta – dunque legata a una fruizione silenziosa, intima, interlocutoria come quella che si intesse con la pagina nell’atto della lettura – sia nella scrittura la cui conseguenza è la voce – dunque legata a una fruizione condivisa, immediata, partecipata – ci si pone all’incontro con un altro potenziale. Le due forme differiscono per predisposizione dell’autore e del pubblico lettore/ascoltatore: la variante diamesica sollecita l’attivazione di approcci naturalmente differenti.

Formalmente, una maggiormente in attivazione nella dimensione orale può aver a che fare con la musicalità, il ritmo, la prosodia proprie dell’oralità declinate al testo; o ancora, l’uso delle pause – talvolta interlocutorie nello spazio dei versi al pari dei versi – ha una sua variabilità se su supporto fisico o accolte ascoltandole da chi le interpreta.

Certo è che le due dimensioni possono finire col tentare di coesistere: è interessante, ad esempio, rilevare come numerose esperienze editoriali e redazionali ricerchino espedienti sempre nuovi nelle pubblicazioni di produzioni legate alla poesia orale e performativa, dal QR code apposto al testo per poter ascoltare la performance dalla voce dell’autore, alla sperimentazione tipografica sulla carta: una metatestualità, quest’ultima, legata alla sperimentazione con gli stessi caratteri alfabetici, una metafora della voce e della relazione tra performance e spazio agita tra carta, pagina e inchiostro. Quest’ultimo è l’approccio che ho utilizzato io stessa nell’occuparmi della redazione del volume d’artista Möbius di Giuliano Logos, edito e ideato in collaborazione con l’Archivio Tipografico di Torino.

Se, infine, dovessi provare ad intercettare una risposta personale alla domanda sarebbe in due parti: nello scegliere cosa leggere ad alta voce credo intervenga il fatto che i testi abbiano livelli nel significante e nel significato coglibili in diverse dimensioni di ascolto, e che contenutisticamente io abbia la sensazione ci riguardino tutti – pur riguardando talvolta strettamente qualcuno -.

Nel processo legato alla scrittura trovo che concentrarsi eccessivamente sul potenziale pubblico in ascolto non sia un bene e possa far correre il rischio di inficiare tutto con la compiacenza: nella mia esperienza quel pensiero, se c’è, è conseguente a ciò che sento crei la condizione sufficiente alla condivisione, quel che sappiamo «con la lezione di Eliot: che dove il privato e personale non diventino universale e impersonale non può darsi poesia» (Giovanni Giudici, Per forza e per amore. Critica e letteratura 1966-1995, Garzanti 1996). Di qui l’identificazione cui ho fatto cenno in apertura. Tutto ciò che poi ci sarebbe da dire sulle ragioni dello scrivere è all’interno di Cere Perse (Bompiani 1985) di Gesualdo Bufalino: «Si scrive per ricordare, ripeto. Ma si scrive anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica.».

***

Germano

Quello che di casa mia mi dimentico sempre un po’
è il cielo trafitto di stelle che si vede rientrando la notte:
la volta è luminosa, si lascia guarda come nuda,
oltrepassa il vetro antico che ci separa,
racconta una storia sempre un poco nuova.

Quello che di casa mia mi stupisce
è un incanto inedito ogni notte:
l’abusato canto del grillo
i guaiti snervati dei cani
chi mi scalda in silenzio le mani
ed accoglie la tregua
tra ieri e domani.

Quello che mi dimentico sempre un po’
è che abbia un luogo pensato casa mia,
costruito ad intonaco di colpa e nostalgia
e che ormai, girovaghi apolidi,
siamo mosaici di coriandoli
confusi tra coraggio e codardia,
senza tregua, cucitura, senz’allegria.

Ma Germano
che fischietta
la sua personale litania
è una sosta dal vento,
una liturgia di riconoscimento,
una musica sospesa tra l’approdo e la balia

ci penso
mentre lo incontro sulla via, e dice

andate via da casa mia
andate via da casa mia
andate via

voci dalla politica con l’eccosissia
che sento parlare e dire di aiutare gli altri
ma nelle proprie case, da dove non sapete

che Germano è sulla panchina
quando sente le campane impreca,
aspetta il fare della sera seduto
con un lamento che più grida più rimane muto.

Me lo ha detto una sera che ci siamo seduti al centro della strada,
e dal ciglio qualcuno guardava e non parlava
noi volevamo vedere se un corpo divelto vale più di un corpo
sepolto dal silenzio o dal freddo dell’asfalto,

non ti preoccupare se sei sola pure tu,
ogni tanto come adesso passa, non ci pensi più
a me m’hanno preso a calci in bocca
una mattina che manco ero sveglio
ma senza denti fischietto anche meglio.

La piazza è tutta sua:
piena della sua tosse
delle sue percosse
dei suoi sputi, rifiuti
della fetida pietà degli sconosciuti.

Germano non lo sente nessuno,
neanche al sesto giorno di digiuno e
quando si siede vede la chiesa
e schiere di credenti a lamentare
questa Italia offesa,
punteggiata di migranti, di indigenti,
di cristi potenziali ma in fila allo sportello smaltimenti
per un altare dopo morti addobbato a croci e attenuanti.

C’è un patto non scritto tra lui e i passanti:
griderà più forte a chi non lo sente,
Germano non mente
e mantiene il patto, è più beve
più breve è l’impatto con l’asfalto.

Germano ogni tanto succede che lo ascolto:
e ogni volta che parla non lo capisco.
Germano forse ha un dialetto che non ci hanno detto
che non ci hanno mai insegnato, forse esiste un lessico dell’emarginato
forse questa suo fischiettio gli fa da apparato
esegetico e se c’è dio,
dico, se c’è, dice, se c’è,
dico che dice dio, sa leggerlo?

Arriverà infine qualcuno di notte mosso a pietà
chiamerà la volante che chiamerà l’ambulanza
che accoglierà la puzza di birra in latta,
lascerà addensarsi l’olezzo
in un angolo del pronto soccorso.

Dopo tre giorni sarà riapparso,
avrà aperto la porta del suo tetto
e si sarà riposto al banco del suo unico pasto.

Quando sparirà qualcuno
penserà si stia meglio senza.

Sentiremo un urlo ancora chiedere
se si muoia nel corpo degli altri o nella sua assenza.

Ma
se c’è un silenzio benedetto
è quello di una notte in cui
dal fondo del buio un suono si alza
e nessuno – ma qualcuno sì -, alza la testa, ascolta,
scende in strada, fischietta a sua volta, poi parla,
sospende la resa: ha finalmente una sua casa.

***

Ave Maria

Ave Maria piena di rabbia
il Signore è contento
di questa dote di pena
di questo velo di gabbia
di questo corredo di lame da petto
di questi pugnali da camera da letto
di questo cuore perennemente trafitto
di questo vissuto
vissuto all’ombra più o meno sempre del vissuto di un altro,
di questo ventre sempre più o meno in frutto, o sempre più o meno in lutto
ma sempre, più o meno sempre, per scelta di qualcun altro

Ave maria piena di rabbia
il signore è contento
di questa fiera di fibbie da stringere in pancia
di queste file di figlie che si stringono in pancia,
combattono più o meno sempre contro, più o meno sempre, una forma di violenza

da sole e riverse sul pavimento davanti allo specchio nella propria stanza,
da sole sull’asfalto di un vicolo buio dopo una festa in piazza,
da sole sul lettino di una clinica privata pagata in nero per la sua mattanza
da sole, aperte con una gruccia infetta e strumenti da sarta prestati di nascosto
dai governi per raschiare via dall’ipocrisia
l’ultimo briciolo di decenza di chi giura fedeltà alla Repubblica,
e s’appella alla fede nella bibbia

Ave Maria piena di rabbia

tu sei benestretta tra le gogne
e bene stretto è il lutto del tuo senso:

gestante obbediente,
e lodi e penitenze
ti nutrono la piaga che t’hanno aperta in ventre
presa e fatta icona santa, resa modello
di controllo sul corpo d’ogni donna

ché t’hanno fatta
madre feconda ma
vergine e casta
per tenerti salda
alla loro corda

Ave Maria che, amica mia,
ci hanno fatto una sorda violenza
lunga secoli di educazione,
in sequenza:
l’amore si nutre a pane e obbedienza
il bene ha un prezzo da pagare con croci di ogni forma,
sempre più o meno sempre:
dipendenza, possesso, consenso, e senso di colpa,

tu che sei bella che piangi
bella che aspetti, bella che t’addormenti,
bella che ti ribelli contro le mani che ti modellano,
o rompono o decidono o recidono i lineamenti.

Ave Maria piena di rabbia,
il signore è con te,
nella piena disgrazia
della piena che stralcia il tuo corpo
di ansa in ANSA,
mentre scorri bianca sul letto di un fiume,
e capelli di fili d’oro e di rame
e braccia larghe da prenderci dentro il mare
che ti hanno fatta triste e destinata al male
per una ragione
di stato

Ave maria che ti abbiamo trovato
piena di graffi
piena di garze
piena di grida
piena di grano,
ti nasce dal seno
dal campo di terra
in cui ti hanno sepolta

Ave Maria, ogni volta risorta
dentro la lotta al ricatto
dunque
illudili e costituiscici
reggi i governi, le campagne ed i seggi
tuo malgrado masticata da bocche di serpi,
propaganda di ventre che ti svende i voti per ottenerne

Ave Maria, sei piena di braccia
ti portiamo via
dal corteo che ti loda il dolore
scendi e lascia i polsi respirare,
senza il sacrificio che ti osanna e sorveglia
il mandorlo della tua croce, ora germoglia

un vento soffia via la mestizia
a cui ti hanno costretto la faccia
scoppia, Maria, scoppia
in una risata perfetta

Ave Maria,
piena di grazia,
renderemo giustizia
tu non temere,
noi non abbiamo ancora finito di dire
quello che abbiamo da dire.

Gloria Riggio nasce in Sicilia nell’aprile del 2000. Studentessa presso l’Università degli studi di Trento, frequenta la facoltà di Studi storici e filologico-letterari; ha pubblicato raccolte di versi (Il mirto e la rosa, Edizioni La Gru, 2017; La stagione del dubbio, Edizioni La Gru, 2019), ed alcuni di questi fanno parte di antologie nazionali e internazionali. Sue poesie sono apparse su riviste italiane e sono state tradotte in spagnolo, in tedesco e in greco. Dal 2020 è parte del Trento Poetry Slam e si occupa di poesia orale e performativa. Da marzo 2022 è redattrice della rivista di letteratura contemporanea Inverso – Giornale di poesia. Nel 2022 nasce lo spettacolo di poesia performativa con musica dal titolo “Periodi ipotetici”, che ha debuttato nel novembre di quell’anno per la stagione del Teatro di Meano, ed è poi stato ospite a Riva del Garda, Pergine, Padova, Rimini, Roma, Firenze. È la campionessa italiana di poetry slam 2023.

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