Fotografia di Dino Ignani

 

«Ricordo una chiesa antica/ romita/ nell’ora in cui l’aria s’arancia/ e si scheggia ogni voce sotto l’arcata del cielo». Con questi versi si apre la raccolta, Genova di tutta la vita, edita per i tipi San Marco dei Giustiniani (1997). Poeta d’origine livornese, Giorgio Caproni si trasferisce non ancora adolescente nella Genova “dagli amori in salita”.
Durante gli anni genovesi il poeta scrive versi lirici, ma strettamente legati al paesaggio, che si distingueranno dai metafisici anni romani.
«Così sbiadito a quest’ora lo sguardo del mare/ che pare negli occhi/ (macchie d’indaco appena celesti)/ del bagnino che tira in secco le barche.// Come una randa cade l’ultimo lembo di sole.// Di tante risa di donne,/ un pigro schiumare/ bianco sull’alga, e un fresco/ vento che sala il viso/ rimane».
Per Caproni le strade, gli stretti caruggi, sono luoghi d’incontri. Qui, le ragazze d’estate escono di casa senza calze: rosse in viso; i vestiti chiari, camminando tra le vie, fino alla Salita della Tosse. Ricorda il poeta che l’odore del mare si mescola spesso all’intenso profumo di cipria delle donne, scaldando il giorno di “meravigliose essenze”.
Le vie umide di sale, chiuse fra i palazzi alti, le correnti buie e saline sono i leitmotiv del solitario errare poetico. La città diventa transito di sogni, e le navi paiono fiammelle accese fra le banchine del Mandraccio, da dove nascono “luci di colori e risa”:
«Voci e canzoni cancella/ la brezza: fra poco il fuoco/ si spenge. Ma io sento ancora/ fresco sulla mia pelle il vento/ d’una fanciulla passatami a fianco/ di corsa».
Il viaggio contraddistingue fin dall’infanzia la vita del poeta, ma diventa talora onirica evasione dalla città, e dagli infranti amori giovanili.
Anche le poesie dedicate alla futura moglie Rina si amalgamano al “colore caldo” della terra ligure:
«Nell’aria di settembre (aria d’innocenza sul chiareggiato colle) sopra le zolle ruvide mi sono care le case a colori grezzi del tuo paese natale».
«Questo odore marino che mi ricorda tanto i tuoi capelli» ¬ «sul petto ho ancora il sale d’ostrica del primo mattino».
Una lieve solitudine connoterà sin dagli esordi la sua poiesis, anche se il vento pare soffiare a favore della giovinezza: è “un frutto appena sbucciato” – scrive il poeta in Marzo. Le corse, le sassaiole chiassose dei ragazzi “nel vento vivo”, i canti al tramonto, segnano la forte appartenenza a una Genova “verticale”, costellata di salite, ascensori, e rampe. Verticale, e per questo motivo, lirica, quasi irrazionale, sostiene Caproni, sebbene sappia che la tirannica configurazione geografica costringa i genovesi a espandersi in altezza: “Genova sono io – afferma – anzi sono io che sono ‘fatto’ di Genova.”
Questo quadro non cambia nemmeno nella poetica più matura. In Versi, descrive un frammentato paesaggio genovese. Ecco che dalla funicolare s’intravvedono: bianche tende che si agitano alla prima brezza, un bandone che rulla, il mercato d’erbe, e i casamenti chiusi nella prima nebbia. È proprio il caligo, così i genovesi chiamano la nebbia marina, a creare in chiusa la suggestione dell’Erebo: “perché è nebbia, e la nebbia è nebbia, e il latte/ nei bicchieri è ancora nebbia, e nebbia ha/ nella cornea la donna che in ciabatte/ lava la soglia» ¬ «E Proserpina/ o una scialba ragazza, mentre sciacqua/ i nebbiosi bicchieri, la mattina/ è lei che apre alla nebbia/ che acqua (solo acqua di nebbia) ha nella nebbia/ molle del sole in cui vana scompare/ l’arca della vista.
Alla fine del viaggio resta l’immagine della città amata, invisibile, misteriosamente occulta, ma per dirla alla francese – confessa il poeta – je suis malade de Genova!

Stornello

Mia Genova difesa e proprietaria.
Ardesia mia. Arenaria.

Le case così calde nei colori
a fresco in piena aria,
è dalle case tue che invano impara,
sospese nella brezza
salina, una fermezza
la mia vita precaria.

Genova mia di sasso. Iride. Aria.

Il mare brucia le maschere,
le incendia il fuoco del sale.
Uomini pieni di maschere
avvampano sul litorale.

Tu sola potrai resistere
nel rogo del carnevale.
Tu sola che senza maschere
nascondi l’arte d’esistere.

 

Giorgio Caproni (Livorno 1912-Roma 1990) all’età di dieci anni si trasferisce a Genova con la famiglia, seguendo per indole studi classici e musicali.
Violinista, impiegato, maestro elementare, prima in val Trompia, nel bresciano, poi a Roma, partecipa come soldato semplice alla Seconda Guerra Mondiale. Tornato a Roma, nel 1946, continua a insegnare, collaborando con varie riviste letterarie come critico, autore di racconti e traduttore. Tra le sue opere ricordiamo: Come un’allegoria (1936) e Ballo a Fontanigorda (1938). Nel 1983 tutte le sue raccolte di poesia furono riunite sotto un unico titolo, Tutte le poesie (Garzanti), rieditata nel 1999 per includere Res Amissa, opera pubblicata postuma nel 1991.

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