Franca Grisoni abita a Sirmione, in una piccola chiesa sconsacrata. Cura lei stessa il rigoglioso giardino: è questa la scena della poesia, ne riassume i caratteri di naturalezza, intimità e religiosità. L’ultimo suo libro, Croce d’amore – Crus d’amur, edito da Interlinea, con prefazione di Giuseppe Langella, è una passione in versi ispirata dai capolavori del Romanino sparsi nelle chiese di Brescia e dintorni. Ut pictura poesis, scriveva Orazio. La poesia è come la pittura. L’arte da sempre insegna e rivela, la poesia osserva e canta. Franca Grisoni tratta qui, nella sua consueta lingua sirmionese, un tema che le è congeniale, il sacro declinato attraverso le tappe dolorose e gloriose della Redenzione: anima i personaggi dipinti dal Romanino, ne interpreta i pensieri e i sentimenti, pronta a cogliere i caratteri in un’ora speciale, irripetibile, che interrompe la quotidiana fatica del vivere della gente del popolo, protagonista di solito di una storia minore, ma adesso reclutata per rappresentare la grande vicenda della Passione e Resurrezione di Cristo, per fare da modello al pittore. Nell’umiltà abitano la grandezza e il miracolo: è necessaria la storia perché il divino si manifesti. Il lettore e lo spettatore sono continuamente chiamati in causa: non ci è consentito essere neutrali. La poesia e l’arte nascono dalla contemplazione e dal sentimento. La poesia non è didascalia, genera a sua volta immagini. Il pittore e la poetessa ci spiegano la differenza tra il guardare e il vedere provando meraviglia. Così diventiamo capaci di cogliere i dettagli. Il gatto sparente dell’Annunciazione è gemello del gatto spaventato in fuga davanti all’angelo della pala di Recanati di Lorenzo Lotto: a significare lo sconvolgimento provocato dal soprannaturale che irrompe nella realtà. E quanta tenerezza nell’incontro della Visitazione tra le due neomadri, Maria ed Elisabetta. All’immobilità delle scene sottostà il fermento interiore dei personaggi, la loro umanità che la poesia indovina ed esalta: la vanità di colui che interpreta Giovanni, l’apostolo preferito, la verità del fornaio che posando nell’atto di fustigatore scopre in sé un lato violento. Poesia e pittura parlano qui la stessa lingua: quel realismo raffinato e schivo, lontano dall’esibizione, votato piuttosto all’intima analisi, alla composizione dei contrasti. La poesia sembra sempre tradotta da altro. C’è un alito, dentro, che la ispira. Nel quotidiano deve avvenire l’epifania.

La pittura, Bibbia dei poveri, esemplifica e tramanda il mistero che si perpetua, ci scuote e ci commuove, eppure ci rassicura. L’arte e la poesia ci dicono che la fede e l’amore cambiano la vita: che la speranza è possibile. La vocazione non riguarda solo gli apostoli Pietro e Andrea, ma anche noi e chi verrà dopo: la chiamata di Gesù prosegue lungo le epoche. Il bresciano Romanino illustra la cornice che ci è più familiare: quelle tavole dell’Ultima Cena e della Cena a casa del Fariseo apparecchiate con suppellettili solide e preziose, specchio del gusto lombardo che sempre tesse l’elogio delle cose; quel cielo, anch’esso così lombardo, occhieggiante dall’alto oblò aperto nell’architettura. E quel lago cupo (Garda? Iseo?), solo evocato ma presentissimo. La poesia di Franca Grisoni non è un doppio né un’eco della pittura: sono due diversi modi di esprimere l’ineffabile. Invece dell’acquaragia, probabilmente Romanino – azzarda la poesia – adoperò le lacrime degli angeli per diluire il pigmento e dipingere Gesù morto, la luce che si spegne. Ma presto Cristo appare nel fulgore della sua Resurrezione: e all’artista servono altre tinte, altri toni. Eterna è l’arte: il “gran telero” è destinato «per en per semper / che ‘l düra e ‘l dürarà / istes, splendur de verità / sura chesto altar / ‘ndó ‘l turnarà a das / Lü, pa fres-c, / vita da magnà». (per un per sempre / che dura e durerà / identico, splendore di verità / sopra questo altare / dove tornerà a darsi / Lui, pane fresco / vita da mangiare).

 

Gh’è posto aca per me
avert dal sò penel
che ’l sa de ciei e ciel
e cör e pansa come
’na stansa granda
’ndó töt el sculta
e ’l ciama a senter
e vegne dré al gat
za scapat de lé.
L’è lé, l’è lé da veder.
Aca lü ’l vèt
chèl che t’ét vist te.
Scundida sculte
el Verbo. Chí, con te,
aca me leze nel Liber
de chèle quante
vignide prima
mare per grasia
e me vé ’l sospet
de ’n mia pusibol
che, a olte, l’è süces
ma mai compagn a te.
Mare de Dio
e mare aca de me
fa che te sapes
a dimel te dal ciel
l’amur che ’l nas
che ’l speta apena en “sé”
da dì chí, ’n tera, a l’angel
precipitat chí per me.
Santa pasiensa de Dio
che ’l slarga i bras: El ciama
dal quert desquarciat
El speta apena me.

C’è posto anche per me / aperto dal suo pennello / che sa di cieli e cielo / e cuore e grembo come / una stanza grande / dove tutto ascolta / e chiama a sentire / e seguo il gatto / già scappato di lì. / È lì, è lì da vedere. / Anche lui vede / ciò che hai visto tu. / Nascosta ascolto / il Verbo. Qui, con te, / anch’io leggo nel Libro / di quante tante / venute prima / madri per grazia / e mi viene il sospetto / di un non possibile / che, a volte, è accaduto / ma mai come a te. / Madre di Dio / e madre anche mia / fa’ ch’io ti sappia / a dirmelo dal cielo / l’amore che nasce / che aspetta solo un “sì” / da dire qui, in terra, all’angelo / precipitato qui per me. / Santa pazienza di Dio / che allarga le braccia: chiama / dal soffitto aperto / aspetta solo me.

 

***

 

Magnificat magnificat
magnificat anima mea Dominum
L’amur encarnat
el s’è riconusit
nei colpi d’ala möicc da deter
dai du picinì che za i s’encontra
nele dò fonne, mare
ch’i è dré a strenzis.
Lure le sent, lure le capis,
lure le sculta l’exultet del sanc
dei du picinì.
L’è grand el sò sentis
e ’l tò penel el i a canta
chí, sot’a casa,
le piene de grasia
mare de bé
fonne che bendis
chèi che s’encontra
e che i se ’ncontrarà
i fiöi de Dio, fiöi de la lüs
che i la magnificarà
l’amur encarnat
co’ l’orghen del sò fiat
magnificat magnificat
magnificat anima mea…

Magnificat magnificat / magnificat anima mea Dominum / L’amore incarnato / si è riconosciuto / nei colpi d’ala mossi da dentro / dai due piccini che già s’incontrano / nelle due donne, madri / che si stanno stringendo. / Loro sentono, loro comprendono, / loro ascoltano l’exultet del sangue / dei due piccini. / È grande il loro sentirsi / e il tuo pennello le canta / qui, sotto casa, / le piene di grazia / madri di bene / donne che benedicono / coloro che si incontrano / e che si incontreranno / i figli di Dio, figli della luce / che lo magnificheranno / l’amore incarnato / con l’organo del proprio fiato / magnificat magnificat / magnificat anima mea…

 

***

 

Me, la ciamada
per sta chí zo, ai tò pè.
Pagada a ure da ’sto pitur
per ’st’oter me mister
che a me ’l me cambia:
el sente, el gh’è dré.
So chí cüciada
nel bas che me convé.
Chí so riada, en zenocc,
sto chí, ai tò pè,
sensa scudime
a chesti me clientcc
che i s’è facc server,
che i me dis sö, che i sa
qual l’era ’l me mister.
Signur, Te ’l set che i ó perdicc.
Me, perdunada?
So chí da dé de ure
quate ne ucures
per chesto ensema
che me liga a te.
Tò servidura, Signur,
che sul te onte i pè
che ’l so ’l tò südare
e za me ’l vède
postat come ’n mantel
e l’è amó lüs d’arzent,
ma za ’l so sfantat
nel zel morel de mort,
tra poc, nela tò pel.
El la copiarà el pitur
bu de slongà la lüs
fin a smorsala
con el sò penel.

Io, la chiamata, / per stare qui, ai tuoi piedi. / Pagata a ore da questo pittore / per ’st’altro mio mestiere / lo sento, lo sta facendo. / Sto qui, accucciata / nel basso appropriato a me. / Qui sono arrivata, in ginocchio / sto qui, ai tuoi piedi, / senza nascondermi / a questi miei clienti / che si sono fatti servire, / che sparlano di me, perché sanno / qual era il mio mestiere. / Signore, Tu sai che li ho perduti. / Io, perdonata? / Sono qui da giorni di ore / quante ne occorrano / per questo assieme / che mi lega a te. / Tua serva, Signore, / ché solo ti ungo i piedi / ché so il tuo sudario, / e già me lo vedo / appoggiato come un mantello / ed è ancora luce d’argento, / ma già lo so sciolto / nel gelo livido di morte, / tra poco, nella tua pelle. / Lo copierà il pittore / capace di diluire la luce / fino a spegnerla / con il suo pennello.

 

***

 

So me. So me töi du.
Me – el mai stat bu
a fermame – quate ure
ligat sura la crus!
Prima a fam me,
a ostià contra al Signur,
a mia crediga al ciel,
pò a fa chèl bu
– come ’l conta el pitur –
e quasi quasi
– vardando el debù bù –
me vé come en sospet
e me ’l figüre za l’angel
e ’l sò ciel che, forse
forse, sul a crediga
a l’oter, chèl lé ’n mès
che ’l me promet a me,
che som sul me e Lü.
Chí sota so nisü:
luntà el cazì. Per Lü
gh’ó sul el ciel vizì.
Dò olte en crus,
ma quate malvas,
quate el malfatur?
Ma quate olte
perdunel el Signur?

Sono io. Sono io entrambi. / Io – il mai stato capace / a fermarmi – quante ore / legato sulla croce! / Prima a fare me, / a bestemmiare contro il Signore, / a non crederci al cielo, / poi a fare quello buono / – come racconta il pittore – / e quasi quasi / – guardando il veramente buono – / mi prende come un sospetto / e mi figuro già l’angelo / e il suo cielo che, forse / forse, solo credendoci / all’altro, quello lì in mezzo / che fa una promessa a me, / ché siamo solo io e Lui. / Qui sotto non so nessuno: / lontana la bolgia. Per Lui / ho solo il cielo vicino. / Due volte in croce, / ma quante malvagio / quante il malfattore? / Ma quante volte / perdona il Signore?

 

Franca Grisoni è nata a Sirmione, dove vive. Collabora con il «Giornale di Brescia», «Paragone Letteratura», «Città & Dintorni» e «Psicogeriatria». Scrive nel dialetto di Sirmione. Ha pubblicato: La böba (San Marco dei Giustiniani, Genova 1986, Premio Bagutta opera prima); El so che te se te (Pananti, Firenze 1987, Premio Empoli); L’oter (Einaudi, Torino 1988); Ura (Pegaso, Forte dei Marmi 1993); De chi. Poesie della penisola di Sirmione (Scheiwiller, Milano 1997, Premio Viareggio); La giardiniera (L’Obliquo, Brescia 2001); L’ala (Liboà, Torino 2005, Premio Biagio Marin); Passiù (L’Obliquo, Brescia 2008); Poesie, a cura di Paola Carmignani, (Morcelliana, Brescia 2009, Premio Salvo Basso, Premio Tirinnanzi); Compagn (Morcelliana, Brescia 2012, Premio Nazionale Ponte di Legno Poesia); Medea (Fondazione Etica-L’Obliquo, Brescia 2012). E inoltre: Appunti sul far critica di Cesare Garboli (Pananti, Firenze 1992); Nel tempo di Mattioli (L’Obliquo, Brescia 2005). Sue poesie sono state pubblicate su quotidiani, riviste e antologie. L’opera più recente è Crus d’amur (Interlinea, 2016), poesie nel dialetto di Sirmione ispirate dai dipinti del pittore del rinascimento bresciano Girolamo Romanino.

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