Particolare di una delle opere di Loredana Catania contenute nel libro

Una madre nasce nell’atto quasi involontario di comprendere il figlio, comprenderlo nel significato estensivo di contenerlo, di apprenderlo e di conoscerlo. La silloge Ex madre di Francesca Del Moro, pubblicata da Arcipelago Itaca (e contenente i contributi critici di Rosaria Lo Russo e Luigi Carotenuto, nonché due opere artistiche di Loredana Catania), attraverso una formulazione poematica agisce e continua quest’azione di comprensione, necessaria e drammatica, anche dopo la scomparsa del figlio. Si legga il verso “Ho stretto l’urna contro il ventre,/pesava pressappoco come allora” con cui l’autrice inizia il disvelamento letterario del proprio orrore domestico. Una lacerante dicotomia antinomica tra luce e oscurità, tra amore e rabbia, tra stretta e abbandono pervade l’intera opera poetica, la rende malleabile all’atrocità di ciò che non si può sradicare dalla realtà.

Ex madre: già il titolo preannuncia il moto etico dei versi. Si parte – si inizia a vivere dalla madre, dall’interno del corpo etico e semantico che partorisce un altro individuo, dalla filiazione come radice viscerale che si estroflette e poi, in alcuni strazianti casi della vita, torna a introiettarsi nello stesso grembo materno. A partire da cosa, a partire da chi si vive e si muore? È la domanda della madre più che del figlio, oppure di entrambi, dagli apici opposti di una stessa catena di amore e di dolore. La narrazione memoriale si frammenta nella brevitas, in laconici scorci di ricordi che attraversano la dimensione letteraria come una delle molte dimensioni ontologiche imprescindibili e, per assurdo, impossibili: “Erano tutti in fila sul marciapiede/e l’auto della polizia attendeva:/L’aria era innaturalmente ferma/come il corpo di mio figlio nella casa”.

Le fasi del trauma sono ricorsive, non si lasciano prevedere e scandire dalle aspettative di chi rimane esterno al cortocircuito elettrico del dolore che celebra la progressiva consapevolezza dell’assenza nella presenza e della presenza nell’assenza di chi è mancato e di chi sopravvive nella mancanza. Lo strazio si pronuncia nella chiarezza (apparente ed enigmatica, quasi esoterica) del lessico, della costruzione metrica e grammaticale delle strofe, della sospensione del respiro alla fine del verso, dove brevità e giovinezza drammaticamente coincidono, seppur la giovinezza richiama a remoti archetipi che non si possono abbandonare al solipsismo del passato.

Il tema del distacco violento e definitivo dal figlio non può che ricorrere e fungere da necessario formante della creazione poetica degli autori che hanno vissuto questo indescrivibile dramma. Si pensi a Giuseppe Ungaretti che nel suo Giorno per giorno invoca i ricordi del figlioletto morto e scrive “E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…”(Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 2016), con quei punti di sospensione che arrestano il respiro in un afflato di commozione. Anche Elio Filippo Accrocca, allievo di Ungaretti, ricorda il figlio morto in un incidente stradale nella raccolta Il superfluo: “La tua aurora ancora scrive: è il fiato/d’una parola che rimane, il segno/della tua presenza indecifrabile”(Il superfluo, Mondadori 1980). Eppure tra i versi di Del Moro si assiste al dramma nel dramma di una madre costretta a ‘comprendere’ non il fato ma una precisa, incomunicabile decisione.

La scena dell’addio si scompone in molteplici frammenti memoriali trasfigurati nella vaghezza soffocante del dolore. Il linguaggio e l’assetto semantico del verso simulano la sensazione della vista offuscata dal pianto, di quella visione spezzata che non si riesce a ricomporre: “Il viso che cade/e si sparge, il cielo/versato sulle spalle,/il buio, il taglio/dell’istante”. Improvvise intuizioni della presenza del figlio scomparso dell’autrice fanno ingresso, a intermittenza, attraverso scorci fisici (mani, viso, occhi) che richiamano al corpo la trascendenza dell’assenza. Si opera una voluta confusione tra i dettagli fisici del figlio e quelli della madre, come se la morte avesse sfigurato e, poi, trasfigurato le sembianze del corpo etico della filiazione. Il dettato temporale è precisato, nominato, rievocato con estrema lucidità: la circostanza deterministica della data oscura è una cesura indefettibile tra un’esistenza e l’altra, che si intenda quella tra la madre sopravvissuta e il figlio scomparso o tra la madre vivente e l’ex madre: “Il buco del 5 luglio/ha inghiottito tutto/in un giorno infinito/di luna piena/e sole a picco”. Alcuni testi intonano una cantilena simile a una ninna nanna cupa che simula il fluire spasmodico di un pianto non sempre esteriorizzato. Il rimema lacera proprio dove la frattura emotiva coincide con la più profonda tenerezza: “Sceglierei un piano alto/e gli correrei incontro/con la stessa felicità/con cui lo riabbracciavo/alla fine di ogni giorno”.

Nella duplicità del significato di un verso può essere contenuta una necessaria chiave di volta interpretativa non solo dell’opera poetica ma, soprattutto, dell’opera umana che si svolge nella versificazione. Gli occhi sono ruvidi – o irruviditi, raschiati a sangue – sono gli stessi che carezzavano un figlio vivo e, adesso, lambiscono la sua devastante assenza. “Non lo perdono” è una chiusa straziante e, contemporaneamente, illuminante: con lo stesso sguardo con cui la madre non perdona il figlio, così non lo perde. Quell’io del “non perdono” ha gli occhi che “non pèrdono” il soggetto del mancato perdono. Non perdonare è forse un modo di trattenere in vita chi è andato altrove? “Ma allo specchio ritrovo/un viso che il pianto/ha quasi cancellato,/un viso già morto”: si può morire alla vita nella vita per la devastazione di una vita nata alla morte? Il “pianto condiviso” tra madre e figlio, in qualsiasi combinazione esistenziale essi si trovino, è un grido dialogico, una narrazione in cui s’incontrano il narratore e il narrato e – per avventura – riescono a coincidere nell’estremismo metafisico dell’amore. Gli oggetti appaiono come chiodi d’ancoraggio alla realtà, distribuiscono il peso della presenza, controbilanciano il vuoto, sono necessari. Gli elementi naturali antropomorfizzati cedono la visione panica di molta letteratura per profetizzare l’incarnazione di chi è sparito alla materia universale: “ogni mattina/un occhio di stella/solitario mi sorveglia”. La compartecipazione amicale è un’esperienza tangibile e reale come e quanto la morte, ma più dolce, quasi opposta nella percezione del sé, dilaniato ma presente a un luogo affettivo: “Non ho mai sentito/questo posto così amico,/così buone le persone”. Una gatta è la custode attenta e premurosa di un’abitazione innocente: chissà se ha sentito, se ha pianto all’ora del nero. La casa familiare è stata svaligiata della sua quotidianità proprio come la madre, vittima del dolore più inaccettabile che la società – e il singolo essere umano – possano concepire. Ecco il paradosso ontologico in cui si ritrova una madre costretta a partire – e a lasciare transitare altrove – la sua maternità in funzione di una forma del sé che non conosce ancora, così come non conosce la nuova essenza invisibile del figlio, all’interno di un progetto di ri-conoscibilità affidato alla parola poetica. L’amore manifesta la sua insopportabilità, controbilanciata debolmente da “battute per minimizzare”.

La vita sopravvissuta – vissuta sul dolore, sopra l’esistenza stessa – sembra ridotta a un automatismo artificiale, inverosimile (“mi inserisco come un cavo,/faccio click e sto meglio,/funziono fino a sera”) che riprende la sua naturalezza nella continuazione di quell’accudimento materno irrinunciabile. Nella diversità del loro sonno, madre e figlio si sorvegliano, insistono nel reciproco dono del riconoscimento, della immedesimazione, della ricerca di convergenze metafisiche che vincano la fisica del distacco. La casa ricorre tra i versi come testimone, come amica fedele e compagna di sventura che non si può lasciar piangere da sola: è richiamo alla vita dalla premorienza della dimora più antica, la maternità. Se la stanchezza è uno dei mali del secolo, se si assiste a un affaticamento atavico, pervasivo, invasivo e annichilente delle generazioni, attraverso la cui nominazione si vuol spiegare ciò che non si può dire, ci si ritroverà innanzi a una drammatica richiesta – collettiva o soggettiva che sia – di tregua esistenziale che tende al paradosso dell’inesistenza. Il dolore ha un suo corpo e un suo peso specifico, si adatta ai confini dell’uomo, ne partecipa della definizione etica ed etimologica. Non se ne può prescindere, a differenza del possibile distacco dagli oggetti che dal passato – dal tempo prima del trauma – giungono al presente affinché si possano distribuire, disperdere, condividere con la parte di mondo che riconduce all’esistenza attuale: “Imparare a portare il lutto/ora che il dolore non forza più i confini del corpo”. Chi ha avuto un lutto importante sa che durante la notte “batte più forte/la metà del cuore”: la notte è una frazione temporale disperante, fantasmagorica, feroce. È il frangente in cui si rivive il trauma infinite volte e, ogni volta, è la prima. Quanto è lunga una notte? Il volto della madre non le assomiglia più, è piegato alla pena, contorto nell’anomalia che ammanta ogni successiva visione. La pandemia e l’emergenza collettiva si rarefanno in quell’orrore privato che viene in sogno a raccontare dell’incubo da svegli, e di chi non può restare a svegliarsi nei tempi consoni alla vita. Nell’afflato erotico che rivitalizza la consonanza del tempo e dello spazio – non a caso ultima e definitiva immagine della silloge – il male “staccato dal petto” trasmuta nel dialogo – tra chi vive ora e chi vive ancora – sull’infinito cercarsi e trovarsi “oltre il mondo materiale” che è piccola cosa a confronto di quell’amore invincibile e necessario in cui continuare a rinascere.

da Ex madre (Arcipleago Itaca 2022)

Ho stretto l’urna contro il ventre,
pesava pressappoco come allora.
Un figlio lo contieni sempre
e ogni minuto io contengo,
ogni minuto sento dentro
mio figlio che muore,
mio figlio che decide di morire.

*

Se fossi certa
di ritrovarlo al di là
di questo ruvido grigio
dove esercito l’occhio
a cadere a precipizio
tra i passi consueti
sceglierei un piano alto
e gli correrei incontro
con la stessa felicità
con cui lo riabbracciavo
alla fine di ogni giorno.

*

Io piangerò di nuovo
e tu mi prenderai in giro
e poi mi parlerai dell’infinito,
dell’esistere oltre il mondo materiale.
Racconterai la favola bella
che nessuno veramente muore
e io crederò, sì crederò
alla luce nei tuoi occhi,
alla carezza della tua voce.

 

Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato i libri di poesia Fuori Tempo (Giraldi 2005), Non a sua immagine (Giraldi 2007), Quella che resta (Giraldi 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta 2016), Una piccolissima morte (edizionifolli 2017, ripubblicato nel 2018 come e-book nella collana Versante Ripido/LaRecherche) e La statura della palma. Canti di martiri antiche (Cofine 2019). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (Le Cáriti 2010). Nel novembre del 2020 è uscita la sua traduzione dei Derniers Vers di Jules Laforgue, nella collana La costante di Fidia curata da Sonia Caporossi per i tipi di Marco Saya. Attiva in molti campi artistici, anche extra letterari, dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.

 

 

 

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