È possibile che le generazioni future guarderanno alle nostre attuali agroindustrie e pratiche mangerecce in modo del tutto simile a come oggi noi vediamo gli spettacoli di Nerone o gli esperimenti di Mengele?
D. F. Wallace, Considera l’aragosta (Einaudi 2005, p. 283)

L’industria della carne animale con finalità alimentari è ormai largamente riconosciuta come una delle principali responsabili delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. Il modo di produzione di questo settore è non solo insostenibile dal punto di vista dell’ambiente, ma anche da quello delle condizioni di vita (e soprattutto di morte) degli animali e della forza lavoro. Non ultimo, tutta la filiera produttiva e commerciale della carne è stata negli ultimi anni associata positivamente all’insorgenza e alla diffusione di virus e malattie, tra cui il tristemente noto Sars-cov-2 e l’encefalopatia spongiforme bovina (nota anche come “sindrome della mucca pazza”).
Il tema risulta, per la nostra società, generalmente controverso, perché il cibarsi di carne animale ha messo in secondo piano la necessaria istanza di uccidere degli esseri viventi e coscienti, e pervasivo, tenendo in considerazione un correlato simbolico non continuativo che passa per la cultura cattolica e arriva fino a Gordon Ramsay che sbraita contro i vegani brandendo costolette di maiale.
Volendo definire un minimo campo semantico, esistono alcuni elementi costitutivi:

  1. L’animale ucciso è condizione necessaria per la costituzione di un nutrimento e sostentamento, perché utile alla prosecuzione della specie umana onnivora;
  2. L’animale ucciso è fonte di pericolo e contaminazione, perché i metodi di allevamento estensivi sono associati all’inquinamento, all’aumento delle emissioni di gas serra e a modalità produttive insalubri, come l’utilizzo di antibiotici. Inoltre, è risaputo che la carna di bassa qualità sia consumata soprattutto dalle classi sociali meno abbienti, rinforzando le disuguaglianze;
  3. L’animale ucciso è infine elemento di un rituale e di una supremazia, un sacrificio purificatorio che cementifica la comunità e afferma il dominio degli esseri umani sulla natura.

In quanto controverso e pervasivo, il tema ha interessato direttamente alcune voci significative della poesia contemporanea.
Epidemia di Carlo Bordini, tratta da I costruttori di vulcani. Tutte le poesie 1975-2010 (Luca Sossella Editore 2010), riesce con un espediente retorico (la sostituzione di una parola in un testo giornalistico) a porre sullo stesso piano animali abbattuti nel contesto dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina e le conseguenze del capitalismo estrattivista. Operazione che permette al testo di descrivere una condizione globale di sfruttamento e violenza, che agli inizi degli anni duemila era esplosa con la globalizzazione e denunciata nel corso delle manifestazioni al G8 di Genova.
Condizione globale e irreversibile, che può terminare soltanto con l’autodistruzione dell’umanità.
Il più recente Legati i maiali (Marco Saya 2020) di Teodora Mastrototaro pone una forte enfasi sui metodi violenti di uccisione di animali e conseguente produzione di carne. La raccolta ha, tra gli altri, il pregio di mostrare il punto di vista degli animali (le vittime) e degli uomini impegnati nell’uccisione (i carnefici). Così facendo, Mastrototaro sovverte il principio freudiano della pulsione di vita, che prende i connotati di una vera e propria repulsione di vita.

Si può allargare lo sguardo alle implicazioni antropologiche che due recenti raccolte di poesia hanno mostrato. Si tratta di Scurau (Arcipelago Itaca 2021) di Giuseppe Nibali e Concerto per l’inizio del secolo (Arcipelago Itaca 2020) di Roberto Minardi.

Questo amore con la carne ci hai fatti bestiame umano
La lettura di Scurau, può pregiarsi di diversi aggettivi (disturbante, complesso, multistrato), ma “bello” non è tra questi. Non lo è, nella misura in cui questo aggettivo rientri tra le parole più prive di contenuto oggi in circolazione. Prive di contenuto soprattutto di fronte a un’opera letteraria che fa del mostrarsi dell’orrore uno dei suoi punti centrali, come recentemente evidenziato da Dimitri Milleri. Si può dire moltissimo di questo libro e si spera lo si farà per molto. Per quanto riguarda questo breve contenuto, diversi sono gli appigli.
Risulta utile partire dalla fine della raccolta, contenuta nella sezione che da il titolo, Pi scannari n’cunigghiu, in cui l’autore riporta delle istruzioni per uccidere un coniglio (senza spiegarne il motivo finale, se non quello di trovarsi nel pugno lo spavento della morte). La scena procede con truculenta precisione nei dettagli, in un crescendo di spersonalizzazione nei confronti dell’animale ucciso, chiamato dapprima armaluzzu (animaletto) fino al termine del testo, in cui il corpo morto, esangue, è paragonato a un frutto un’aranata senza scoccia (melagrana senza scorza), una cosetta i sita (calza di seta).
Le immagini di animali si susseguono nel corso di tutta l’opera, per esempio nella sezione Predazione, che si situa in uno scenario post-apocalittico in cui si muovono branchi di lupi come branchi di uomini (torna prepotente l’Homo homini lupus), mandrie di giovani in cui si registrano i primi casi di cannibalismo, eppure sono onnivori.

Sgruma tutto l’osso, spolpa le parti del petto non ti fermare
nei calli; tu scheggia gli incisivi sull’osso

da Scurau (Arcipelago Itaca 2021)

Il perimetro del male
Precedente di un anno è Concerto per l’inizio del secolo, dove le immagini di uccisioni di animali sono associate perlopiù al sostentamento (Davide Castiglione individua nella prefazione al libro un interessante dualismo nell’immagine della bocca, intesa nella sua funzione verbale e in quella alimentare).
Il ritratto del male è infatti una serie di plurimi omicidi perpetrati da uno dei personaggi presenti nella raccolta, per la sola ragione dell’ingozzarsi, necessaria a ribadire che se ne fotte (…) degli animali, altamente. Più in avanti, la pratica della pesca diventa motivo di vanto presso gli amici, una sorta di Potlach rovesciato, perché perpetrato con dei beni che non si possiedono.

I pesci sono sparati dalla pancia di un velivolo
piovono a valanga sul lago lo ingrassano
il pescatore sederà col giubbotto smanicato
attenderà che la trota sbavi per il lombrico
il pomeriggio riporterà tutto dai cognati
mostrerà il video dei guizzi dentro il secchio
loderà la quantità di pace da non immaginare.

da Concerto per l’inizio del secolo (Arcipelago Itaca 2020)

La fascinazione del male è tale che lo stesso io poetico di Minardi, seppur impegnato in un’epica emancipatoria di pietas (come sapientemente indicato da Castiglione sempre nella prefazione al testo), rischia di essere assorbito. Il motivo è quello della sussistenza.
Del resto, l’io poetico di Minardi e il danaroso proprietario di porcili che egli osserva, sono entrambi impegnati a saziar(s)i.
Risulta difficile distinguersi, se non attraverso una presa di coscienza.
Come lo stesso Nibali scrive a proposito di Minardi: “l’autore racconta il sentimento di sconforto nei confronti del mondo contemporaneo e dei suoi rapporti con natura e ambiente i cui protagonisti sono i soli capaci, con un lavorìo incessante e ignorato, di attivare il “moto magmatico” della vita”.
Moto magmatico che qui è soprattutto sopraffazione, degli altri e di sé stessi.

Dialettica aumentata
In cosa differiscono le prospettive di Nibali e Minardi?
Nel primo, la predazione è inevitabile, perché la corruzione è pervasiva e costitutiva del proprio tempo, capace di esprimersi ugualmente nella sfera privata e in quella pubblica. L’uscita dal canone, che lo stesso Nibali ha prospettato definendo Scurau, per avventurarsi lungo sentieri esplicativi sociologici non può che postulare l’inesistenza di una volontà individuale, schiacciata dai moti socio-storici.
Nel secondo, il moto individuale, la coscienza, la pietà, segnano ancora delle differenze interne agli esseri umani. Seppure persista il pericolo di venire corrotti. Molto significativo in questo senso è il testo finale dell’opera di Minardi, che probabilmente vede nell’esercizio di una scrupolosa solitudine, allietata da pochi sodali, un motivo di salvezza.
È quindi un poeta del 1977 a essere moderatamente più ottimista di uno del 1991.
In entrambi i poeti, in ultimo, l’uccisione dell’animale e l’utilizzo della sua carne sono elementi di una dialettica vittima-carnefice aumentata. La natura controversa e pervasiva dell’uccisione dell’animale, come sopra definita, fa sì che ci si riveda in entrambi i ruoli di uccisore e ucciso (come del resto mostra il libro di Mastrototaro), una sindrome di Stoccolma bidirezionale, un Poujadismo in positivo.

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