La parvenza del vero è una raccolta edita da Marcos y Marcos nel 2020 che comprende varie fasi della poesia di Franco Facchini, poeta tanto notevole, concettuale e complesso (sebbene di tendenze minimaliste), quanto schivo rispetto ai circuiti poetici sia mainstream sia riconducibili alle cosiddette nicchie autoriali. Il volume raccoglie diverse sillogi, quasi tutte già edite (ognuna delle quali rappresenta una sezione a sé stante), con testi scritti nel lungo periodo che va dal 1985 al 2015.

Il nucleo della poesia di Facchini si dispiega intorno ad una primigenia scena madre che si declina via via in maniera diversa (come il concetto di casus – cade sempre dando diverso esito, pur essendo la medesima parola o, in questo caso, situazione – oppure, come nella musica minimalista, quando un pattern di fondo genera minime variazioni): la descrizione del processo della visione (vengono anche presi in considerazione, ma in maniera minoritaria, gli altri sensi: udito, p. 35, odore, p. 36, tatto p. 71, etc.). Ma iniziamo a capire come Facchini delinea il processo della visione (cui dedica in buona sostanza l’intero volume): la «cosa» che appare (ci abitueremo a questo lessico astratto da pura riflessione filosofica) «nutre / lo sguardo, disegnandone intento e incanto, slancio / e proporzione» e, nel contempo, la «cosa» essa stessa «diventa il pensiero di quella cosa». In questo modo, il pensiero non può «eludere il suo / senso» e, in quell’attimo, è ancora «parte dell’estatico guardare» (cf. La cosa che appare e che si vede, o solo pare, nutre, p. 12). Questo «snodo della comprensione» è «una sosta faticosa»: in esso «ogni immagine è perduta e fluttuante / tra l’ancoraggio appena raggiunto e il conseguente distacco». Quel che vuole dire, sciogliendo il rebus delle sue parole, è che una «cosa» la tratteniamo solo per un attimo: essa si ancora, si imprime nel pensiero e poi, un infinitesimamente piccolo istante dopo, la si perde perché essa si distacca, si dissolve (Guardare in un punto preciso del nostro orizzonte, p. 11). Come vediamo, con estrema finezza, Facchini ci introduce ad una poesia che ha come tema dominante la percezione (in primis la visione) e si pone in una prospettiva continuamente in bilico tra fenomenologia e gnoseologia.

Ciò che è senza dubbio interessante è ciò che accade al soggetto e all’oggetto durante questo ineffabile attimo di incontro. E quel che accade è una duplice metamorfosi: proviamo a capire perché. Il soggetto, mentre è nell’atto della visione, è qualcosa che non è né sé stesso né quello che guarda («Poi sono qualcosa che non definisce né me né quello / che guardo. Sono costretto tra l’essere e il figurare»): il soggetto nell’atto percettivo dunque è altro, si sta trasformando ed è in un interstizio indefinito tra essere sé e l’assimilazione a qualcos’altro. D’altra parte, gli oggetti, le «cose», nel momento della percezione, si disgregano e non hanno più nome né identità («E loro mi guardano, e non hanno più nome e identità. / Mi guardano, assurde, mentre sprofondo nel loro nome», cf. Guardo, e le cose che vedo sembrano essere tali, p. 13), la cosa è «dissolta nel suo denso apparire» (cf. L’apparire di questo istante qua, che si confonde, p. 15): lo sguardo «ha un fremito quando fruga» (cf. Lo sguardo ha un fremito quando fruga, si scompone, p. 22) e «una fragilità straniera» che «scompone (sc. le cose) nella costante fissità che le nomina» (in Anche le cose ferme hanno un qualche dinamismo, p. 27). Quel che ci colpisce in Facchini è, da un lato, l’indagine della metamorfosi di soggetto e oggetto, una metamorfosi di sapore eracliteo, fondata su coppie dicotomiche dai poli cangianti e, paradossalmente, coincidenti con i loro opposti (il soggetto e l’oggetto possono anche invertirsi: «Il pensiero è un oggetto parlante/ la realtà un pensiero anelante», in Penso alla luce, trovandomi immerso, p. 209). Dall’altro lato, tale metamorfosi, e reciproca implicazione, ci induce a rivedere i rapporti tra scrittura e percezione e scrittura e pensiero astratto. E ciò avvicina Facchini ad un grande poeta del nostro tempo: il Valerio Magrelli di Ora serrata retinae. Scrive Tommaso Lisa a proposito di Ora serrata retinae:

«Aequator lentis e Rima palpebralis costituiscono due emisferi fondati su immagini opposte: l’uno su un concreto senso terrestre, equoreo, che accompagna il tentativo di articolare con la scrittura la percezione del corpo nel mondo (il definirsi soggetto), l’altro su un immaginario notturno, metamorfico, alchemico e combinatorio, aereo – anche per la consistenza dei testi, spesso molto brevi – teso ad indagare il meccanismo astratto del pensiero; il situarsi del soggetto nel mondo» (cf. Scrittura del riconoscimento. Su Ora serrata retinae di Valerio Magrelli, p. 39).

E come la scrittura del Magrelli di Ora serrata retinae, la scrittura di Facchini, anticipavo poc’anzi, gronda di dicotomie: pensiero/percezione, noumeno o cosa in sé/fenomeno o parvenza, verità/falsità, chiarezza/foschia e, soprattutto, luce/buio. Ma, lungi dal pensare queste categorie come stabili, come ferme, fisse, utili – insomma – a definire un codice chiaro di geometrie, i poli si alternano, si avvicendano, si interscambiano, continuamente, reciprocamente, indefessamente, creando misteriosi enigmi poetici che lì giacciono per essere risolti. Ciò appare palese nella dicotomia luce/buio, una delle più forti e delle più potenti della raccolta e presente costantemente in quasi ogni lirica. La luce, che si irradia dall’oggetto verso i suoi contorni, pare il mezzo che permette la conoscenza perché illumina e rischiara (cf. Ogni figura contiene se stessa e altro che solo, p. 14). Ma in realtà è «una luce che nell’ombra sconfina»  (cf. Guardo e, mentre guardo, nessuno vede dove sono, p. 28) e tutto ciò accade perché quando si percepisce la «cosa» ed essa è alla luce, quella che si delinea è – paradossalmente – una dimensione di buio concettuale, perché nella percezione vediamo solo il suo sembrare, il suo parere, che è in realtà inganno e falsità. Quando invece, dopo aver visto, gli occhi si chiudono, o in verità oppure nel subitaneo ottundimento della mente che coincide con l’imprimersi della «cosa» nel pensiero, e quindi si passa dalla luce al buio, lì e solo lì si ha la scintilla concettuale (cf. «Lungo la liquida e corrosiva corsia dell’occhio / abita, sperduta, l’invasiva presenza che ne è al di fuori. // Ogni cosa lì viene accecata e scintilla / nel buio eloquente della sua persistenza», p. 18 con p. 32, Da una parte c’è la cosa, «Gli occhi allora si chiudono, / e non vedere significa / percepire il silenzio, e la cosa / non vista che ci pervade, / riaffiora, mostrando tutto / in una dimensione di nero»): la poesia di Facchini, come vediamo, nasce da un continuo processo di decifrazione, di decrittazione.

Ma quali sono nel soggetto le conseguenze – psicologiche – di tale processo visivo, così finemente indagato? Questo è un altro punto di interesse della raccolta, che si sposta così a ciò che si agita nel soggetto dopo l’atto percettivo. Ed ecco che vediamo che il comprendere come soltanto con la percezione e con il pensiero susseguente si dia forma ed esistenza alle cose («Ogni volta che lo sguardo delle cose / invade il mio sguardo, mi interrogo / sul come sia possibile che un albero sia / un albero, una foglia una foglia. // E ci penso davvero, pensando che pensarci / sia la prova di ogni più piccola esistenza / e che sia l’unica forma di vero il vedere / forme e colori farne parte e mutare», p. 206) si avvicendi ad una sensazione di «gorgo» per cui lo sguardo si perde nel vuoto di ampi spazi incontrollabili, smarrisce il senso dei confini: «Più si apre il mondo, e più dentro di noi / ci perdiamo.» (cf. Negli ampi spazi si accede, p. 31). E in questa situazione di smarrimento, di dilatazione ad infinitum, di perdita di sé, di slabbramento sensoriale e mentale, ci si chiede quale sia l’utilità: c’è un’utilità nel percepire, nel sentire, nell’imprimere il pensiero con i calchi provenienti dal mondo esterno? Ahimè, tale utilità – a tale conclusione sembra approdare Facchini – sembra in realtà non esserci, ma essa – in fondo, riflette Facchini – diventa ben poca cosa di fronte al fulgore e all’inspiegabilità di un cielo stellato (il sublime matematico kantiano, «Il brillio delle stelle innamorate della oscurità sospirante / immerse in quel segreto che le illumina / mi ha costretto a pensare quanto sia bello l’inutile guardare. // E dentro la notte mi sono fermato, / e la notte ha sporto il suo volto / e s’è messa a guardare, […] / tra stella e ricordo di quella stella / tra luce e assenza di quella stessa luce», in Sono stato e rimasto nei precipizi della notte, p. 236). In tutta questa riflessione – v’è da dire – c’è poco spazio per l’altro, l’altro in carne ed ossa, un altro soggetto, l’io riconosce se stesso in modo propriocettivo (propriocezione come senso del proprio corpo) e cinestetico (il senso della posizione del proprio corpo in movimento), ma non c’è spazio per altre menti con cui condividere il proprio mondo percettivo e interiore.

Questa poetica di base, che sembra porsi – come dicevo – lungo una scia riferentesi alla lontana stagione inaugurata da Ora serrata retinae (una stagione in cui, «dopo i furori della neoavanguardia e la crisi di un’idea di letteratura come portavoce di letture globali, dominano il minimalismo e il ripiegamento sull’io»), predilige il verso libero, raggruppato in un’unica strofe o in un numero ristretto di strofi. Il suo dettato è di tendenza generalmente paratattica o, talvolta, è sfumato in lievi agglutinazioni ipotattiche prevalentemente di primo grado, ma sempre dotato di una sintassi netta, che, sebbene porti ad esiti concettuali paradossali e tutti da decodificare (vedi la dicotomia luce/buio summenzionata), è sempre concatenata in modo assolutamente logico e traduce un discorso interiore che mira ad un affinamento degli strumenti razionali per tradurre il processo di percezione e di conoscenza della «cosa». In tale dettato, l’armamentario retorico è patentemente centellinato: sporadiche sinestesie striano i testi e, al livello fonico, si notano fugaci pennellate allitterative ed un uso parsimonioso sia dell’omoarto («disegnandone intento ed incanto», cf. La cosa che appare, si vede, o solo pare, nutre, p. 11 etc.) che delle rime interne.

Ciò che, invece, mentre si legge e si assimila la raccolta, rimane più impresso, è sicuramente il lessico. Anzitutto, come abbiamo evidenziato, esso si basa su poli sclerotizzanti ma reciprocamente alternantisi e sfocia, talvolta, nell’ossimoro (cf. «iridescente buio», in Il dovere di essere certi, l’astuzia di ogni certezza, p. 75). D’altronde, però, esso sfoggia una terminologia filosofica astratta e minimalista in quanto omogenea e livellata su pochi e selezionatissimi termini chiave (vedi l’uso filosofico del termine «cosa», come oggetto passibile di visione o, in genere, di percezione) e con cursori ed episodici rimandi al mondo naturale. Nel complesso, è una scrittura che potremmo dire «fredda», ma che sfuma così tanto nel rarefatto, nell’astratto e nel trasceso che, se opportunamente cadenzata, sconfina nel sacro e nell’oracolare. Con l’oracolare ha infatti in comune quella foschia e quella bruma di densa oscurità espressiva e quell’ambivalenza ed equivocabilità caratteristica dell’oracolo classico, che è sempre però traducibile – a ben rifletterci – in un senso compiuto, sebbene paradossale. D’altro canto, però, tale scrittura non è un rompicapo meditativo e minimalista tout court: non sembra, infatti, essere del tutto aliena dalla fatica del pensiero, dal dolore per una generale sensazione di amechanìa, dall’estasi purissima sia di fronte alle «splendide astrazioni» della mente che di fronte agli inesplicabili spettacoli naturali che allo sguardo e alla mente si offrono.

In un suo saggio (La scrittura e la percezione: appunti per un itinerario poetico, pp. 186-187), Valerio Magrelli scriveva:

«Mi viene da pensare ai due versanti in cui credo si possa situare la poesia, tanto storicamente quanto praticamente nel suo farsi. Da un lato, un’idea che rimanda al suo statuto sacrale, come regno dell’ispirazione, dell’oracolarità. Dall’altro lato, invece, una sfera completamente diversa che è quella dell’uso manuale concreto della parola. Voglio dire che il poeta mi sembra stia a metà strada tra il sacerdote e l’enigmista. […] Credo siano questi i due registri da tenere presenti, anche nella loro conflittualità, nella loro paradossale incongruenza. In un certo senso, quando vedo accentuare l’uno mi viene da pensare all’altro e viceversa. Mi piace considerare la poesia come un gioco di parole crociate, ma un gioco in cui si deve anche scegliere cosa mettere in croce. Da una parte, quindi, un accanimento, un’attenzione, una cura che rimanda alla sfera ludica […]: gioco come radice del fare estetico. Dall’altra parte, invece, qualcosa che ha a che fare con l’esperienza allo stato puro e quindi con il mondo emozionale, pulsionale».

Per Magrelli, dunque, abbiamo avuto modo di capire, il poeta è sacerdote ed enigmista insieme e la poesia oracolo e enigma insieme: come abbiamo provato ad argomentare, sembra che il nostro poeta Franco Facchini aneli ad essere sia l’uno sia l’altro. E ci sembra che, nella sua riservatezza, ci riesca egregiamente.

 

dalla sezione Nel luogo che ci accoglie:

Guardare in un punto preciso del nostro orizzonte
o del vicino alitare delle forme complesse
di ogni illusione che in esse si incarna e le sostiene,

porta a uno snodo della comprensione, a una sosta
faticosa, dove ogni immagine è perduta e fluttuante
tra l’ancoraggio appena raggiunto e il conseguente distacco.

*

Da una parte c’è la cosa
che fa vedere. Il mondo che svela
è l’oscuro, quando mostra il suo volto.

Vedere è un astratto segno
di conoscenza, una sembianza
di come le cose possano apparire,
sembrare e non essere.

L’intera percezione scaturisce
da una svista e celebra gli istanti
dilatandosi in alcuni amori.

Gli occhi allora si chiudono,
e non vedere significa
percepire il silenzio, e la cosa
non vista che ci pervade,
riaffiora, mostrando tutto
in una dimensione di nero.

dalla sezione Tra luce e assenza di quella luce:

Penso alla luce, trovandomi immerso
nel suo fulgore, mentre altri pensieri
mi sfiorano e attraversano e bisbigliano,
altri pensieri che non so riconoscere.

Cosa sto dimenticando?
E questa domanda, dove mi conduce?

Mi trovo nell’accalcante moltitudine
degli esseri a compiere la giustezza del tutto mio
inaccettabile essere a scapito di altro
e inevitabilmente esserlo e parte dell’oscurità
di ognuno di noi insieme essere.

Riesco a vedere, se guardo, e anche
se non guardo, vedo fino alla profondità
dello scuro vedere, ma sempre, lo sguardo
si interrompe in un determinato punto incostante,
risorgendo e abbruttendosi nella riflessione.

E la luce non è luce,
il buio non è buio.
Il pensiero è un oggetto parlante
la realtà un pensiero anelante.

*

Sono stato e rimasto nei precipizi della notte.
Ho guardato i suoi colori, percorso la lunghezza dei suoi
silenzi.

Il brillio delle stelle innamorate della oscurità sospirante
immerse in quel segreto che le illumina
mi ha costretto a pensare quanto sia bello l’inutile guardare.

E dentro la notte mi sono fermato,
e la notte ha sporto il suo volto
e s’è messa a guardare, penetrando ogni peso o ragione
nel corpo del senso di ogni cosa invocante
tra stella e ricordo di quella stella
tra luce e assenza di quella stessa luce.

 

 

Franco Facchini è nato a Bologna il 30 novembre 1951. Nel 1992 si trasferisce a Trieste e poi a Zurigo dove ha risieduto fino al 2016, data in cui si trasferisce a Bellinzona. Ha pubblicato, oltre a diversi libri di filastrocche e opuscoli con artisti, i seguenti libri di poesie: In modo che niente (Edizioni del Leone 1988), L’attigua estremità del mondo (Novalis 1988), Nei cieli di niente (Campanotto 1999), Nella voce che mente (Battello stampatore 2001), Disperata e senza luogo, con un’acquaforte di Mimmo Paladino (Edizioni Sottoscala 2012). La Parvenza del vero è il suo ultimo libro.

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