Tentare un discorso sulla poesia di Gianluca Garrapa è un’impresa inutile, poiché ogni tentativo di decifrazione sarebbe disgraziatamente sconveniente, arbitrario; venuto meno il senso di un approccio interpretativo, l’analisi sulla poesia dovrà attenersi strettamente alla forma della poesia; non v’è possibilità in Garrapa di rintracciare null’altro se non il testo, poiché ogni considerazione a latere costituirebbe il tentativo di accesso a un segreto intimo, prerogativa dell’autore. Garrapa attinge dalla discarica della memoria e le cose, piuttosto che svelarsi, crollano l’una sull’altra; il tentativo di ricomposizione coincide col più totale disastro linguistico, e la scrittura è espressione di un soggetto ben consapevole del rischio e dell’impossibile ricongiungimento dei frantumi. Se il senso è distrutto, e addirittura v’è il rischio di tagliarsi le mani, perché gettarsi in un’operazione delle più indecorose? Garrapa sa che la comunicazione è sempre tradita nel linguaggio, non ha fiducia nella poesia e nell’utilità della poesia, dacché per lui la scrittura è mera perdita di sé, pura dépense in assenza di guadagno; di fantasmi e stasi. transizioni. (Arcipelago Itaca, 2017, prefazione di Gabriele Frasca) è un oggetto totalmente inutile, a meno che non si voglia ammettere, finalmente, al di là della retorica dell’affronto alla comunicazione, che la sua peculiarità stia in questa mancanza di tutto, persino di una mancanza della mancanza, poiché Garrapa ha abiurato la nostalgia, persino nel ricordo, che non è più rivisitazione del vissuto ma meccanica rilettura del dato.

La rilettura meccanica consta di un esercizio auto-analitico che Garrapa converte, a sua volta, in scrittura meccanica, attraverso la composizione di uno stile telegrafico esplicitato nella resa grafica del singolo testo, riconducibile al fax per l’essenzialità del frammento, per l’insistente ricorso al punto, col quale Garrapa non pensa minimamente di organizzare una personale grammatica che incanali il senso, deragliato già in origine. La polivalenza del punto consiste nella sua essenza ‘grafica’ quando esso (come già rilevato) testimonia la scelta precisa di un dettato scomposto, di una frantumazione logica irrecuperabile che attesti la rinuncia alla comunicazione, non per postura dell’autore, ma per ineluttabile necessità; d’altro canto rileviamo in Garrapa una (im)precisa dichiarazione di poetica se ammettiamo la possibilità di un metodo dell’autore, di una scrittura meccanica scandita dal punto, in grado di forzare le strutture difensive del pensiero e fare esplodere la diga mediante cui avveniva la costrizione del flusso; al poeta non resta che accogliere e raccogliere ciò che può, o ciò che voleva ritrovare, e ribattere in pagina i frammenti esuli del pensiero; ecco l’autore costatare la parzialità del catalogo dei reperti, confermare la propria disillusione al riordino, ricreare il già detto in una forma mutila.

Dunque il gioco praticato da Garrapa è lo sguinzagliamento del fantasma freudiano col quale instaurare un rapporto di complicità, poiché l’autore può immedesimarsi con esso tanto da delirare al lettore un’unità delle voci di dentro: «e spesso qualcuno. si lascia andare con l’assente. a monologhi avvolti. dalla stanca serenata. del sole»; questa famiglia di voci che s’intersecano nel dettato è per Frasca «manovra che dà vita a una struttura di difesa, e quindi abitativa», laddove il soggetto chiuso in se stesso, «mollusco» (ancora Frasca), è fonte da cui risuona l’eco della propria colpevolezza, riflessa nella pioggia acida dei significanti che qui, nella prima sezione transizioni, possono dar vita all’elenco nullificante di un mondo inconsistente, col quale Garrapa (ancora nell’ottica della dépense) simula un dialogo che è, appunto, monologo dichiarato. Mono-dialoghi in cui Frasca intravede i «semi» del discorso nella sezione successiva, fantasmi, dove a una maggiore inaccessibilità del dettato – qui riproposto in una versificazione incostante – corrisponde un’apertura più intima in cui Garrapa ammette finalmente la ‘colpa’: aver identificato nella ‘parola’ il materiale di struttura per la conchiglia, il rifugio dell’io che adesso può ammettere la finzione, che il ‘fantasma’ è da sempre riconosciuto, che tutto il libro era già libro del fantasma.

Altrimenti perché invertire il titolo nella disposizione delle singole sezioni, come giustificare la fluttuazione del fantasma da un luogo all’altro? Il fantasma è l’elemento volatile all’interno della struttura poetica di Garrapa, il punto mobile di shock che s’innesta barbaricamente per far crollare tutto o insediare nuove civiltà di senso; l’autore aggroviglia tutto, traumi, fantasmi e lingua (questi gli unici titoli dei quaranta componimenti dell’ultima sezione), andando a sollecitare l’uno con l’altro, sperimentando gli effetti del dolore nella lingua, della lingua nel dolore. Garrapa cavia di Garrapa, in attesa di redenzione, non può concludere l’opera, che resta in progress; ultima pagina bianca del libro che non può terminare il non-detto né promettere redenzioni, essa è ‘vuoto scenico’ abbandonato dall’autore, che lascia un interrogativo irrisolvibile sul senso dello scrivere, sul senso della critica.

 

da di fantasmi e stasi. transizioni.

 

avvolti dalla stanca serenata del sole. dietro le calve dimenstichezze di un cielo. oriundo. nei pantani centimetrati di passi. e notevoli nel loro disporsi. casuale come se la ragione. fosse proprio quella. la casualità. spenti gli slanci emotivi. delle foglie che barbaramente. assegnano un posto alla strada. lapide involontaria. dei loro germogli. e spesso qualcuno. si lascia andare con l’assente. a monologhi avvolti. dalla stanca serenata. del sole.

 

c’è questo sole che brilla sul mondo. le crepe del muro. il volto di rughe. tutto è reale. tutto è impossibile. tutto è crudele. arriverà presto la fine. la morte. l’ultima parola però. non arriverà mai. e dovrei ambientarmi in un clima gelido. nel tulipano di zucchero. nell’incavo igloo nel tergiversante. bagliore di aurore in ricoveri umidi. termali di gelo. dovrei farlo perché. c’è questo. sole che brilla sul mondo.

 

vuoto il ricordo nella cornice. trattiene un fiato di foto. pieno il silenzio della mattina. gelida su dita di nebbia. vuoto il pensiero quando un vagito. accarezza le corolle di nuovi occhi. pieno il sentiero di sangue. di chi non lotta e si affatica nel sogno. vuoto il piatto leccato. da grosse lingue del destino affamato. pieno il campo di frequenze elettroniche. che fasciano corpi allungando. la solitudine vuoto. il foglio dell’esistenze. costruite per fare quadrare. un posto lontano. pieno di vuoto. vuoto il ricordo nella cornice.

 

31

Ai fantasmi 14

profilo verticale occhi seni della terra

profumi gesticolanti fiori

nulla fuori lumina non prestabilito

pomeriggio cose soleggiate

abitudini assopite

dipingono cose lontane

i tuoi occhi

riflettendo eterno

 

36

la tua agonia

un neon girovagante

balbettante

non s’accende

non si spegne

sta lì present_assente

un costante sapore di niente

per me importante

 

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