Dalla prefazione di Gabriele Perretta

Leggo l’ultimo libro di Ivan Fassio, Il culto dei corpi, un piccolo volume davvero denso, curato dallo stesso Ivan, composto principalmente di liberi versi brevi, scritti tra la prima e la seconda metà del nostro decennio, quando soggiorna a Torino, dove ha svolto l’attività di  organizzatore, giornalista, curatore, critico d’arte, insegnante e prefatore di opere nello “Spazio Parentesi” e di performer della voce poetica, in gallerie e centri di cultura. Il culto dei corpi contiene anche le sole pagine di diario poetico e di brogliaccio letterario e lirico, che pare egli abbia mai scritto. […] Leggendo l’ultima fatica di Ivan Fassio – è questa l’impressione – ci si imbatte più che “a un corpus”, “al corpo stesso” di Fassio, alla sua quotidianità acefalica (principalmente quella trascorsa fuori dal culto dei corpi per leggere il mistero del culto della densità, dello stato di forze, tra febbrili passeggiate nella propria resistenza, spettri di una passione mediata e serate torinesi a snellire le occasioni del senso): “(A volte, mi dico, non scrivo poesie) / (due movimenti sul sé e una consolazione)…”. È qui che sorgono culti senza testa, nella gravidanza demoniaca di Fassio, che tratta di mal della parola e di acidità del verso, di touche-pipi metropolitani e di sveltine fra luoghi e atmosfere con qualche perversione di meato, amori venali e astrazioni sostanziali … insomma un Ivan Fassio intimo quanto ragionevole, istrionico quanto deviato, schietto quanto moralista non lo si era mai letto. Poetare non è certo offrire una forma (d’espressione) a una materia vissuta, ma una forma di informe caos dell’esistenza e dell’entropia dello stare al mondo. La poesia di Fassio si situa piuttosto sul versante apocrifo, sul versante dispregiativo e incomprensibile del montaggio, una sorta di cinema dada. Il verseggiare libero e sciolto, ossia un passaggio dal desiderio dell’aura all’accettazione della sua caduta, è un omaggio al nostro Tancredi Parmeggiani. La scrittura poetica di Fassio, nell’ansia propria del nostro tempo, carico di incertezze, di attese di peggio, di sconforto, nella desolata solitudine del poeta, nella incomunicabilità tra due solitudini, quella propria e quella degli altri, nell’abbandono al sentimento e al conforto della voce, si diversifica tra lo scrutare se stessi e le cose. […] Di fronte alle assurdità e alle amarezze di ciò che gli sta capitando in vita, il poeta assume l’atteggiamento distaccato di chi sa che deve accettare qualcosa di inevitabile e di fatale. E perciò non cerca evasioni né consolazioni, come non indulge mai ad inutili compiacimenti di sofferenza. Guarda la lingua con profondità di riflessioni, che muovono dal concreto del corpo senza culto, per trasferirsi poi nella sfera di quelle bellezze abbandonate dall’aura: gli oggetti sono un’occasione per estendersi in un’atmosfera di allusioni, di somiglianze e di analogie, le quali colgono ragioni essenziali di un possibile divenire. […] Per Ivan Fassio, la corporalità multimediale della poesia, nella sua autonomia, trova la sua origine, e quindi il suo significato, nell’immagine e nella somiglianza del testo breve, del sonetto spezzato, del sonetto performato, contro la retorica della conservazione dell’avanguardia prodotta dall’immagine e dalla grafica. Scrive il poeta, il nuovo poeta “(sacro (= a immagine della poesia nel sottotesto del testo); quale immagine della parola lo creò, maschio e femmina la borbottò”. Ciò non significa non tenere conto di tutto quello che l’arte può dire sull’argomento. La performance, infatti, non si sostituisce alla
poesia, ma la illumina in maniera da mettere maggiormente in risalto ciò che essa difficilmente vedrebbe e saprebbe oralizzare. Dice Ivan Fassio, che la poesia è la ragione che s’apre in libertà all’evento della performance, azione trasformata, e ne è la rivelazione, illuminando così in profondità tutto ciò che appartiene alla vita dell’essere poeta. Il poeta, infatti, sa bene di non essere in grado di giungere, da solo, ad una conoscenza completa di se stesso e di avere bisogno, in quest’opera di approfondimento, di un aiuto particolarissimo, che può venirgli solo dalla teologia del proprio corpo, dalla teologia del proprio sé, che sarebbe una teologia della propria espressione, l’unica veramente capace
di svelare pienamente il poeta a se stesso e di fargli conoscere la sua altissima vocazione. La teologia cultuale e anticultuale di Ivan Fassio, quindi, è una teologia autentica che, alla luce della poesia in questa corporalità incarnata, cerca di scrutare il disagio umano in tutta l’ampiezza e la profondità della sua esistenza.

Da Il culto dei corpi (Raineri Vivaldelli Editori 2019)

Da troppo tempo mi sveglio ogni mattina
Troppo presto,
Per far fuoco nel mio petto con la legna
Ancora verde.
Ho depositato il testamento
Per lasciare tutto a te:
Quel che c’è d’artistico nel testo,
La pochezza dell’impegno e la tristezza
E l’abbandono.
La mia verginità.
Le fotografie,
Che abbiamo esposto,
Son soltanto dura prova
Che ci spetta la pittura.
A saperlo ci sarebbe da dipingere,
Ché la gente esige
Sfumature,
Fluorescenze,
Effetti ottici,
Spatolate, movimenti.
Siamo sulla zattera abbozzata
Dallo studente Géricault.
Mentre s’applicava
In ricerche sul naufragio,
Il giovanotto
Creava spartiacque
Tra l’arte dei suoi anni
E quel romantico mistero
Che seduce ancora un po’.
Dal tono muscolare
Dei cadaveri,
Realistico,
Si condensava un’emozione
Di storica coscienza:
Disagio e soluzione,
Non somma delle parti,
Ma esperienza di creazione.

*

“Verrò alle quattro”. Le otto. Le nove. Le dieci.
Ma fai mai quel che dici?
Io, che sono puntuale, ho plagiato
Le cinque parole più inutili
Di Majakovskij.
Il tutto, per metterti in bocca un sorriso
Pensando ai miei aneliti foschi.
Così, se a scriver discorsi non sono capace,
All’istigazione almeno potresti rispondere:
Ché tra i ladri ci sono soltanto i poeti, gli artisti
E gli amanti.

*

Allora l’incongruenza
Discese da una costola
A gerbido, inselvatichita,
Quale
Bestia feroce
Partorita da costa
Più ripida:
E l’uomo si fece femmina
E la luna sole:
Il cielo fossa.
E non si comprese più
Da tiepida voce vomitato
Il soggetto o il predicato.

*

Non è il mare,
Ma l’onda:
La grande, la pura, la forte,
La folle corrente,
Che, unita, sorregge
Le terre riemerse:
Un quarto d’equivoco
Che ormai ci protegge.
Così, in noi, da sempre,
Risuona
Quel canto infinito
Che è nostro,
Più ancora,
Perché implora il futuro
Di attendere giù dal confine,
Sul baratro
Garante d’immensità.
L’udiamo, soltanto,
Poiché non siamo silenzio,
Per ora,
Né cavità.
Tamburo violento,
Ascoltiamolo,
Vento subacqueo:
La ferita tremenda,
Incisa nel tronco,
Scordata,
Che in corpo delinea
La forma spontanea
D’ogni zattera e barca,
Statua e violino,
Divinità.

*

Scrivevo che ero soltanto
Torrente scavato nel legno:
Umida linfa, per poco
Riemersa alla luce del sole,
Innaturale.
Adesso che, appunto, ti sogno,
Sono tornato il bambino di prima
E sento le fronde che fremono al vento,
Dietro la fronte, sul retro appiattito degli occhi.
Solletico antico fino alla bocca:
La fonte rimasta del riso.
Per questo, appena più su
Rispetto alla foce del corpo,
Nel pieno mezzo del tronco,
Una voce ancora mi dice del tempo,
Parola.
È un taglio ben netto,
Che pare un dolore.
Eppure non posso fiatare,
Gridare,
Ché nel grande torpore
Provo un piacere, sì, forte:
Germoglio

*

I cammelli scendevano
In spiaggia, con tanto di umana
Compagine, a caricare coralli.
Il cielo non limpido:
Splendido.
E il sole batteva le nuvole:
Se te ne accenno ne avrai vaga idea,
Ché già un “bianco e nero
Del Cinquantasette”
Rende di più.
Gli ingordi avvoltoi
Precipitavano in gruppo
Anche su piste sabbiose,
Che non erano strade
Per motociclisti
E accoglievano morte.
Racconto così
Le storie ascoltate di giorno
E rivivo una cosa già scritta
Da altri da me.
Il tutto per dirti
Che voglio parlarti:
Sarà un controsenso, non so…

*

Molto ha imparato l’umano dalla stretta del fiato, troppo dimenticato, poco ne ha inteso in realtà, dacché il mattino si è fatto più cupo col passare del tempo. Non era l’aurora cambiata da sé, ma la nostra visione, poiché siamo colloquio per vivere in pace, con equilibrio: mai questa consueta ragione tramata e poi tramandata, un linguaggio deviato. Non temiamo del canto il presto avvenire, oramai, da sempre monito interno del fuori, un respiro soltanto. Funzione dei palpiti, tacito conteggio di termini codici, improponibili all’altro se non per fusione.
Infine, oh sacre potenze, è vincolo in voi, in noi, il segno d’amore. Ancora! L’estasi e la sostanza che ci implicate, nel sogno, nella cara illusione. Sapere, mio cuore, non è essere ovunque, vedere. Sarebbe, semmai, sensazione, adesione abissale della coscienza, ma dove? Speranza cresciuta al momento, effetto perenne di azione: un tuffo nel sangue toccato, non fatto, non detto, né confidato.
Un silenzio di luce.
Affinché tutto ciò torni avverato, abitanti del mondo a voi destinato, sarete una tavola, uno specchio di legge da non ingannare, a partire dal giorno della risoluzione:

  1. Non credere all’abbaglio esteriore, alla regola e alla misura – dal principio di tutte le cose
  2. Provare sui sensi la distanza dovuta, giocare con forza per limite intrinseco
  3. Affidarsi al suono del canto, una volta, per imparare.
  4. Contare i sospiri, lasciare che vibri la pelle. Allenare polpastrelli, gengive: l’orecchio è ciò che aderisce
  5. Parlare agli occhi dell’altro, allo spirito. Preparare l’abbraccio.
  6. Conoscere i segni di età, condizione, stupore. Esplicitarli da desto.
  7. Dominare la carne, finché non divenga presagio. Poi farsi linguaggio.
  8. Ordinare il miraggio, per quello che è nel deserto: la verità.
  9. Scoprire l’evento fra le pieghe della natura: mai lingua, soltanto beltà, meraviglia.
  10. Privare della bocca il lamento: tentare preghiere.
  11. Bramare l’utile e il necessario, innalzarli: la creazione nobilita
  12. Non leggere riproduzioni, né ad alta voce, né mai scrivere un testo da ereditare: è tutto, si sa.

 

Ivan Fassio (Asti, 1979) vive e lavora a Torino. Scrittore, performer, critico d’arte, curatore, organizzatore di manifestazioni artistiche e letterarie, dal 2017 gestisce Spazio Parentesi a Torino, libero luogo di esposizione, condivisione e presentazione di progetti artistici e letterari contemporanei. Ha curato diversi cataloghi d’arte con testi introduttivi, saggi e poesie ed è collaboratore delle versioni cartacee e digitali di Exibart, Juliet Art Magazine, Verso l’Arte, AR?, ArticoloTre, Canale Arte, Neutopia, Protagonisti Piemonte. Gestisce indipendentemente una serie di progetti letterari, curatoriali (per gallerie di Torino, Asti, Genova), creativi e critici. Ha scritto i testi per le due mostre e i due cataloghi DAMARS e MIARS 2017 e 2018 a Milano con la partecipazione di Vittorio Sgarbi, nel 2019 FoodArs e MiArs per la curatela di Eva Amos. Il suo primo libro, Fuori fuoco, è stato pubblicato per le Edizioni Smasher nel 2012 con una prefazione di Ezio Gribaudo. Ha pubblicato testi poetici e creativi nell’antologia Fragmenta (Edizioni Smasher 2012) e su Paraboliche dell’Ultimo Giorno. Per Emilio Villa (Le Voci della Luna Dot.com Press 2013). Si è spesso esibito con il pianista Andrea Cavallo in letture e improvvisazioni poetico-musicali. Ha partecipato creativamente e come performer a “Agenti del Caos” a Bologna presso Millenium Gallery con l’ideatore Gabriele Perretta. Nel novembre 2019 si è esibito come poeta performer durante la manifestazione artistico-letteraria FAUST a cura di Gianluigi Ricuperati. Ha curato la serie di mostre di arte e poesia contemporanea presso ERA AURORA con il poeta Davide Bava. Ha collaborato con Ennio Bertrand, docente di Sistemi Interattivi presso l’Accademia Albertina, per una serie di mostre nell’ambito del progetto “Spazio Parentesi Itinerante”.

(Visited 1.825 times, 1 visits today)