Come spesso accade, un fortuito incrocio delle strade che calchiamo quotidianamente mette in relazione persone che, per localizzazione geografica, categorizzazione anagrafica o semplice sbadataggine dei piani dimensionali avrebbero potuto non conoscersi mai nella loro vita. In un simile modo incontrai Pasquale Pietro Del Giudice la prima volta: ritrovandoci accanto ad un concorso di poesia che aveva avuto ottima lungimiranza. Dopo anni in cui ci si è risentiti periodicamente, egli stesso mi inviò in dono questo libro dal titolo spiazzante, nel senso etimologico del termine, e subito ne rimasi impressionato. L’alternativa, lo sfasamento, il dirottamento arguto del senso infatti è il timbro stilistico di Piste ulteriori per oggetti dirottati, questa galleria di attraenti alternative al piatto realismo.
Leggendo con minuzia ed attenzione ogni componimento, se ne apprezza e gode la costruzione sapiente del testo, che denota un uso disinvolto della lingua e dei linguaggi, spesso settoriali, addirittura tecnici, con cui il poeta decodifica il reale, spesso spicciolo ma non per questo meno fondamentale per noi umani. Soprattutto mi ha incuriosito la confutazione della separazione tra noi animati e gli oggetti, quasi ci fosse una segreta, morbosa simbiosi da dichiarare con quella svagata ed ironica icasticità che è peculiare di Del Giudice non solo scrittore, una caratteristica, a parer mio, di ascendenza classica. Infatti, nei versi dalla misura distesa e avvolgente, si vede molto dei poeti latini, Lucrezio su tutti, ma anche Virgilio: si rintraccia questo legame soprattutto nell’andamento enumerativo, nomenclatorio, affastellante dei quasi epici cataloghi, che contribuiscono alla sensazione di una soffocante folla di segni che ci vogliono parlare ma che non sempre trovano orecchie capaci di capire. Quelle del poeta lo sono, ed egli rivendica fortemente questa abilità: «Cosa non sono e cosa non hanno pensato di essere / queste due bottiglie di plastica / sono la cosa che più mi interessa» (pag. 57).
Questa continua simbiosi tra i piani della realtà si riflette e sostanzia in una perpetua oscillazione dei registri, tra l’alto e il basso, in una sorta di denudamento ironico e straniante, basato anche sugli insistiti allacci fonici che intelaiano i testi. Il ludus di Piste ulteriori per oggetti dirottati, molto razionale ma al contempo radicato profondamente nei grovigli emotivi dell’io poetico, ha nella potenzialità infinita dell’immaginazione la sua arma più acuminata, e Del Giudice sornionamente ci induce ad emulare il suo esercizio di libertà anarchica da quella monotonia dell’oggettività, che fin troppo penalizza la nostra esistenza, affinché si possa finalmente respirare «fuori dal recinto del significato».

 

da Piste ulteriori per oggetti dirottati (Edizioni Ensemble 2019)

 

VITA EROTICA DI UNA CALDAIA

Lapalissiana è la componente erotica
nelle caldaie domestiche,
tuttavia risulta ancora irrisolta
la questione della loro compiacenza,
se godano o meno nel riscaldare
nell’accontentare il compagno o la mano di turno,
nell’eccitare le frigide acque
oppure si prestino controvoglia al loro lavoro
per non sminuire la mascolinità
insicura e irascibile di qualche partner;
forse sono donne incatenate ai letti
ai muri esterni delle abitazioni,
indegne di figurare negli album di famiglia
obbligate a soddisfare le smanie più oscure
collegate a una fitta trama di tubi
dentro gallerie strettissime, intrico dove
scorre il liquido, tubature della libido
che si incanala attraverso condotti, cambiando
improvvisamente strada per un ostacolo
un divieto cattolico, una censura educativa
che fa deviare il corso lineare delle voglie
facendole accrescere, alimentandole
rimandandole, correggendole,
giudicandole e contraddicendole
nei loro contorti passaggi reticolari.
La caldaia è il centro erotico della casa,
imperterrita fiamma pulsionale,
preferisce le lunghe prestazioni di docce o bagni caldi
dove ci si dimentica di esistere
ad accoppiamenti occasionali e intermittenti,
aprire un rubinetto dunque
può equivalere a perpetuare uno stupro
una violenza ai danni di una delle sue parti
del focolare o del bruciatore,
della camera di combustione
del fascio tubiero o del camino;
tutte sottoposte a inceppi, usure, malattie
causate dalla poligamia congenita delle caldaie,
la loro salute necessita dell’intervento
ciclico di tecnici specializzati, di cultori
delle loro zone erogene, ginecologi
o perversi feticisti, ossessionati dalle logiche del desiderio.

 

LA TAZZINA

Se devo dire di una tazzina, ad esempio
l’importante è non vederla
ma immaginarla, giocare e ritrattare
il ricordo dell’oggetto, senza la sua presenza
fare della sua assenza
lo spazio della mia allucinazione,
pista ulteriore per dirottare gli enti.
Una tazzina, a ogni modo, è meno di una tazza
ma ciò che perde in dimensioni
guadagna in eleganza, una chicchera
è puro esercizio estetico
una questione gestuale, di geometrie minime
la modalità in cui si porta alle labbra
rivela il gusto della persona,
i suoi modi, le forme attraverso le quali
taglia l’aria che la circonda
facendo della mobilità dello scheletro
posa, grazia, dignità, cultura.
A tal riguardo, da come muovi una tazzina
delicata come una ballerina
potrei scommettere la cifra dei libri che hai letto
il mestiere dei tuoi avi, la sensibilità
acustica del tuo orecchio, mentre ti bagni la bocca
dal bordo del suo laghetto, devi pensarti pallido
nobile, con una parrucca del settecento,
tutù capovolto, piccolo wc,
igienizzato ad alte temperature
la mattina, il pomeriggio, la sera, nei caffè
ai tavolini, passando di cavo orale
in cavo orale, di chiacchiera in chiacchiera
tombale custode di confidenze,
discreta copertura per assumere veleni,
piscinetta per zollette di zucchero,
cassa di risonanza per sinfonie di cucchiaini,
essere tazzina vuol dire preservare
un assoluto nitore e distacco, lo splendore
sofisticato di una demitasse corredata di piattino.

 

LA BARCHETTA DEL POETA

Fissi scorrere la foglia piegata, la pagina,
zattera o missiva affidata all’acqua,
al flusso telematico delle informazioni,
con la speranza di essere letta,
fissi il punto preciso, il centro assoluto
dello stormo di segni il suo vuoto
il suo nulla il suo essere folto di carni
clandestine costrette stipate una sull’altra,
come cadaveri, fosse comuni galleggianti
teste deportate, in uno sgabuzzino di lettere
in attesa di occhi e porti più aperti
fissi l’ossessione stessa, fissi il tuo chiodo
la sua ombra, il suo mutare, da fuori
dallo sguardo della parete che ti fissa
nella tua stanzetta, nella tua irrilevanza
mentre tracci la riga mentre semini
le piantagioni di parole, edera stesa sul muro
della carta, dopo giorni, dopo la morte in faccia
come un salvagente, una boa, una fune
ridicola, inutile, autoreferenziale
che non salverà nemmeno te stesso
dalla facile colpa dei tuoi privilegi,
mentre guardi com’è facile lasciarsi andare
andarsene lasciandosi, crepando
di ordinaria assuefazione, di promesse deluse
di bandiere arrese, fissi indifferente
la barchetta di carta dei vocaboli andare,
affogare, senza forza o possibilità di risposta.

 

Pietro Pasquale Del Giudice (1987) vive e lavora a Milano, laureato in filosofia con una tesi su E.M. Cioran. Nel 2008 alcune sue poesie sono state raccolte in Nodo sottile 5 (Le Lettere, Firenze). Selezionato tra i finalisti del concorso “Opera prima” di Poesia 2.0 (2016) e menzione speciale “Opera Prima” del premio Arcipelago Itaca (2017). Oltre a Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble 2019), ha pubblicato Difetto di coincidenza (Oèdipus 2020). Alcuni dei suoi testi e interventi sono apparsi in siti e blog letterari (Poetarum silva, Nazione Indiana, Poesia 2.0, Interno poesia).

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