Teoria delle rotonde. Paesaggi e prose (Valigie rosse 2020) di Italo Testa è un libro di geografia, il primo che mi sia capitato di leggere a dispetto delle molte dichiarazioni d’intenti incontrate nella poesia recente. Se è vero, infatti, che la storia si sedimenta nei luoghi, per scrivere la storia è necessario scrivere la terra in cui accade, il suo luogo. Ma Italo Testa fa un passo in più, ed è su questo che vorrei riflettere: elegge a principio di poetica e a sfida formale la rappresentazione dello spazio in una delle sue forme moderne e contemporanee, il paesaggio, si potrebbe dire: la sua forma soggettiva, per trasformarla in qualcosa di diverso, che complica la scissione fra forma soggettiva e forma oggettiva dello spazio, e che credo possa essere indicato nella «spazialità concreta» di cui parla Testa in riferimento alla poesia.

In questo libro il paesaggio, un paesaggio ripetitivo e riconoscibile, per lo più quello dell’Italia degli anni zero, assorbe in sé anche il tempo, rovesciando un supposto ordine naturale per cui sarebbe il tempo, almeno in un testo, in un qualunque testo, a presiedere alla raffigurazione (e alla configurazione) dello spazio. Cancelli e spiagge, rotonde e vasche d’acqua con medusa, esperimenti di traduzione, Castell’Arquato e Piacenza, sono tutti luoghi in cui il tempo, il suo scorrere dritto verso una foce non ben identificata, è l’ospite ingrato di un esploso spaziale dalla assonometria curva, a forma di anafora. Di qui, forse, l’immagine centrale: la rotonda, il circolo. Ma anche il suo contraltare ossimorico: la teoria, come infilata – sfilata –, sequenza, e anche come riflessione, anch’essa circolare per tradizione e per isotopia, a indicare una inevadibililità, il cui antidoto può essere forse la «smemoratezza», ma non la risposta alla domanda «oltre questo che cosa vedi?», che infatti qui non c’è. Questa poesia raccoglie lo spazio e il tempo e li pone uno contro l’altro, senza che ciò debba risolversi nell’uso di espedienti grafici insoliti o, soprattutto, in una disposizione eterodossa delle parole sulla pagina. Peraltro, gli elementi grafici insoliti ci sono: Testa adotta tre diversi font per la stesura dei testi; suddivide i testi in microsequenze che forse non è sbagliato chiamare lasse; riduce al minimo la scansione versale e, quando c’è, è segnalata più spesso dai simboli tipografici “//” e “•” che non dall’a capo convenzionale. Anche queste opzioni tipografiche sembrano svolgere una funzione “paesaggio”, in tutto e per tutto analoga a quella svolta (anche riflessivamente) dalle immagini che scandiscono il libro. Il che fa pensare a una strategia mimetica di richiamo alla differenziazione interna del paesaggio, i diversi (per dimensione e qualità) elementi che raccoglie e, in un certo senso, unifica. Invece, una disposizione eterodossa delle parole sulla pagina non c’è, segnale di una ricerca formale che vuole toccare i limiti della scrittura dall’interno della scrittura stessa e dei suoi vincoli tradizionali. I testi sono per lo più in prosa e, dunque, seguono il principio standard della successione frastica. Qui però tale successione è in contrasto con il senso che costruisce, o meglio il senso che la successione frastica costruisce produce degli arresti che hanno un impatto sulla temporalità del discorso: Teoria delle rotonde riesce a mandare in crisi il rapporto di affratellamento consuetudinario tra spazio e tempo e ne esibisce la precarietà.

Da questo punto di vista, Terra gemella è un testo emblematico. Mentre chi dice io si fa una scopata nella stazione centrale di Marsiglia, la terra osservata dalla mappa di Google Earth, che è l’altra forma, ipercontemporanea, di rappresentazione dello spazio, si potrebbe dire: quella oggettiva, interviene a riempire un racconto esaurito nel giro delle poche righe che chiudono la prima lassa. Il piano della visuale imposta dal dispositivo tecnico e quello della visuale in prima persona singolare si contendono lo spazio della pagina a vicenda senza che il tempo – introdotto dalla scrittura per esigenze di scrittura – riesca a fungere non tanto da principio d’ordine, ma anche solo da punto di sutura tra i due piani. L’iterazione dei «poi», degli «allora» e «a seguire», è tanto più necessaria quanto più impotente a imprimere una direzione al discorso: «ogni dettaglio divenuto abnorme, ingestibile, come i movimenti senza scopo». La stessa realtà descritta si estende e sparpaglia ben al di là del racconto e del tempo che lo scandisce. Il racconto, dopo l’esposizione iniziale, non fa che ripetersi o provare a cominciare di nuovo, come se tentasse di portare ordine o di dettagliare i fatti che lo costituiscono, arricchendosi invece di elementi che non servono se non a destituirlo del potere che normalmente gli riconosciamo: il racconto non procede e non unifica; la ripetizione dell’incipit («dunque, i fatti sono questi»), degli stessi fatti, che dopo la prima lassa non cambiano, e l’impiego degli avverbi temporali, che dovrebbero indicare una progressione all’interno del narratum, subiscono una torsione straniante e ironica. Gli stessi «fatti» di cui si parla sono equivoci: nelle intenzioni esplicite del testo dovrebbero significare i fatti del racconto, ma finiscono per indicare potenzialmente tutto quanto cade nel paesaggio e, di fatto, tutto quanto la scrittura registra e documenta. Per questo mi sembra che si possa dire che in Teoria delle rotonde avvenga un passaggio dalla storia alla geografia che è integralmente letterario. È da questo punto di vista che Terra gemella mi pare il testo che con maggiore convinzione e consapevolezza porta a termine questo passaggio (v. il primo testo in fondo). La struttura elencatoria che lo caratterizza priva al tempo stesso l’elenco del suo potere retorico e ordinativo, lo forza mostrandone i limiti, rendendolo un principio di disordine, aprendolo allo spazio. E lo spazio, incontenibile, è, sì, coartato in una sequenza temporale additiva, ma l’addizione non riesce: c’è tutto, si vede tutto, perfino quello che passa per la testa dell’io, perfino il trasporto di un cadavere, che potrebbe svelare un pezzo della storia che il protagonista tenta di narrare, oppure essere lì per caso, grazie a una foto in prima pagina sulla Marsillaise scorta dal protagonista o a un fotogramma di Google finito sulla mappa, ma che «senza dubbio» appartiene al paesaggio. Né riesce a organizzare lo spazio – o a governare la scrittura – il punto di vista di chi dice io e si presenta come narratore, il quale è appunto un elemento della configurazione esibita dal paesaggio, che lotta per il controllo della scrittura: i continui «poi, senza dubbio» che ritmano una parte del testo, suscitano la domanda su chi sia davvero a parlare; è davvero l’io narrante? È davvero un io che inizialmente cerca «una prova d’esistenza» e poi ammette di essere «in cerca d’esistenza»? Il limite intrinseco iscritto nel dire io e nella pretesa di dire ciò che io vedo, dunque, non reintroduce un principio d’ordine, ancorché debole ma comunque ineludibile, che ridurrebbe lo spazio e la scrittura alla temporalità interna dell’io. Al contrario, il modo in cui, dalla storia e nella storia, dirama e si espande la scrittura del paesaggio – di ciò che accade in un dato spazio configurando un paesaggio – rende lo spazio a principio ordinatore del racconto. Un principio d’ordine niente affatto rassicurante: disumano, disumanizzato.

Le conseguenze di questa riflessione formale vanno ben oltre il gioco letterario. La Terra gemella configurata per mezzo della scrittura restituisce il senso centrifugo e sfuggente (centrifugato) del mondo, qualcosa che il dispositivo fotografico satellitare impiegato da Google per le sue mappe non può fare. Le giustapposizioni mimano le insorgenze dell’inconscio psichico, ma sono in realtà terre emerse dall’inconscio ottico-geografico che viene dal satellite, dalla memoria ubiqua, sedimentata nello spazio, e dalla percezione soggettiva. Dicendo io, il soggetto non attesta una priorità o una discontinuità di principio con il paesaggio, ma la sua più stretta appartenenza a questo paesaggio, e al suo narratum straniante e paradossale, di cui è un occhio, una bocca, una mano. Questa opzione non dà luogo a privilegi di qualche sorta, ma disperde e dissemina la coscienza del paesaggio nel paesaggio. In Terra gemella, il soggetto va in cerca di una prova d’esistenza, «spermiogramma alla mano», ma «spermiogramma alla mano» fornisce una prova d’esistenza al tu, penetrandolo. La «prova d’esistenza» di cui si parla in queste pagine è equivoca: potrebbe riferirsi al tu, ma potrebbe riferirsi anche all’io. Comunque, passa per la coappartenenza dell’io e del tu allo stesso paesaggio. Anche l’altro perde il suo ruolo ordinante – come limite critico, o ontologico –, e diventa un altro portatore di disordine e conflitto nel paesaggio. Non è un criterio di oggettività ma un elemento del paesaggio che, come lo spermiogramma, ha al massimo un carattere di riscontro. Punto di vista soggettivo e riscontro oggettivo concorrono, contrastivamente, conflittualmente, al paesaggio che ne è la condizione di esistenza («creemos ser país y somos apenas paisaje», recita l’esergo conclusivo da Nicanor Parra). Ecco perché il paesaggio sembra complicare – che è diverso da (ri)comporre – le forme soggettiva e oggettiva dello spazio, raccogliendole in una paradossale “sintesi scomposta” che è possibile solo sul piano della scrittura, non dei concetti o delle immagini (che infatti sono per lo più frammenti, ritagli), e che forse trova nel collage il suo paradigma profondo. La scrittura è la colla che attacca sulla tavola gli elementi eterogenei del paesaggio, mentre la pagina è la tavola. Scrittura e pagina sono punti di raccolta che non producono orientamento, né ordine. Non c’è una fuga dalla circolarità e la direzione al suo interno è puramente aleatoria. In tal senso, benché suggestiva, la proposta di una chiave psicogeografica per leggere Teoria delle rotonde rischia di non valorizzare fino in fondo una delle ambizioni profonde e più chiare del libro: la volontà di destituire di centralità l’elemento psichico e soggettivo senza ridurlo, senza dimenticarlo o considerarlo con uno sguardo deterministico; un’opzione ampiamente esplorata nella poesia di questi anni, che Testa sceglie di affrontare radicando, sì, il soggetto nella situazione ma in modo tale da rovesciare il suo labile – perché temporale e percettivo – controllo su di essa mediante la scrittura stessa, dunque sul piano della forma, e da sfondare, letteralmente, i suoi limiti, anche quelli che si direbbero invalicabili (è pur sempre un soggetto a scrivere e a scegliere cosa scrivere), per far cadere dentro la scrittura la situazione al di là e al di qua del suo sguardo e del suo tempo. Tutto questo punta in direzione di una geo-grafia o, come scrive lo stesso Testa, di una «spazialità concreta».

Parlare di geografia permette di sottolineare il fatto che il rapporto di condizionamento tra vita psichica e paesaggio, su cui pure il libro investe risorse, è in effetti il display di processi profondi che non si vedono, ma che le immagini lasciano intendere. I capitoli dedicati ai cancelli e alle spiagge, o alle rotonde, come anche quelli dedicati a Castell’Arquato e a Piacenza sono caratterizzati da sequenze di immagini che, mentre trasmettono l’idea di un passo svelto e nervoso che attraversa questi luoghi e registra impressioni, alludono a una circolarità ossessiva e insensata. In prima battuta si può dire che questi testi segnano una forte presenza soggettiva. In realtà, il paesaggio, descritto anche minuziosamente, costituisce l’unica vera attrattiva di questo soggetto. Un soggetto che, pur presentandoci numerosi elementi biografici, li consegna come elementi dello spazio svuotati di ogni carattere psicologico e/o esistenziale (v. il secondo testo in fondo). Si capisce che i ganci biografici (l’amico, la sorella, il pescivendolo) sono elementi della descrizione dell’unica ossessione del testo, Castell’Arquato. Il soggetto e la sua biografia sono esteriorizzate, elementi di un arredo paesaggistico dal quale non si esce mai veramente. Ancora, vedere i santi e la madonna (in Avanti e indietro) è l’occasione di una perlustrazione a tappeto di via Trebbiola (Piacenza), una perlustrazione che procede circolarmente nel tempo e nello spazio, in cui, cioè nello spazio, il soggetto non fa che perdersi continuamente. Anche se non vorrebbe. Testa riconosce una ambivalenza profonda nel modo in cui esistiamo nel “nostro” paesaggio, nei “nostri” luoghi, una scissione tra una «prova d’esistenza» che viene solo da lì, dal paesaggio, e una «prova d’esistenza» che cerchiamo altrove. Tra un desiderio “conservativo” di esistenza (felice), che identifichiamo con una sopravvivenza circolare che passa per la rigenerazione continua della vita (Geografia temporanea lo fissa in modo estremamente potente), e un desiderio “progressivo” che si sostanzia nell’urgenza di uscire da questa vita qui in cerca di un altro luogo (una «eterotopia», che sia il tu di Terra gemella, o la Milano delle due Busslàn). Forse è questa (o anche questa) la «lacerazione condivisa» a cui si allude verso la fine del libro, riflettendo sulla volontà del poeta di parlare «della frontiera del visibile». Una tensione che si trova al di qua del piano psichico e descrive la condizione ontologico-esistenziale dell’essere umano, e che identifica la sua matrice dinamica nel luogo, in quanto mia, nostra, «memoria anteriore», cioè cellulare, corporea, pre-cosciente e pre-psichica, e trascendenza «indisponibile, una resistenza che fa strame dei nostri piani».

Il libro di Testa è un tentativo radicale di spingere la scrittura oltre i suoi limiti. Per molti versi, è un tentativo di “produrre” o “esprimere” o “fare esperienza di” una eterotopia della scrittura nella scrittura. Ma è altresì un libro che teorizza – può suonare strano in un libro di poesie, ma è così – un’idea precisa di scrittura, e di scrittura poetica. Sono gli ultimi due capitoli del libro a farlo. La poesia non si distinguerebbe per una sua qualità grafica, quella di andare a capo, per la sua brevitas, o magari per il suo tasso di assertività, ma per una qualità espressiva che, lo abbiamo già detto, Testa chiama «spazialità concreta» (v. il terzo testo in fondo). La poesia può andare a capo o no, ibridarsi col saggio o col racconto o no, espandersi fino a dialogare con il suo opposto antinomico, la fotografia, o no. E lo stesso si può dire della prosa, visto che di prose, fin dal sottotitolo del libro, qui si parla (converrà allora notare che c’è almeno un testo, Geografia temporanea, che ha la forma di un prosimetro; ma anche Cancelli, nel primo capitolo, mima la scansione versale grazie alle frasi brevi disposte verticalmente e all’impaginato a bandiera, per cui le parole, senza la sillabazione, vanno a capo automaticamente e, forse, casualmente prima del margine effettivo della pagina). Di fatto, qui, importa poco. Si tratta di elementi, scelte, che contribuiscono a costruire il libro (non ho detto nulla sulla quarta sezione, letteralmente – e ricorsivamente – «infestante», lo scrive anche Testa nelle Note; avrebbe portato via spazio a ciò che volevo mettere in luce), ma non sono decisivi rispetto a quella che mi sembra essere la posta in gioco di questa poesia e dell’idea che porta con sé. Per Testa la poesia può transitare da un genere codificato a un altro, perché è un genere “aperto”, strutturalmente «in transito da un luogo all’altro» e, al tempo stesso, paradossalmente, «un non luogo a procedere». Ecco il senso della spazialità concreta, allora: nulla di statico, ma qualcosa di animato da una dissonanza interna, una non coincidenza non diversa dal paesaggio che questa scrittura rovescia sulla pagina, presentandosi al tempo stesso come documento dello status quo e dell’utopia, teso tra assertività e non-assertività. Per una volta, utilizzare la formula benjaminiana «dialettica in stato d’arresto» non pare retorico. Ma meglio ancora è concludere con le parole che lo stesso Testa ha usato per chiudere un suo intervento, apparso alcuni anni fa su Le parole e le cose, sforbiciandole appena: la poesia (della separatezza della poesia si parlava lì, invece) «non vale in quanto rispecchiamento di una condizione data, ma piuttosto quale allegoria, immagine rovesciata di un’altra vita».

 

da Terra gemella

dunque, i fatti sono questi, sono entrato sulla spianata, di fronte alla gare saint charles, dietro il cancello basculante, la luce piatta, rasa, annichilita sulle pietre, sono entrato con un zaino sulle spalle, verde fosforescente, costeggiato il radiatore centrale, ho svoltato, ti sono entrato dentro, spermiogramma alla mano, come una prova d’esistenza, // […] poi, senza dubbio, le iniezioni ossaliche, le punture sotto la maglia traspirante, attraverso la guaina quechua, poi, senza dubbio, la discesa a strapiombo, nei calanchi di Morgiou, con il cadavere calcinato, in prima pagina sulla Marseillaise, poi, senza dubbio, il milieu del Var, come in un sequel di Izzo, poi, senza dubbio, le evoluzioni dei canadair, e i resti fossili degli incendi, // aggiungi il saliscendi che è seguito, l’arcipelago e i crostacei appostati

[…]

 

da Busslàn #2

[…]

a Castell’Arquato c’è un mio amico che se lo vuoi andar a trovare devi prendere appuntamento al bar Papana // a Castell’Arquato l’altra mia sorella ha scritto al liceo una poesia e ha vinto anche lei al concorso della Cassa, ma non so cosa c’è scritto dentro perché non me l’ha mai fatta leggere // a Castell’Arquato il mio pescivendolo di Milano ha la casa in campagna

[…]

 

da 3. [ultratossico]

Considera l’ipotesi che le poesie a volte non siano altro che siti di stoccaggio di rifiuti verbali ultratossici. A che cosa varrebbe? A disinfestare la mente? A liberare questi luoghi dai detriti, e lasciare che le cose si mostrino? Considera l’ipotesi che le poesie siano luoghi eventuali. In questo spazio qualcosa deve poter accadere, fari irruzione, sovrastare: i detriti trasfigurati, di più, cancellati. Negazioni determinate di se stesse, del loro proprio luogo. Perché è la spazialità concreta ciò che più di tutto sembra distinguere il testo poetico dalle altre forme di espressione. Come questo spazio è occupato, una determinata disposizione delle parole, certi pieni e certi vuoti. Questa forma conta, fa la differenza. È così che crediamo di riconoscerle, a colpo d’occhio. Stanno lì, nel mondo, sono dei luoghi espressivi altamente connotati e differenziati, su cui più individui possono transitare, fermarsi un poco, esplorarli, prendere congedo.

[…]

 

Italo Testa (Castell’Arquato, 1972) ha pubblicato, tra gli altri: L’indifferenza naturale (Marcos y Marcos 2018), Tutto accade ovunque (Aragno 2016), i camminatori (Valigie Rosse 2013), La divisione della gioia (Transeuropa 2010), canti ostili (LietoColle 2007), Biometrie (Manni 2005), Gli aspri inganni (LietoColle 2004). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, spagnolo, tedesco e cinese. Dirige la rivista di poesia, arti e scritture L’Ulisse, ed è coordinatore del lit-blog leparoleelecose.

 

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