Dalla prefazione di Edoardo Olmi

Il labirinto di Hasan Atiya Al Nassar, è il labirinto della propria vita quotidiana e della propria esistenza. Fatte di una lontananza dalla terra natia durata più di trent’anni, che lo ha inserito fra i massimi poeti d’esilio degli ultimi decenni, nonché probabilmente della cultura universale. Sebbene da un punto di vista strettamente giuridico, la vicenda di Hasan credo sia più riconducibile a quella di un rifugiato politico o di un profugo. Poeta che troppo facilmente potrebbe essere considerato come pessimista o “leopardiano”. Là dove invece la vicenda biografica va a incidere in chiave decisamente prolifica, e a suo modo positiva, sia sulla produzione poetica che sul senso della poetica stessa. La lontananza fisica, mai veramente risolta, diventa dunque un vero e proprio esilio psicologico. Quello dell’impossibilità di riconciliarsi con il trauma della perdita della propria terra. Dai testi de Il labirinto emerge un continuo raffronto fra i luoghi fisici che hanno accolto Hasan, ovvero la Toscana e in particolare Firenze. E i luoghi psichici e ontologici del retroterra storico-culturale dell’Iraq. Della sua città Nassiriya (sorta sulle rovine dell’antica Ur babilonese) e più in generale del mondo arabo. Il labirinto è dunque anche quello che si snoda fra la ricezione dello spazio di vita quotidiana, e il senso di sradicamento misto a inquietudine esistenziale che rimanda alla memoria, alla visione, alle radici […].

 

Dalla postfazione di Marco Incardona

[…] Al Nassar è stato innanzitutto un grande poeta, capace di esprimere con forza e profondità gli aneliti dell’essere umano, radicalizzando al massimo la contraddizione essenzialmente moderna tra movimento di razionalizzazione/secolarizzazione dei processi generali sempre più impersonali e complessi, e potenzialità delle singole soggettività nel loro agire quotidiano. Il dramma dell’esilio, del distacco, del progressivoabbandono della lingua araba per quella italiana, sono sicuramente al centro della sua attività poetica, ma con un equilibrio di registro e una chiarezza di visione, che ne fanno certamente un lascito capace di trascendere non solo le vicende poetiche del poeta, ma anche quelle della sua epoca […]. Hasan Al Nassar è stato un poeta essenzialmente notturno, volutamente oscuro e inafferrabile, perché come pochi altri, ha capito il dramma della condizione moderna nel quale le aspettative migliori delle singolarità vengono “inesorabilmente” neutralizzate in nome di dispositivi complessi e impersonali che rispondono a logiche economiche e sociali sempre più alienanti e frustranti. […] Stabilendo un ponte tra Oriente e Occidente, tra tradizione e modernità,tra trascendenza e immanenza la sua poesia sembra infine aver scavato un mistero più profondo, pronto a divenire una traiettoria capace di dialogare con la realtà rimodulandola, ricostruendola in funzione di una visione potentissima e lucida, capace insomma di attraversare l’orrore del mondo, ma anche la sua struggente bellezza, forse proprio per salvare quest’ultima. I versi di Al Nassar colpiscono il lettore attento per l’assoluta mancanza di fronzoli e di svolazzi lirici. Come se fossero fedeli a una missione più grande. Come se rispondessero a una chiamata proveniente da un luogo in cui tutte le parole hanno ancora un senso. […]

 

Da Il labirinto (Edizioni Ensemble, 2018)

 

L’ultimo pianto di Ur

Mi è sembrata una terra,
era terra,
terra dei Sumeri,
spogliata dei suoi fiumi, nuda.
Mi ha avvicinato la terra d’Iraq,
tradita, già vogliosa di fiori
seminati dai propri cari.

Ho udito le tenebre che difendono i miei morti,
nel mio sangue.
Danza e canti all’alba,
per un addio eterno,
per addormentare il mio sogno.
Cresce e muore il fuoco.
Come è bello, meraviglioso il Mediterraneo,
non ha memoria dei defunti.

Fratello, ti vedo:
non camminare oltre,
il cimitero del mare ti aspetta.
Fango salato, marcio,
il grano spezzato lascia spighe mai più fertili.
Femminilità improduttiva.
Ho visto sudari, come camicie appese a un filo,
aprirsi sotto i raggi di una luna d’argento
che spinge il tramonto
verso l’isola innocente,
che nessuno ha mai calpestato
on i neri stivali di chi sta arrivando.
Spuntano ombre di contadini meridionali,
spuntano reliquie di corpi
che vagano nel fango dell’Iraq.
Così terminano le acque d’Iraq
come termina la luce
della luna d’argento.

Avrei voluto vedere le donne vergini
quando liberano dal loro ventre
bambini che stringono in mano coltelli di marmo.
Avrei voluto ascoltare il pianto del Sud,
come orfani smarriti sul valico montuoso.
Ho ascoltato sorrisi bruciare lo scandalo del fuoco,
tra il sangue e il fango di Ur traditrice,
come la donna che ci inganna sin dall’inizio
prima di abbandonarci sul crocevia del sentiero.

Ur, chi non ti ha conosciuto,
chi non ha conosciuto Abramo, Gilgamesh,
Hasan al Nassar
non può capire cosa sia la sofferenza.
Tu sei Adamo nella luce cieca
e la vita che hai avuto
non è uguale a quella di tutti.
Un’altra vita persa nella battaglia perduta.
Mi sono sembrate le stelle che tradiscono
come vergini stuprate
sotto un tessuto della notte lunare.

Nessun volto assomiglia mai al profilo della luna.
Le vergini liberano fanciulli
che tengono ancora in mano
coltelli di marmo.
Ho visto coltelli galleggiare sopra l’Iraq,
nudo d’acqua,
spogliato,
nudo di valli di fango, terra, sabbia, maiolica,
scontro di alberi con altri alberi,
innamorati con altri innamorati,
poeti con altri poeti,
piante con altre piante,
erbe con altre erbe.
Non saranno più vivi.
Ora è morto l’inno, il canto da una collina vicina.
I sogni terminano
con violenza.
Tristezza nei volti quando inizia il litigio.
Tristezza nei volti nella notte sumerica,
quando ci sarà il canto trionfale,
inno alla gioia.
Vi dico: i tamburi devono conservare il silenzio.
Vi dico: sei Adamo nella luce cieca.

Avrei voluto non ascoltare un’onda triste.
Certo, i grembi gonfi andranno
e torneranno presto al fango di Babilonia.
Porteranno cadaveri di ghiaccio.
State tranquilli, io vi dico, fate calmare la vostra voce,
che la torre di Babele inizia a prendere fuoco,
si stringe la sua cintura e risorgono i morti di Ur.
Figlia di Ur, dove vaghi?

La vita che tu cerchi non la troverai.
Riempi il tuo ventre di bambini.
Ti dovrò dare vesti per il tuo corpo,
pane e cibo, per la tua verginità.
Tu sei un braciere che si estingue nel gelo,
una porta che non sostiene il vento e la tempesta.
Per tutta la vita ti seguirò come straniero,
passo dopo passo, come un’ombra sconosciuta.
Non voglio sentirti come un serpente
che scivola sul mio corpo.
Non ti devi avvicinare dove io sono,
dove io vado non devi andare.
Dove io entro non devi entrare.
Io seguo ogni tuo passo,
uomo di frontiera
stanco di un’altra notte senza frutti.

L’amore è duro, rigido, nudo.
Ebbene, sono già cadute gocce d’acqua.
Grandine sul grano spezzato.
Su un Iraq quieto
il fango sepolcrale si è alzato, nel buio silenzioso,
a coprire il mio corpo,
a uccidermi lentamente.
Il fango sepolcrale sta camminando come il buio.
Io trattengo il fiato o un grido:
perché l’amore era duro anche nel sogno.

La terra tra due fiumi è sembrata spogliata
della sua acqua,
caduta, sconfitta, crollata.
Ho detto addio all’Iraq, ho udito l’inno di Ur traditrice.
Per la battaglia, l’incendio si alzerà lentamente.
È caduta, è caduta Ur, la grande,
il paese che è come vuole essere.

*

Il taxi

E il taxi è ancora in ritardo.

Vacillante di tacchi e di cuore
Giuseppina attende,
contraddicendosi
tra rossori
e mento proteso al cielo.

Fa caldo,
e nessuno l’ebbe mai davvero:
tragedia di ragazza
troppo alta
per saper intenerire
implorare rifugio
o carezze.

Velata da un corpo non suo,
di vichinga,
sedeva pudica e sola:
il futuro lacerato
da arance sanguigne
e scialbi cieli nordici.

E fu suo padre
(mai menestrello
ammesso a corte)
che legandole
con filo spinato le ali,
la spinse ad altri mondi.
Nelle sue carni soffrirono
fanciulle d’Africa
mutilate
e violate,
arabe donne rinchiuse.

Giuseppina e i suoi libri.
Nessuno sapeva, nessuno sospetta.
“È strana”
bisbigliano i colleghi
se incauta o stanca
volta le spalle:
“Non è come noi”.

Né strana né matta:
incompleta.
La sete di tutto
la tormenta da sempre.
Di notte si chiede
che sarebbe stato di lei
in altri tempi,
altri luoghi,
con altre origini,
altro padre…
Non saresti stata tu,
Giuseppina!

Il taxi è crudelmente in ritardo.
Fa caldo.
Affannata conti
e riconti
le occasioni perdute,
gli uomini che ti desiderarono,
le piccole cose normali
che avresti voluto,
i cancelli che si chiusero…

Al tavolino del bar
qualcuno spreme
uno spicchio di limone.
L’aria d’improvviso
si fa agra e rabbrividisce:
sollievo.

Dal fondo della via
un giovane uomo
(pelle scura,
camicia a fiori
troppo stretta)
si illumina vedendoti.
Ti chiama.

Un tè alla menta,
Giuseppina?
Bizzarri.
Diversi ed uguali.
Lui eternamente povero,
tu per sempre persa
nel disordine dei tuoi fogli,
di giornali sbiaditi,
eppure…

Eppure lui sa
chi si nasconde
nell’alto corpo di tedesca:
una bimbetta siciliana
avida di tramonti e parole,
di poesia.
Grembiulino bianco
e troppi sogni:
fantasticavi di avere
un bimbo tuo,
un giorno,
forse.

Il taxi non è ancora arrivato.
Non importa.
Qualche schermaglia,
un piccolo imbarazzo
al momento di pagare
il conto.

Fa caldo, altro tè?

*

Non ce la faccio a cantare ancora
(non più adesso)
la morte di ciò che più amo.

– Non cercare nella mia chiarezza
(non farlo ti prego)
il risvolto che annulli il dolore.

…ma la parola è parola,
imprecisata quantità di materia:
– si levi l’enfasi
di versi mai uditi
la nuda parola
scabra di doni…

Seminammo il silenzio
di cadaveri.
Non sono cresciuti.

 

Hasan Atiya Al Nassar (Ur, Nassiriya, Iraq 1954 – Firenze 2017) è stato un poeta iracheno. Ha scritto in arabo e in italiano. La sua opera si fonda sul dolore dell’esilio non solo geografico, l’anelito di una patria lontana e della fragilità umana di fronte al mondo circostante. I suoi testi sono tradotti in tutto il mondo. Ha pubblicato le prime opere di narrativa e poesia a Baghdad, collaborando come giornalista a varie riviste. Fuggito dall’Iraq nel 1979, ha vissuto per molti anni esule o rifugiato politico a Firenze, dove si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Ha conseguito inoltre un dottorato di ricerca all’Istituto Orientale di Napoli. Le sue opere sono state pubblicate, oltre che in Italia e in Iraq, anche in Siria, Libano, Tunisia, Iran e Regno Unito. La sua poesia è stata tradotta in inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese e persiano. Iscritto alla “Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici Iracheni” è stato membro del comitato di consulenza della rivista Al-Menfiyon (Esuli), pubblicata in Libano. Ha fatto parte della Camerata dei poeti toscani. Ha collaborato alla rivista Testimonianze, fondata da Ernesto Balducci, ed è stato redattore della rivista di poesia comparata Semicerchio, per cui curava la sezione di poesia araba. Ha partecipato a numerose conferenze dedicate al mondo islamico e alla cultura araba. Durante il conflitto del Golfo del 1991 è stato intervistato dal TG2 per Pegaso, come interprete del pensiero degli esuli iracheni. Inoltre nel 2004 è stato protagonista del corto-documentario Shàar al manfa, girato da Silvana Grippi e Jimmy Ciak. Cortometraggio proiettato per la prima volta in occasione dell’estate fiorentina 2005, alla quale ha personalmente partecipato. Nel 2012 ha partecipato all’incontro video-letterario a cura di Silvana Grippi e Simone Siliani presso il Comune di Firenze – Q2 – Villa Arrivabene. Video sulla cultura araba in Italia, reading e dibattito a microfono aperto. Dal 2014 testi scelti, editi e inediti, sono stati pubblicati periodicamente sul blog di Bibbia d’asfalto – poesia urbana e autostradale, a cura di Edoardo Olmi. Tre le sue principali pubblicazioni: Il massacro delle oche selvatiche, Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici iracheni, Firenze, 1986;  Poesie dell’esilio (DEA,1991); Letteratura dell’esilio: il caso iracheno (CUSL, 1996); con AA.VV., Quaderno Mediorientale I, collana “Cittadini della Poesia” (Loggia de’ Lanzi, 1998); con AA.VV., Immigrati siamo tutti (DEA, 2000); Roghi sull’acqua babilonese, a cura di Giulio Gori (DEA, 2003, II ed. 2004; con AA.VV., Antologia dei poeti dell’arca, a cura di Lia Bronzi (Bastogi, 2004); con AA.VV., Ai confini del verso, a cura di Mia Lecomte (Le Lettere, 2006); Il labirinto (prima ed. La penultima, 2013; seconda ed. Matisklo, 2015; terza ed. Ensemble, 2018); con AA.VV., Affluenti. Nuova poesia fiorentina, a cura di Edoardo Olmi e Marco Incardona, (Ensemble, 2016).

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