da Annuario 2015
 
Aggiornare la scena della poesia triestina tra la fine degli anni Novanta e questi primi decenni del nuovo millennio è un compito che deve fare i conti con una vasta produzione italiana e con un tentativo di fare chiarezza su alcune sperimentazioni – penso mentre scrivo alle parole di Gillo Dorfles sull’evoluzione artistica, nel tentativo di rilevare delle tendenze, e sistemare anche alcune poetiche prive di una collocazione. La precisazione è dovuta perché scrivere bene di un concittadino è, alle volte, un esercizio di stile, più che di verità, soprattutto se i poeti sono legati da affinità teoriche nel campo della contaminazione con altre arti. Gabriele Stera, poeta nato nel 1993, non ha alcun legame con i componenti del gruppo de gli ammutinati che a Trieste dal 1999 molto hanno ragionato sul patto tra pubblico e poeta, sulle tecniche teatrali che legano performance e poesia, nonché lavorato nella direzione di un connubio con la musica elettronica (Luigi Nacci, Matteo Danieli, Furio Pillan e il sottoscritto). Trovare a Trieste un compositore e poeta al tempo stesso è una bella scoperta, ma bisogna sgombrare il campo da una serie di nozioni fuorvianti perché in Italia la scena dei poeti che interpretano i propri versi è stata etichettata come performativa, termine in cui si vuol far ricadere tutta la poesia che ha a che fare con un palcoscenico – la poesia nutre per sua fortuna diverse opzioni formative.
Ha generato (e genera) confusione relazionare la performance di una poesia alla contaminazione con la musica o a situazioni spettacolari come lo slam. Non è un caso che chi abbia studiato le tecniche teatrali non può considerare performance tutto ciò che esprime una sorta di spinta all’interpretazione in diversi ambiti, soprattutto dove griglie metriche e ritmiche stringono con la parola un rapporto formale talmente vincolante da essere il veicolo pure del rapporto con il pubblico; ed è evidente che nei poeti di impronta performativa uno schema rigido sia sempre forzato o violato, probabilmente per la necessità di costruire una realtà in cui far accadere la poesia – ricordo le performance a partire da poemetti, raccolte o partiture, quali Penelope di Rosaria Lo Russo, Fuoco Centrale di Mariangela Gualtieri, Milano ictus di Dome Bulfaro, e quelle delle opere di Biagio Guerrera, Maria Valente e Domenico Brancale – da elementi capaci di funzionare sia internamente al testo che esternamente nella scena/situazione che si rappresenta, elementi che nell’interpretazione si animano e corrono su un piano simbolico e concettuale e accadono anche grazie alla risposta del pubblico, che non solo ripone attenzione al suono e al significato, ma è trasportato immediatamente in una realtà.
La performatività è un’altra cosa rispetto allo slam, che è un format di spettacolo che incorpora testi di natura varia e dissimile. La formatività che percorre i testi dei vincitori degli ultimi contest italiani di poetry slam, è spesso portatrice di metriche e ritmiche tradizionali che si combinano alla narrazione (Alfonso Maria Petrosino scrive endecasillabi, Luigi Nacci poemi dai chiari accenti fissi, il pluricampione italiano Simone Savogin è un elaboratore di ritmi), per non parlare della sfera intimista (la poetica di Pierluigi Lenzi, che ha vinto il Campionato Nazionale LIPS 2014) o della mediazione di scritti che rimandano a quelli del teatro in prosa (Giacomo Sandron con le sue poesie tra l’ironico e il sarcastico, Sergio Garau con i suoi testi comici) contaminati da tecniche accentuative – è paradossale la situazione di confusione anche in chi lancia strali contro il poetry slam, dato che i principali attori di questa particolare forma di spettacolo, in Italia, sembrano riferirsi alla metrica tradizionale o a modelli maturati nel primo Novecento. Una prosa su cui si adagiano tecniche accentuative e un po’ di teatralità, l’impiego di ritmi e metri consolidati nella tradizione, sembrano i candidati migliori per entrare nella scena del poetry slam.
Pure il rap si differenzia sia dalla performatività sia da ciò che può andare bene a uno slam per via del rapporto con il ritmo della musica – fatta eccezione per Francesco Kento Carlo che ha raggiunto le finali nazionali LIPS 2014 [terzo al Trieste International Poetry Slam nel 2017, NdR] per la chiara attenzione ai modelli di accenti, dovuta alla sua grande meditazione su uno dei libri più importanti del Novecento, cioè Lavorare stanca di Cesare Pavese.
Chi versifica nell’ambito della canzone o sperimenta gli ambiti musicali, deve stabilire nessi con la musica e fare i conti con le strutture esterne del ritmo musicale per ricombinare le metriche e le pause testuali, ed è una direzione molto complicata che interseca relativamente il concetto di performance, sicuramente la poesia approdando ad alcune strutture di accenti, ma non in senso stretto. Oltre al rapporto con le griglie di ritmi e metri c’è il rapporto con il tappeto sonoro, e su questa fusione si fonda anche la ricezione del pubblico.
È proprio il mondo tra poesia e musica a interessare Gabriele Stera (si osservino le note ai testi), che si occupa con perizia del ritmo, usando accenti ricorrenti e non casuali: si ascolti la ripresa del verso alessandrino del poeta trevigiano Alberto Dubito che apre il testo Altre nuove periferie arrugginite, e il raddoppio di endecasillabi poco più avanti che fornisce delle giustificazioni al ritmo. Oppure in Horror vacui vago ancora la serie di ottonari iniziali, ottonari che si ripetono più avanti nel testo e fungono da “ritornello”. Queste poesie sono canzoni sperimentali, funzionano sia nel senso della lettura che dell’ascolto, e riaprono quel laboratorio che impiega la poesia in stretto collegamento con la musica, senza sottovalutare la funzione del testo con la sua plasticità ritmica, i suoi versi e le sue pause. Riguardo al tema, la poesia dell’autore parte dalla constatazione di una condizione esistenziale, il dover «continuare» a vivere mentre «la noia del niente di nuovo» invade le periferie umane, «come se tutto fosse niente» e come se «niente fosse», come se gli individui fossero una massa informe, come se pure la poesia non esistesse. Interessante in Stera l’utilizzo di un linguaggio surreale, che opera da subito la trasformazione del soggetto-individuo in simboli e concetti, ed è su questo espediente che si gioca tutta la versificazione: «sono città in fiamme», «siamo giorni matti», «Sarò L’antitesi di ogni aspettativa / Una faccia del cubo, un numero qualunque / infinitamente divisibile, invisibile e molteplice», «E sarò la nostalgia dell’assoluto». Da un lato nel poeta c’è la constatazione dell’essere, più che individui, strane facce numerate di questa società, dall’altro la ricerca di senso, drammatica, perché incombe sempre quel «futuro indefinito» in cui non esisteremo.
Buona lettura, ma soprattutto buon ascolto.
 

Divento vento. Gabriele Stera


Divento vento (au bord de la route)
(Le Weekend sbuca da un’interferenza – Allô tu m’entends? –)
(Di fretta da un telefono lontano appoggiato all’orecchio
destro
) Senti devo dirti una cosa e te la dico perché devo,
perché i giorni poi passano e lasciano lividi
lì: dove credevi che l’iride rima coi limiti.
Poi passano e vanno negli occhi
lucidi come ricordi rapidi
Volevo scriverti, ma sai com’è la
vita, ho iniziato, e ho finito la matita.
Le tasche le cose, le borse le storie
durano quanto le lasci durare.
non è che mi manchi la voglia, e nemmeno la fretta,
ma quello che resta è comunque un’assenza. Pensa,
in questo momento ti parlo dal bordo,
a bordo di un vago ricordo d’infanzia passata
in luoghi distrutti tra il molo e il molare cariato del porto
abbandonato. Abbiamo imparato in quei giorni di vetro
che tutte le armi sono bianche, e le guerre
si possono fare anche in mezzo al deserto
da soli o assieme, contro il muro, il suolo in
volo: lo stormo che sono che siamo migra
per luoghi diversi più caldi e lontani.
E adesso che siamo distanti t’immagino
gli occhi distratti e qualcosa tra le mani
mille cose nella testa e solo una vaga idea
di cosa potresti voler fare domani.
E non te lo chiedo, lo so che stai bene
lo so che fa male, che ti chiedi se vale
se ha senso, se conta, e se conta conta fino a quanto?
Finiscono i numeri primi e i secondi
s’inseguono dentro al minuto contato. Tra
l’altro tra poco ho finito il mio tempo
e ancora non ti ho detto che ci penso spesso
alle foto che avremmo potuto scattare,
e sorrido e lo so che avevi ragione
che avremo comunque, sempre
qualcosa di meglio da fare.
Piuttosto che stare a pensare che forse
in un futuro indefinito ci potremmo mancare.
(Respirando, con un amore incondizionato per il meteo)
Ecco volevo dirti che a quest’ora qui non piove, sono le diciannove
non fa molto freddo, non ci sono nuvole ma soltanto un vento fortissimo.
 
Altre nuove periferie arrugginite (Ascolta qui)
Per Alberto Dubito
(In lento avanzare con passi diversi)
Mentre cammino solo sono città in fiamme
ad un palmo dal suolo, il cemento che suda la fretta di ieri l’alba
non smette di esplodere ad est e noi di tramontare sfasati.
Ostinati e contrari agli orologi non sappiamo fare altro che finire,
come trottole impazzite a quest’ora
morendo di voglia di alzare le palpebre a chi non lo sa che la vita
o si abita tutta compresa la notte oppure non vale la pena. Siamo
giorni matti, epoche sbronze
i tempi dispari del mondo, anche se
cieli che si schivano e non vogliono cadere
l’ingranaggio è scomodo anche oggi e vedi
le rovine del futuro sono queste due ginocchia
su cui pensano l’anticipo e il ritardo, il lavoro
lo sguardo fluido dei miei riflessi lenti a dissolvenza
dove sbattere le palpebre sperando di sbagliarsi.
E ogni notte controllare il passaporto per sapere
se dopo tutto questo e il resto
ti assomigli ancora oppure no.
 
(Deciso e incisivo)
Nonostante la pioggia costante
stasera ricordo agli eterni ritorni
l’ingombro dei corpi celesti risorti dai sogni.
sparivano a largo le cattedrali occidentali
ed è tragico il cielo
adesso che per un maldestro dispetto del tempo fa buio più
presto, vedi il disastro si è fatto più attento, e non bastano gli occhi
per questi orizzonti a scomparsa ci servono anni
di carcere a cercare il dettaglio nel muro del suono, per ridefinire
e ridere infine di questo corpo nero.
che per quello che sono saremo che siamo e siamo stati,
non basta una scienza, né un dio, né una coscienza
d’amianto, non basterà il pianto a lavare il bulbo oculare,
e la noia del niente di nuovo sul fronte occipitale.
 
(Riprendendo)
Eppure noi dobbiamo continuare come
se non avesse senso pensare che
s’appassisca il mare –
(Si alza con teatro, ha fretta, dispera, crede ma soprattutto ricorda)
che s’arrugginisca il fiore del male
che s’inceppi il meccanismo dell’amore
come se non avesse senso parlare
e passare le ore a due metri dal cuore
dobbiamo continuare come se tutto fosse niente
e poi come niente fosse
passare ad un passo dai vuoti di voce.
Lasciare la luce, trovare la foce
e se necessario tirare uno schiaffo al
sipario sfondare la scena, sbarrare la strada
e con i denti: fare a pezzi i continenti.
Che se mi sezionaste, ora, le mani,
trovereste: cavi, e cave in cui scavare
e ritrovare altre canzoni,
e rivendicazioni di altri.
Ancora.
Erro adesso solo insieme ad altri, giovani stranieri
con le stesse strane facce
e miliardi di altri errori da rifare.
E poi le stesse storie antiche
da altre nuove periferie arrugginite.
 
Horror vacui vago ancora (Ascolta qui)

Ciò che è detto è l’estuario di una voce
inversa (ondulato, mantra)

Horror vacui vago ancora
per le tue mani distratte
ed oramai non mi dispiace
dare un nome alle chimere
bere vino da grondaie
rinunciare a lungo andare
e a forza di dire,
dimenticare il fare.
(parlato lento, oscillare)
E se mi dovessi stancare,
Andrò a vivere con una dolce giustificazione
coi miei occhi d’origami
ruberò l’aria rara del venerdì sera
E avrò sempre una buona scusa
per non essere dove mi cerchi
Sarò L’antitesi di ogni aspettativa
Una faccia del cubo, un numero qualunque
infinitamente divisibile, invisibile e molteplice
Avrò sempre di che mangiare, non temere,
Sulla cattiva strada, andrò ad aprire un ristorante
Con soli primi piani dentro a piatti fondi
e secondi di carne, lenti
_/ (scendiamo nel secondo come al microscopio un atomo in un attimo è [grande)
Una voce di donna sfugge al lento, appare e parla degli occhi di Filip
-po IV
– Quand il est mort, personne n’arrivait à lui fermer les yeux –

_/ (usciamo dal secondo)

Riprendendo
(ir andando)

Andrò con la strada, con le vibrazioni del cosmo
a risalire i grattacieli come un ragno di carta con
lo sguardo che sono.
E sarò la nostalgia dell’assoluto
Il trait d’union su cui balla, nudo
Il clown del circo elettrico del senso
Farò del passo un ritmo denso
Ed ogni misura
Dovrà misurarmi prima di farmi paura
(Esplode l’altalena, poi tutto si mitiga e torna attutito)
(ondulato, risentito)
Horror vacui vago ancora
per i tuoi giorni distrutti
per l’elettrico discorso
che ripeti a più non posso
che ormai io ti conosco
e riconosco ogni tuo passo
ogni rimorso o ricordo rimosso
su cui inciampo
(Riprendendo più largo il parlato lento)
Quartiere vie vuote piazze senza nome
quartiere dell’uomo di Erno
quartiere eterno inverno
vengo a bere un bicchiere. Di tanto in tanto
accanto al muro del pianto di qualcun altro.
le sere non fanno fatica a diventare domani,
mani aperte ai giorni vuoti, monumenti:
alla memoria dei caduti
come me e te : comete.
Qualcuno ogni tanto ride,
qualcuno ogni tanto muore.
Ma non nel tuo quartiere, quartiere sentito-dire
quartiere d’azzardo, scommesso all’incrocio
quartiere mentale, quartiere criminale.
dove sbadigliano: semafori e puttane.
Nel quadro: un fiore di picche piantato nel
cuore ma non nel tuo quartiere,
vie vuote e giorni senza nome
quartiere sentito dire.
In altre circostanze sarei,
tornato risalendo tutti quei viali
distrutti ma non ora, non più
che i giorni sono fatti di vetro
e le luci sono astri scomparsi
come me e te e il resto
del resto di che peso è l’aria?
di che forma una casa?
Sapevi tu, che sera era per sempre?
Non so dirtelo, lo sai che siamo sei
mille di me e te lasciati a disparte
conosci le carte e tutti i miei alibi
e disti ormai kilometri e metri dispari
da quanto dissi e dicesti e dicemmo
al cielo inverso di una sera in cui non c’ero.
 
Note dell’autore:
Altre nuove periferie arrugginite (per Alberto Dubito)
Riprendo alcune sue frasi ed immagini, le svuoto tenendo il suo schema di accenti e ci metto dentro le mie. Il tema del sintetizzatore del suo pezzo Periferie Arrugginite 20.12 è ripreso al pianoforte, e poi con un sintetizzatore simile a quello usato da Sospé nel loro pezzo. La batteria jazz descrive, fa scivolare e blocca le frasi, in libertà dall’inizio alla fine del pezzo è il riferimento temporale kairotico. Il contrabbasso e il synth tengono in piedi tutto l’impianto ritmico assieme ad una seconda batteria (elettronica) che si fa carico del tempo cronologico nello spazio sonoro. La citazione di Pagliarani apre la strofa ad alta voce. Sfumato del tema di Dubito fino al finale. Il testo è una ripresa dell’immaginario di Dubito, contaminato dal mio, che tende in opposizione al suo ad allontanare tutto ciò che è irruenza/rivolta/ schifo come un presbite e guardarlo da una certa distanza come polistruttura in cui la persona vive una condizione, una qualunque, si annoia, si lamenta e dice che farà qualcosa di enorme.
Horror vacui vago ancora
Il sintetizzatore oscilla tra Re min e Mi min per tutto il pezzo in un’idea di domanda-risposta, di alternanza dei modi di sentire per ospitare l’oscillazione dei modi vocali. L’interferenza radiofonica è concettualmente l’apparizione aleatoria di un evento sonoro indesiderato, incongruente – in questo caso «Un ami viendra ce soir» si tratta di una registrazione radiofonica della 2GM campionata da vinile. La batteria è creata da «materiali di scarto», samples estratti da rumore radiofonico e dal campionamento di registrazioni di macchinari industriali. La ricerca principale è quella di una liquidità metallica, del “ploch” dei passi sull’acqua e del via vai frammentario dell’ingranaggio esistenziale. Il rallentamento sui “secondi lenti” evoca l’idea di zoom nel frammento temporale, di focus nell’ingranaggio, di osservazione del microcosmo. Il pianoforte è lo strumento descrittivo del testo, lo segue, lo anticipa e lo sostiene nell’evocazione delle immagini. «ogni misura dovrà misurarmi», esplosione del tema al pianoforte, che è latente in tutto il pezzo. Poi l’impeto si smorza in un’onda creata dalle chitarre, riprende il tema di base e della voce. Il testo si svolge in una successione di immagini che compongono un’antologia di modi d’esistere, che oscillano con il tessuto musicale in un intreccio di futuri possibili. La seconda parte prende la nozione di quartiere come luogo abitato/ disabitato dell’anima, ma non ho idea di cosa volessi dire precisamente, se no non l’avrei detto. Nella ripetizione e nella cura del modo vocale mi resta chiara soltanto un’ossessione per le distanze e per le nozioni di peso e misura, rapportate al concetto di un’identità elastica, sfuggente, indeterminabile. «ir andando» é in spagnolo, tratto da Desde Alta Mar (Marinero en tierra) di Rafael Alberti.
Divento vento
Dal sintetizzatore/vento esce, sempre attraverso un’interferenza, Le Weekend di Godard (telefonata al bordo della strada, lui canta una canzone di Dalida, rendendola parlata, trasformandola in un discorso frettoloso). Un tema lugubre appare per qualche battuta come una nuvola, fine della miseensituation. Una batteria cavalcante spinge l’inizio della strofa. Il tema è fisso e ripetuto, il parlato s’incastra nello schema ritmico, ma sfugge alla misura musicale, ritrovandola quando gli piace, poi si spegne in una considerazione sul meteo accompagnata dal vento. La voce è trattata come attraverso un telefono, orientata da un lato dell’orecchio. Il testo è un tentativo di riprodurre una telefonata fatta di fretta in cui il soggetto trova tutte le parole che deve trovare e le incatena senza balbettare, sbagliare, correggersi. un’utopia comunicativa, in cui tutto scorre liscio e vola via, lasciando le cose da dire cadere lì dove sono. Uno dei miei obiettivi nella vita è riuscire a parlare del meteo senza parlare del meteo.
In generale
L’intento principale della mia ricerca è quello di articolare il linguaggio poetico nell’alternanza di modi vocali propri al senso dell’immagine che vogliono evocare. Si tratta di farsi parlare dalle frasi, dalle loro diverse voci, le quali nascono nel seme di una voce più grande, che si percepisce solamente nella sua stessa frammentaria indecisione. La voce è poi imprescindibilmente legata allo spazio che abita, il paesaggio sonoro nel quale si interseca nella musica, la quale diventa lo scenario, la struttura fluida dove avviene la manifestazione vocale di quello che è detto.
 
Gabriele Stera, poeta e compositore, nato a Trieste nel 1993, studia attualmente all’Università Paris 7 Diderot. Ha vinto il Premio Dubito nel 2013.
 

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