In un’intervista uscita sul sito Minima e Moralia, a una domanda riguardante una sezione del tuo libro d’esordio “La Promessa focaia” (Anterem, 2019), rispondi citando un altro tuo lavoro, il film “Nell’insonnia di avere in sorte la luce“:

«Durante la composizione del film, abbiamo guardato all’ “Atlante Mnemosyne” di Aby Warbug (in particolare alla sua concezione sintomatica della storia dell’arte). L’interno di nove nocciole potrebbe essere considerato come un pannello scartato, un’altra rete di connessioni che – proprio perché rimasta inesplorata – è stata inserita all’interno de “La Promessa Focaia” in qualità̀ di scheggia di film ancora congestionata nella pagina. Del resto io non faccio altro che sbordare, e temo che questa conversazione soffra già della stessa cattiva postura: qualcosa annotato qui comparirà nei nuovi quaderni, e note segnate altrove finiranno per legarsi con queste righe. Si scrive, credo, mutando continuamente la linea dei bordi, che perciò deve rimanere randagia. Il mio primo ricordo di “scuola” è precisamente questa incapacità di “valutare correttamente”lo spazio. Mi mancava il rigore: durante i primi due anni delle elementari riuscivo a malapena a sillabare…»

Walter Benjamin, nel saggio “Il compito del traduttore” (in “Angelus Novus”), invece scrive:

«La storia delle grandi opere d’arte conosce la loro discendenza dalle fonti, la loro formazione nell’epoca dell’artista e il periodo della loro sopravvivenza – di massima eterna- presso le generazioni successive. Questa sopravvivenza, quando viene alla luce, prende il nome di gloria. Traduzioni che sono più che semplici trasmissioni, sorgono quando un’opera ha raggiunto, nella sua sopravvivenza, l’epoca della gloria. Per cui non tanto servono alla sua gloria, come i cattivi traduttori affermano del loro lavoro, quanto piuttosto le devono la loro esistenza. In esse la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più complessivo dispiegamento.»

Benjamin parla della traduzione come unica possibilità di gloria di un’opera, di un testo. Penso nuovamente al tuo film (realizzato con Lucamatteo Rossi), in cui alcuni tratti della scrittura poetica di Franco Ferrara sembrano essere portati verso una loro resa attraverso linguaggio filmico. Anche questo, forse, lo si può chiamare traduzione. Nella tua intervista parli di questo «sbordare» (tra verso e montaggio, parola e fotogramma), di un tuo muoverti sconfinando, uscendo dai margini.

Ora provo a ipotizzare un gesto che da movimento di pensiero si fa resa formale, opera scritta, frase o parola. Un pensato che poi viene reso nella scrittura o che forse si elabora attraverso essa. Dove e quando avviene, secondo te, in un atto di elaborazione e concepimento di un prodotto artistico, lo «sbordamento»? Penso al momento primigenio, in cui tutto è ancora in potenza nel pensiero. Qui c’è unità e la distanza formale e categoriale in cui accade uno «sbordare» avviene dopo, nel dover mettere sulla carta o su un altro supporto? Cosa ne pensi? Sbordare è un gesto che si fa solo nel passaggio da un linguaggio all’altro, nell’impossibilità di contenersi del significato (penso alla regista e coreografa teatrale Christiane Jatahy che, prima della sua rilettura de “Le tre sorelle” di Checov dal titolo “E se elas fossem para Moscou?“, esordiva di fronte al pubblico con la frase «Il cinema è utopia del teatro e il teatro è utopia del cinema») o è qualcosa che avviene prima, già nel pensato? Questo sbordare è, in fondo, un continuo stare nella traduzione, come se il testo o la parola fossero «una promessa focaia», una scintilla che attende di compiersi in diversi fuochi?

Io partirei proprio da questa inchiesta randagia sui margini, andando a visitare uno dei massimi artefici della fioritura combinatoria barocca: Juan Caramuel y Lobkowicz. Caramuel fu monaco cistercense, matematico, filosofo, poeta e tenace architetto dello sbordamento. Così ne scrive Padre Giovanni Pozzi: «Egli programmò stralunate poesie a tre dimensioni: parallelepipedi, cilindri, sfere armillari, ai quali chiunque avrebbe potuto appendere poesie da leggersi con itinerari molteplici. Al Caramuel non importavano le formule linguistiche da affliggere alle sue strutture: le chiamava transmaterializzazioni».

Che cosa potrebbe essere lo sbordamento se non questo fluttuante crocevia di letture? Una funzione combinatoria, volatile, medicinale, che ripara i nessi solo dopo averli squassati e che partecipa alla salatura delle immagini; un movimento meticcio, nato nel segno dell’Ircocervo, di cui finalmente si potrà dire che è reale proprio perché concepito come un ibrido operante nella circolazione di un senso mai definitivo. Usando la stessa formula che Gilles Deleuze riprese da Proust: «reale senza essere attuale, ideale senza essere astratto, simbolico senza essere fittizio». Nel caso della poesia, questo sbordamento funziona come un momentaneo fermaglio tra blocchi di lettere o parole chiamate a dilatare l’interpretazione del testo; qualcosa che permette di “montare” in uno stesso fermento ciò che prima era disgiunto, ciò che normalmente non sta insieme o non dovrebbe stare insieme. Una comunanza di energie partecipi dello stesso moto (synérgeia), in cui ogni nuova nascita è immediatamente differita da quella successiva; in quest’ottica, il testo somiglierebbe ad un unico intreccio di gestazioni. Citando un appunto che viene da un’altra mia opera (Rinnovella, pubblicata dalle edizioni Benway): «le doglie scavalcheranno il concepimento».

Forse il problema di molta poesia contemporanea consiste proprio in questa incapacità di covare un resto a venire, qualcosa nell’opera che attenda pazientemente il momento in cui il senso totale potrà essere disaggiustato dall’interno. Sapienza antica, di molto precedente a quella novecentesca. Insegna il Talmud Babilonese che tutti i canti si scrivono nero su bianco e bianco su nero; interrogandosi sull’argomento nel suo libro La Lettura Infinita (Jaka Book, 2009), David Banon riporta le parole di Rabbi Lewi Yitshaq: «lo spazio bianco, gli spazi del rotolo della Torah costituiscono anch’essi delle lettere, ma noi non sappiamo leggerle come le lettere nere. Nell’epoca messianica, Dio rivelerà lo spazio bianco della Torah, in cui le lettere sono attualmente invisibili per noi».

Ecco allora un altro compito della traduzione -di ogni arte della traduzione-: il tentativo di restituire sin da adesso una qualche leggibilità al mondo invisibile, alla concreta invisibilità già inscritta in ogni superficie; a ciò che non riusciamo ancora a percepire e certamente non percepiremo mai del tutto. Se molti cineasti hanno compreso solo in parte questo senso cinematografico del mondo, il poeta dovrebbe invece sapere che tutte le cose sono aureolate di cinema. Con “cinema” intendo qui non l’arte del cinematografo per come l’abbiamo “catalogata” nel secolo scorso, ma lo scenario dei sintomi, delle trasmissioni, dei montaggi, degli urti, dell’intercettazione della vita occulta, e occulta anche quando pienamente indiscreta. «L’augurio di chiamare segnatura lo screpolarsi / delle cose», scrivo in una sezione de La Promessa Focaia; «il sistema delle segnature ribalta il rapporto tra visibile e invisibile», scrive invece Foucault in un fondamentale passaggio de Le Parole e le Cose (Bur, 2016).

Nella conversazione che citavi in apertura si parlava di film «congestionati» nelle pagine. A cosa facevo riferimento? Di certo a opere come l’Ulysses, che Eisenstein considerava l’evento più significante nella storia del cinema. Debbo aggiungere un’ulteriore considerazione: le pagine sono anche quelle del Liber Mundi, gli indizi di una grande agitazione triturata, diffusa ovunque ma in stato di dormiveglia. Questa visione non cerca di restaurare l’episteme rinascimentale, ma ne sperimenta la rinnovata vitalità (e magari i limiti noti), facendone un congegno da far collidere direttamente con la realtà contemporanea come suo implicito contro-discorso. Detto questo, oggi vale ancora l’interrogativo posto da Agrippa von Nettesheim nel De occulta philosophia: «Tutte queste immagini però non hanno virtù alcuna, se non vengono vivificate in modo da acquistare una virtù naturale, o celeste, o eroica, o animistica, o demoniaca, o angelica. Ma chi sarà capace d’infondere un’anima a un’immagine, o dar vita a una pietra, ad un metallo, al legno, o alla cera e di fare sorgere dalle pietre i figli di Abraha?». Tanto nella cinematografia quanto nella poesia, le immagini necessitano di una vivificazione. Per fare ciò bisogna ricorrere ad un rovesciamento che ne metta in crisi la natura immediata: di ogni immagine certa, arrivare a tradurre la sua seconda vita, la sua a vita a venire che è anche vita sopravvivente, resto che dorme e non smetterà mai di ripresentarsi (perché inesauribile).

Possiamo includere tutto quanto detto sino ad ora in quello che chiamerei un processo immaginativo-simbolico, dove il simbolico è il «percorso vuoto per operare transizioni e trasformazioni», «il taglio che recide equilibri informi di significati cristallizzati» (Rubina Giorgi, in La riflessione simbologica, 1968); dunque ciò che permette di tradurre e svegliare la sonnolenza delle immagini, il loro incessante sbordare, ricombinarsi, rovesciarsi, cambiar natura e carne. Insisto su questo perché vorrei evitare la confusione del linguaggio allegorico… Il paziente lavoro sulle immagini partecipa attivamente all’intreccio delle cose, sciogliendone la pietrificazione, forzandoci a mutare la nostra lettura della realtà; mettendola letteralmente in moto.

Nell’introduzione all’edizione italiana de Il problema della Forma nell’arte figurativa di Adolf von Hildebrand (Aesthetica, 2001), Andrea Pinotti scrive che:

«Per Hildreband, […] il movimento è ciò che permette l’articolazione del senso, è ciò che permette di connettere gli elementi disponibili nello spazio, è ciò che permette di formare l’oggetto […]. Per questo l’opera d’arte contiene sempre le indicazioni della mobilità, perché essa stessa è un suo prodotto e nello stesso tempo chiede al fruitore di mettere in movimento la propria attività percettiva che gli consente di comporre/scomporre l’immagine.»

Il processo immaginativo-simbolico ci coinvolge interamente; ci spinge a pensarci in una rete continua di reazioni all’ambiente circostante: compenetrando i moti delle immagini, riattivandoli a ogni momento, finiamo per attivare in noi ciò che scarta o valica i limiti stabiliti del Soggetto Umano. Le immagini del mondo s’incarnano; noi conosciamo per incarnazione: ovvero attraverso un coinvolgimento empatico. La teoria dell’embodied cognition è sostenuta dal neuroscienziato italiano Antonio Gallese, noto per essere uno degli scopritori dei neuroni specchio, che in varie occasioni ha ribadito il decisivo ruolo del corpo nei processi cognitivi, proponendo proponendo -insieme a Michele Guerra- di rivitalizzare le intuizioni di figure ancora poco considerate come Aby Warburg o lo stesso von Hildebrt.

Prima ancora che con il superamento dei singoli linguaggi, il vero sbordamento inizia con la demolizione della muraglia tra corpo e mente, e tra singoli compartimenti della psiche, che Romberch già ritraeva nel 1533. Per quanto labile possa sembrare un tale progetto, si tratta nuovamente di concepire una facoltà calata nelle frastagliature del mondo, che impieghi la molteplicità dei mezzi per il perseguimento di un fine comune; una facoltà capace di percepire l’instabilissima coincidenza a sé del contemporaneo, la consonanza di sfasature, di oscillazioni, di forme ed ere differenti; che miri insomma «al punto a cui tutti li tempi son presenti» (Paradiso XVII,17-18) e tutte le cose interrelate. Per fare ciò occorre tenere a mente che niente è naturale, tanto meno l’essere umano. Questa facoltà va coltivata con l’artificio; l’immaginazione stessa deve diventare un lampo prostetico…

La Promessa Focaia nasce da queste considerazioni sullo sbordamento, sulla traduzione, e sul processo immaginativo-simbolico che li comprende. Se la poesia cessasse di essere una stanza blindata, potrebbe divenire un laboratorio per esplorare i diversi modi attraverso i quali il nostro operare sulle immagini muta concretamente la capacità di percepire il circostante, interrompendone la naturalità. Il celebre esempio sinestetico di Rimbaud (ulteriormente ampliato da Corrado Costa con il suo Catalogo delle vocali edito da Exit nel 1979) viene frequentemente ricoverato nell’ambito delle figure retoriche, ma in un capitolo de Il duello dei neurochirurghi Sam Kean spiega che, se da una parte vi sono indizi del fatto che i sinestesici potrebbero avere circuiti neurali leggermente diversi, in ogni caso le esperienze di Albert Hofmann e di altri ancora «sembrano dirci che tutti noi potremmo sviluppare questa caratteristica, se solo sapessimo come attivarla». Nello stesso capitolo, Kean illustra ulteriormente la plasticità dei circuiti neurali, narrando la storia di James Holman, l’esploratore britannico -rimasto cieco all’età di 25 anni- che percorse più di quattrocentomila chilometri, arrivando a scalare il Vesuvio e a spingersi nelle zone più remote dell’Australia con il solo ausilio di un bastone dalla punta metallica.

Rimbalzando sugli oggetti, le onde sonore prodotte dal ticchettio della punta metallica giungevano alle orecchie in tempi leggermente diversi. «Con la pratica, il cervello di Holman imparò a elaborare queste differenze temporali eseguendo triangolazioni e a farsi un’idea di ciò che gli si parava davanti. La dura statua di un cavallo “suona” diversamente dalla morbida pelle del cavallo vero. […] Simili a lampi di una torcia nel buio, i “clic” del bastone divennero la sua vista.». Questo è soltanto uno dei numerosi esempi che testimoniano come il cervello sia in grado di riorganizzare il proprio schema di connessioni; Kean afferma che nell’adulto i circuiti non sono fissi e immutabili: attraverso l’allenamento i neuroni possono mutare il modo in cui reagiscono e trasmettono i dati. In aggiunta a ciò, l’immaginazione vivifica quanto abbiamo attorno, poiché i circuiti neurali si organizzano in unità ancora più grandi, «che permettono al cervello di reinterpretare e riscrivere ciò che vediamo».

Per documentare i propri viaggi, Holman impiegava uno strumento chiamato il “nottigrafo”, ovvero una tavola di legno coperta con della carta carbone, e dotata di una serie di fili metallici che guidavano la mano nella scrittura Ebbene: il nottigrafo potrebbe essere lo strumento proprio del poeta, che ogni volta s’appresta a scrivere nella notte delle possibilità, e ad accendere in questa notte nuove ipotesi immaginative. In maniera non dissimile, nel suo studio su cervello, filosofia e mistica Che farò senza il mio ben? (Ripostes, 2011) , Rubina Giorgi si chiedeva:

«se, come la neurobiologia ci dice, i sistemi del cervello sono automatici e inconsci e tuttavia si attivano nei riguardi dei comportamenti consci (emozioni, pensieri, azioni), non può esser dato pensare che, chiasmaticamente, si agisca su quei sistemi dalla parte conscia e, con un lavoro certamente immenso in quantità e durata, si producano degli effetti per il cervello, modellando appunto i suoi possibili, la sua plasticità?»

Una volta affrancata dalle faccende, la poesia si occuperà finalmente di questi possibili, abbracciando nuove esplorazioni? Faccio un esempio: molti poeti frequentano il cyberspazio, senza averne minimamente afferrato le effettive potenzialità; lontani dal «macchinico» e schiacciati dalla Macchina, ne ricavano soltanto effetti deleteri. Lo stesso vale anche per l’editoria… Peggio ancora chi si abbandona al fatalismo. È il vecchio discorso di Claude Frollo: «Ceci tuera cela», ovvero: il libro distruggerà l’edificio. Non deve per forza andare così. Mi sembra evidente, infatti, che negli anni a venire il vero rivoluzionario sarà colui che saprà sottrarre la rete alla Rete; tradurla cioè in una modalità dell’essere, e non in una sua parodia; incarnarla.

James Holman con il suo “nottigrafo”

 

Amelia Rosselli, nella prefazione a “Variazioni belliche” (Garzanti, 1964) dal titolo “Spazi metrici”, scrive:

«In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio scorso in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero, a guisa di un momento di realtà nella mia mente, o partecipazione della mia mente ad una realtà, ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte. L’aspetto grafico del poema influenzava l’impressione logica più che non il mezzo o il veicolo del mio pensiero cioè la parola o la frase o il periodo. […] I miei versi poetici non poterono più scampare dall’universalità̀ dello spazio unico.»

Questioni di spazio dunque, grafico e concettuale. Ragionando a livello formale sui tuoi testi, sembra di trovare in essi un verso che ha un andare a capo prettamente grafico, un uso dello spazio bianco che si fa segmento, pausa evidente, contorno che circoscrive il nero della scrittura. D’altronde, non esiste segno grafico che non porti con sé una concretezza che è soprattutto visiva, che è il segno preso nella sua componente più materica. Oltre a questo, si può pensare anche ai Pattern Poems, ai Carmen Figuratum, a tutto un lavoro e uno sperimentare delle avanguardie novecentesche.

Come viene costruita l’impaginazione delle tue poesie? Come ragioni sul verso e, soprattutto, sulla pagina? È primaria per te una struttura grafica, logica o metrico – ritmica? Che ruolo ha lo spazio, la divisione strofica in questo? Quali sono i modelli su cui ragioni in tal senso?

Per me, edificare vuol dire produrre cerniere tra ordini di smottamento, senza per questo dover fissare alcunché. Al momento, ammetto di non poter fare molto altro. Pagina dopo pagina, ogni poesia de La Promessa Focaia è come un supplemento di cedevolezza che ne mina la compattezza di “opera prima”. Ma l’annuncio della promessa -un annuncio a cui stato tolto il soggetto/oggetto dell’annuncio- ha comunque un carattere edificativo; il diradarsi dei rinvii avviene proprio attraverso questa intrinseca debolezza che disattiva ogni struttura definita: «le cose deboli per confondere le forti» (1Corinzi 1,27). Lo spazio bianco è orditura dei montaggi, fiaba intervallare, iato superstite nonostante il dominio della scrittura “piena”; è groviglio di piccoli cedimenti interni che fanno la salute del testo, connettendo lontananze e dissociando parole che stanno insieme per abitudine o convincimento; è anche il luogo in cui potrebbe trovarsi quella che Jabes chiama la «chiave» di cui ci serviremo solo una volta lasciato il libro.

Queste sono considerazioni instabili, che corrispondono più a una tavola degli appunti che a un metodo vero e proprio. Il comporre è in fondo un arretramento: quando ci si congeda dal testo, il senso può evadere, darsi un contraccolpo, oppure sghiacciare configurazioni impreviste, come quando si lasciano aperte troppe pagine web durante la navigazione. I libri che più m’interessano sono quelli in cui il lettore torna a essere un manovratore dei nessi figurali, a sua volta manovrato dal libero mutare delle connessioni; di faglia in faglia, di figura in figura: «in aliam figuram mutare», alla maniera del Catholicon (il dizionario medievale di Giovanni Balbi, risalente al XIII secolo). Ciò non significa necessariamente piombare nell’indistinto: l’etica del testo sta semmai nel richiamare il lettore a un attraversamento -del libro, del mondo-, senza offrire nient’altro che un appello (il mantenersi in questo appello).

Ancora sui possibili modelli: nella domanda precedente, l’accenno al film girato con Lucamatteo Rossi serviva a ribadire ciò che qui ho già in parte affermato: il colloquio tra cinematografia-poesia s’insedia allo stesso tempo nel luogo delle vivificazioni e in quello dei montaggi. Fu proprio Caramuel a concepire un cilindro combinatorio che -per quanto limitato- permetteva di “montare” una combinazione di sostantivi, aggettivi e verbi, arrivando ad ottenere duecentocinquantasei frasi diverse. E fu Adriano Spatola -nel 1965- a creare un poema in cui lettore era chiamato a intervenire direttamente nella dinamica compositiva, facendo del testo qualcosa di sempre provvisorio. Spatola chiamò il suo “puzzle-poem” Poesia da montare (ma gli esempi in questo campo sono distribuiti lungo tutto il secolo scorso).

Giovanni Caramuel Lobkowitz, Cilindro combinatorio

Perché abbiamo riconsegnato gran parte della poesia contemporanea alla fabbricazione delle transenne? Si dirà che c’è stato -da un lato- un convinto rigetto dell’orizzonte avanguardistico, e dall’alto un proliferare degli spazi di ricerca, spersi nei più pericolanti dipartimenti del globo, simili ora a pozzi sciutti in cui far trascorrere ogni convalescenza, ora a formidabili baracche digitali colme d’invenzioni, ma tutto sommato innocue perché incapaci di buttar peste. Nella nostra tanto decantata epoca della comunicazione, le lotte sono divenute incomunicabili, avvertiva Toni Negri nel 2001; gli scenari son mutati, eppure… In aggiunta, anche i poeti più radicali -non riuscendo mai a ritirarsi del tutto- paiono rassegnati a veder la propria opera ridotta a somma dicitura autolesionistica. Non uno strappo che riesca a far saltare la copertura; non uno sbuffo, una minima diserzione, uno slogamento, un’onesta labirintite, una pertica puntata verso l’oltredove. Non uno «che abbia accennato a un evento superiore…»

 

Mi sembra interessante tornare a ragionare sul concetto di «promessa focaia», di questa attesa che non si fa mai, sembrando sempre scintilla di un fuoco che non accade. In questo c’è anche l’idea, forse, che una parola o un testo non possono mai darsi come definitivi. Non esiste la forma ultimata di un componimento, di un libro, ma ogni sua fase di costuzione è in sé conclusiva e anticipatrice di una successiva. Il testo, la parola, come continuo disgregamento, riassembramento, risignificazione, cancellazione. Penso a un autore contemporaneo di cui tu stesso mi hai parlato, ovvero Vincenzo Ostuni, che nel suo “Faldone” fa dell’instabilità strutturale di una raccolta quasi una poetica, dando vita a un progetto – cantiere in continuo e mai concluso assestamento. In questa «promessa focaia», allora, forse ci vedo anche un potersi e volersi concedere un continuo gesto di ritorno, una possibilità in tal senso. Che forse è quanto anche si dice in un tuo verso «Dove avrai reciso, qualcuno odorerà un fiore, ma aspetterà a battezzarlo». Cosa ne pensi?

Nella seconda parte de La Promessa Focaia (Il detto e la carie, ancora inedita), c’è una nota non lontana da quello che dici: «Pensare la promessa come l’aver luogo dell’incompiutezza nel compiuto, l’estrema possibilità -da rinnovare ad ogni ora- di non restare chiusi da nessuna delle due parti del crinale». Muoviamoci però un poco oltre…

Oggi, il discorso sulla poesia richiede manovre radicali. In primo luogo, una sospensione della decifrazione letterale, o anche dell’immediata letteralità delle immagini, che sono sempre più scipite. Se è vero che la nostra scrittura è influenzata dal fotorealismo, dovremmo allora tenere a mente che l’eccesso di nitidezza è una condizione traforata dalla nebbia: nell’era dell’Alta Definizione, le immagini accusano ugualmente le proprie vertigini; più si fanno nette, scoperte, dissezionabili, più espongono nel loro tessuto una fitta coltivazione d’impurità. Invece che proseguire in questo fraintendimento -truccandolo di lirismo o facendone un pretesto per la resa-, dovremmo insistere sul valore rivelatorio dell’impurità (come hanno suggerito, in maniere diverse, Aby Warburg, Walter Benjamin e Georges Didi-Huberman). Portare all’apparenza l’apparenza stessa significa rompere l’omogeneità di natura, indicare ciò che resta nascosto pur nella propria esposizione per via del graduale rattrappimento della nostra facoltà percettiva. Lo abbiamo già detto: partecipiamo attivamente alla vita delle cose attraverso la seconda vita delle immagini; l’impurità è indizio di questa seconda vita, ma indizio mutevole, che a ogni epoca -a ogni lettura?- spalanca una diversa sporgenza sul nugolo di tensioni che costituisce l’archivio mnemonico dell’immagine. Cos’è questo archivio mnemonico? Un “film” compresso che esibisce la propria possibilità di srotolamento; uno srotolamento che nell’atto stesso del rischiarare consegna un ulteriore lampo di buio. Qualcun altro sarà chiamato a intercettare il buio che ha “inquinato” la nitida finitezza della visione precedente, e così via; lo srotolamento è sempre all’opera.

Si arriva perciò a ribadire l’essere inesauribile del mondo: il suo laborioso ridarsi in figure; l’impossibilità di una sua completa raffigurazione. Ogni tacca, ogni spillo, ogni ossicino ci viene offerto come film del mondo: mondo in se stesso, mondo tutto intero; sennonché manca ancora un proiettore adeguato, e il tentativo di chiudere il mondo è sconcluso dal suo continuo scivolare in figure. Tutto questo non deve essere messo in contrasto con quanto dicevamo prima a proposito dell’accensione di altre possibilità percettive: ad ogni nuova lettura del mondo, noi differiamo il progetto di una lettura integrale, e insieme non perdiamo mai di vista il progetto differito. È come in quell’aforisma kafkiano, in cui si dice che anche se la salvezza non viene, uno deve esserne degno a ogni momento; proprio questo non venire lavora dall’interno per rendere inoperante lo sfinimento…

Bisogna mantenersi fedeli al mondo nella misura in cui il mondo stesso rimane indisposto ad ogni sua raffigurazione che non sia davvero totale. In un frammento postumo, Nietzsche scrisse che «l’unica possibilità di mantenere un senso al concetto di “Dio” starebbe nel concepire Dio non come forza efficiente, ma come stato massimo, come un’epoca… un punto nello sviluppo della volontà di potenza, in base al quale si spiegherebbe tanto lo svolgimento ulteriore quanto il prima, ciò che è stato fino a lui».

Cy Twombly, Natural History II

Salate sono le immagini che testimoniano la loro sconclusione, offrendo così un appiglio per la sete. Dicono: c’è da proseguire; quel che è stato fatto non è ancora abbastanza. Per questo, in poesia, si deve inquisire la radice dell’inchiostro, e con essa la legittimità di qualunque parola in cui abbiamo creduto. Vegliare la verità della parola soprattutto quando la parola va incontro alla propria mancanza di verità; vegliare quando sfrana, o rivela uno spigolo di senso imprevisto; quando smuove da dentro la pagina, e strappa: «verità esige il convenire / nell’albore dello strappo». Numerosi sono gli universi serbati dalle parole; numerose le pulsioni che s’agitano in esse: osservate attentamente, queste stesse pulsioni si rivelano capaci di forsennare il modo in cui attraversiamo quanto ci sta attorno. Ho già parlato di un’etica dell’attraversamento… ma a cosa assomiglierà questa nuova mappa che andiamo facendo e rifacendo? Vale la pena ricordare il De coelesti hierarchia: «Le immagini dissimili, assai più di quelle forgiate per omogeneità di natura, conducono il alto la mente nostra». Quando la poesia è prostrata al quotidiano -a quella rudimentale immediatezza che chiamiamo il quotidiano, il naturale, il ricorrente, l’ovvio, e così via-, essa non fa che confermare il suo andamento rovinoso. Quando invece scontenta gli itinerari noti, la poesia può recidere gli incantamenti del linguaggio, restituire evidenza a ciò che ha smesso di mostrarne, corregge l’infermità dei pigmenti, e insieme ritornare negli spazi che sembravano più tradizionali per origliarvi il mormorio di un’insurrezione. Questo mormorio è il preludio a una archeologia del possibile.

Senza un discorso che prenda in considerazione quanto affrontato sino ad ora, rischiamo di portare avanti soltanto una ginnastica decifratoria, inadatta a qualsiasi slogamento, prima di tutto quello della Specie (una questione, questa, divenuta oramai inevitabile). Non abbiamo bisogno di cronache della nitidezza; tanto meno di un pantano di scritture piegate all’attualità. Facciamo piuttosto una seconda veglia delle immagini, che ne attizzi nuovamente l’insonnia. Altrove dall’editoria contemporanea e dal quotidiano vero e proprio, si trovano stanze della permutazione, labirinti promessi alla pelle, scoscendimenti, accette per ogni legame di sangue. Il poeta è come il cicoriàro di alcune fiabe meridionali, che per via dell’estrema povertà della sua famiglia è costretto ad «andar per cicoria». In una di queste fiabe (riportata da Calvino), tre sorelle sradicano a turno una pianta più grande delle altre, e finiscono per aprire una fossa nel terreno attraverso la quale si scende in un mondo sotterraneo, dove vive un drago antropofago. In maniera non dissimile, il poeta in tempo di povertà (di Antropocene!) dovrà sradicare certezze, aprire voragini in tradizioni oramai blindate, frugando ovunque: nelle pagine dei libri e nel Liber Mundi, ma con nuovi strumenti, tecnologie, aiutanti magici; sia mai che riesca a trovare luoghi in cui l’alterità non è ancora stata appropriata; luoghi in cui i futuri non somigliano a colonie o distopie…

 

 

I seguenti testi sono tratti da La promessa focaia (Anterem 2019) e da Il detto e la carie (inedito)

 

 

Giorgiomaria Cornelio ha fondato insieme a Lucamatteo Rossi l’atlante Navegasión, inaugurato con il film Ogni roveto un Dio che arde durante la 52esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Loro opere sono state presentate in festival e spazi espositivi internazionali, come i Rencontres Internationales Paris/Berlin, il Marienbad Film Festival, l’Asolo Film Festival e il Richmond Center for Visual Arts (Western Michigan University). Giorgiomaria Cornelio è curatore del progetto di ricerca cinematografica La Camera Ardente, e redattore di Nazione Indiana. Suoi interventi sono apparsi su Le parole e le cose, Doppiozero, Il tascabile, Antinomie, Il Manifesto. Ha vinto il Premio Opera Prima e il Premio Bologna In Lettere con la raccolta La Promessa Focaia (Anterem, 2019), ed è stato finalista al Premio Montano. Studia al Trinity College di Dublino.

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