Fotografia di Arturo Zavattini

La pace amabile di estesi spazi aperti, la cortesia velata della memoria e il garbo del silenzio a posarsi in un intreccio di parole: cosa misteriosa che accade nel più recente dono in poesia di Alfonso Guida (Il tassidermista, Terra d’ulivi edizioni 2022).
Densa riflessione che si prende cura, primariamente, della sorte: ciò che, per etimo, annoda e porta, stringe e preme; volto che contempla figure in caduta, ricomponendole in augurio; codice inalienabile della creatura, legge antica scritta in seno.
Entità ancipite, il destino è compagno arcano che scaglia e si fa scagliare: plasmato dalle azioni, ci plasma nelle azioni. Alfonso Guida, già lo asserisce in epigrafe, dedica allo scrivere il proprio avvincersi e scagliarsi: facendosi soggetto e oggetto del lancio, è scheggia che ritorna alla stele; e, nella tensione del volo, il dorso del reale si rivela, rendendo musica e verso ogni taciuta segretezza.
Postura prima, in Guida, l’enumerare senza inferenze: nel suo lasciar essere le cose, il poeta le accoglie in ampiezze quiete, opalescenti, e ne permette l’alterno definirsi e confondersi, disciogliersi e sovrapporsi, permeare il paesaggio in metamorfosi e ritorno. Essenze sfiorate in parole, fremiti: da crisalidi a podalirî, nel levarsi di un rito diafano, casto d’inesplorate limpidezze.
Sensitiva osservazione quella di Guida, che decifra il mutismo delle cose, nel loro recondito significarsi: nell’universo del poeta vanno i sensi primi e le esattezze a intrecciarsi come rizomi sotterranei, tra intime falde e ostinate vie di roccia: visceri ripidi, calcarei. A questo sfondo Guida sovrappone cronache soffuse di accadimenti terrestri dal sapore simbolico, in cui la parola fa esercizio spirituale di adesione passiva, estenuante al narrato, fino a disciogliersi in esso.
Ingenua e dispotica la poesia, come la vedova al giudice: batte e domanda. Chiede, da certe vite, di essere esaudita, e dà in cambio campi straniati, capre pazze di cicuta, la carezza sul viso del muto splendore dei morti. Il soffio all’orecchio dei poeti che precedettero accompagna, dando il volo del primo verso, la scandita metrica, le cesure del canto.
La cerimonia di un esilio silvano, pastorale, in entroterra ancestrali, in cui gli echi di una civiltà tossica e perduta, chiassosa in dispersione, giungono come onde allucinate, che frangono su rugginosi corredi medievali: scabre tuniche, celle e croci di spogli raccoglimenti, monachesimi scalzi, posati a selvatiche rese: nell’interminato violare e pentirsi, nel migrare stanziale dello spirito avvinto in scarnita preghiera, nella dura liturgia del ricordo.
Cieli che incurvano su di noi trasparenti i secoli, e ci premono il viso alla storia: in questi tempi, proni all’irrisorio, al futile strepito di un’agonizzante anamnesi di civiltà.
Guida vive in una conca di commiato, esile ed esiziale volontaria segregazione; esilio che pare visitato, nei pochi incontri, solo da figure archetipali, officianti: il barista, le anziane, la donna di cui si fa il nome, Vincenza, “stanca e invecchiata”, che ha nelle mani il “tepore antico di un dio”, la “nudità di un tacere incantato, privo di giudizio”.
E strane ruvide melodie si sollevano dalla natura. Endecasillabi di vento tra gli arbusti, assonanze barbare tra le case coloniche, le rade assolate. Un tempo rallentato e solenne, scandito da incursioni bibliche, il deliquio estatico dei salmi, la predestinazione del Siracide. L’ombra maestosa dei grandi maestri spirituali e sapienziali, dei martiri del sentire, perduti in poesia.
Negli acciottolati laceri di luce, tra i rami brulicanti d’ali, varchi e aditi palpitano spaventi alla mente eletta in intuizione; e sotto gli sterrati scabri, i marmi smunti dei santuari, rimbomba il sangue dei martiri. Nella silenziosa clausura, di fronte a ogni terrore, s’ingemma una lode di gratitudine, e ogni realtà si rincuora, alla presenza del poeta, nel volo del canto: sentire fiume, bere pioggia: come passivi greti, dilavati sassi, provare a dire sentori e visioni, tracce e memorie, nella cadenza del loro prender forma: il verso, il fraseggio, in prosa e poesia, s’affaccia con la stessa melodia accanita che divarica e benedice.
Sempre ritorna tenera, dispotica, la parola: suprema fiaba scura, la poesia di Guida si genera sconfinata, tra umori di fogliami, aride pietre, turgide vie d’acqua, e subitanei biancori nei sentieri trafitti di luce; sui brulli versanti, è una litania percorsa da apparizioni di “angeli fermi / tra le ghiande intorno al pozzo”, in cui il poeta è fodero e guscio, fa “luogo // alla parola incantata”, nel tardo acquietarsi del cuore, nel lume caldo della pena: “Quando la spina cadde / tutto il bosco si distese e la rosa / si votò al sacrificio”.
Patimento del percepire, che diviene enunciato sontuoso, presintattico, un movimento fluido e magmatico di riportati scenari, figure e condizioni, di cui il poeta tollera la compresenza facendosi custode, dando “luce alla parola”, con riguardo, con fiducia.
Il sentire crudelmente elegge, senza miopia, all’impervio fragore, lotta d’amore col reale: assedio silenzioso, il “mutare lento delle rovine”, i “fiori murati”, caparbi; così le campane, le candele, ferme in tenacia, a testimoniare il tempo. Quiete alta, scoscesa, “grido delle rupi”, “violenza dei voli”, negoziato bilico che s’incarna in verso, nel giaciglio della sera.
Il tassidermista è un artigiano dal profilo temibile, maneggia chirurgie di morte. Ferma la creatura con arte, ribadendola nella propria bellezza. Privandola del deperibile che umilia, la ruba alla linea del tempo: pur sapendo che il refolo dello spirito è già migrato nel verticale, nello scosceso irrevocabile.
Ma nulla va perduto nella grande giostra dei corpi e dei fiati, e ogni caduta si fa dono: il fragore della spiga che resta nel campo, che non attende raccolto né inventario; è capitolando che l’essere incarnato perde computo di sé e combacia col proprio intimo assoluto.
Non strapiombo, ma soglia di bagliori, è in Guida il limen tra chi si è dissolto alla storia e chi resta: un villaggio di pietre assolate, ipotesi di lentezza e repositorio di studio e riflessione, di preghiera: una quotidianità dedita, consacrata a letture vibranti e coltissime: i pensieri come contrade esili e remote, e attorno bastioni di colli ombrosi, cinta nobile e materna, robusta, “arcadia di torrenti” che fa astuccio e scrigno, rende votati e incuranti al defluire: “il tuo esempio di preghiera è / l’erba, il silenzio delle mani, quando / l’ombra si raccoglie e la morte sputa”.
Qualcosa geme, ma non è in materia, non in chiarezza; sottende al reale portando intangibile ferita: orditi e garbugli tra odierno e antico, eteree presenze, seri ritorni: il tempo è inganno, un automatismo del distacco: erpice ottuso, profano, che fa dell’andare fronte di dannazione, indugio di nostalgia: “Il tempo, creato / senza dio, stacca la terra dall’uomo”.
Adito a lande infere, l’imperfetto che tutti accomuna è fermo, geometrico: discesa salda è il peccare, diversa cura “muta verticale e serena”: tutto si capovolge, nel bilanciato gettarsi: recupero di sé che conosce e soppesa, lenisce. È marcata la volontà nello sporgere, da contorni d’ombra: “Noi amiamo la notte di questa volontà”. Il celeste conosce il cobalto, il filo sa il nodo, e Dio tiene in sé “la soglia, la natività dell’abbandono”. Ogni cosa si ribalta, invertendosi s’invera.
“Così incedo in basso ed è profondo il dio / che mi tiene, scendere senza inferno, / senza rotolare, in piedi, composto, / passo dopo passo, nel passo eterno, / nel passo perennemente mancante, / nel passo che inciampa e trova la sua meta a riva”: la sezione finale è isola di pace, baia di rena bianca, di chi ha riconosciuto e vissuto la pretesa dei corpi: un mattino che riconosce e ricorda, e, senza timore, nomina. Se le membra hanno le loro ragioni nel precipitarci, pur in reiterata, comune indegnità, diveniamo luminosi per carenza e difetto, per l’eterna privazione che delimita i contorni di ogni nostro amore: percorsi dal refuso, tenersi fedeli e interi, raccogliersi: sapersi, senza sgomento, nel dovere della gioia.
Marco Ercolani a proposito di Conversari (‘round midnight 2021) ipotizzava che per Guida ciascuna scrittura fosse “isola temporanea”, approdo precario, in quell’altalenare incantato di correnti e magmi che è il suo pensiero: Guida, come Ercolani, è inesauribile: coerenza sottile e altissima, strazio che indora persino il patito e il perduto, levando ogni lacrima al salmo: “La grazia è nel buio e la pazienza è il suo mattino. / Con quanta cura mostriamo la nostra carezza, / la voce nei massacri calcolati, una curvatura / di specchi”.
Guida sa e sa dire: creatura musicale, accompagnata e custodita nella parola, anima guarita che riconduce le cose a ritroso, in prossimità dell’istante antico che tutto nomina e accende: ponendone il tremito in riverbero, mima il soffio primo, l’irripetibile: impavido in trasduzione, riporta con linguaggio che mima l’identico, e comprime un genoma poetico vasto, d’ampie latitudini, nell’immagine potente, nel sintagma che graffia: passano i corsi d’acqua, si scavano i ruderi, s’accumulano le cronache degli anni; tra i visi segnati, l’addensarsi dei sepolcri; ma in questo frastuono disabitato capita, ogni tanto, un poeta.

*

Da Il tassidermista (Terra d’ulivi edizioni 2022)

GIDE

Ieri, sdraiati sotto la grondaia,
bevemmo pioggia. Ieri il grano era ricco e cresceva
sulle porte del paese, un gelsomino, il caprifoglio,
campanelli d’allarme a ogni passo. E le capre
giocavano, impazzite,
con le orecchie lunghe e la razione di cicuta.
“Ma i doni ricevuti, dissero,
noi non li abbiamo comprati”.
Ieri, sdraiati sotto la grondaia,
bevemmo pioggia. Ieri il grano era ricco e cresceva.

*

NON PIÙ SEGRETA L’ALBA

Nessun paese che suoni,
la pietra nel sale, il frutto che mangiano i grilli,
dove i morti di notte
traducono e, a turno, vegliano gli aratri. I lupi,
quei silenzi. Gli anni cadono avanti.
Tu vai e non torni. Chiami l’alba che ti raccoglie,
l’orto del primo vederci, la parola muta
nel mozzicone che vuol dire Vieni.
Sono qui, un dialogo intessuto di foglie.

Mi ospiti in segreto nei tuoi capanni,
la nuca ferma, l’odore di roccia
delle mani. Mi apri una strada e mostri
la natura serena. In un sorriso, i giorni si uniscono,
l’abbraccio, il gioco serio
del sesso quando mi lasci, improvviso,
a un cammino promesso.

*

Ciò che si ripete fino a trovare un’eternità,
dimora fissa del Mito.
Costruisci la figura, ne incidi i moti.
Vola alto l’astore. Qualcosa che resta sepolto.
La pietra è il porto.
La ventata dei lecci porta echi di voci.
Anni che svolano in un solo anniversario.
Malattia dei dittici, trifoglio d’autunno.
Le remore dei tronchi sono ombre e gli asili prodighi
svegliano            urla di bambini e albicocchi.
Come la prima volta
che mi accorsi degli aironi cinerini in transito
dal Bradano al Basento, e dei fuochi pastorali
di pentecoste. L’immobilità
delle carcasse sui torrenti, il tempo
dei cieli, assorte sentinelle, cose
piene di azzurro e di rocce.
Salda alle colline appare un’arcadia svuotata
I superstiti sono solitari
ed è “solitudine” la parola che esige.
Qualcosa di appartenuto a un regno, ora invaso dal vento,
unisce a “solitudine” la maestà brulla di una luce
dove solo i morti sono degni e rischiarano i giardini
nel cuore dei boschi, tra corone secche di lentischi.

*

GIUDIZIO ABBREVIATO

Tra chi si dissolve e chi resta, un soffio.

Silenzio, laceri i suoni, la pietra,
circondi di ombre le colline, trovi il riso
dei passanti, l’arcadia dei torrenti.
Nascosto alla pioggia di primavera
ti calmi, attendi un luogo, chiedi dove
Decifrarti.

Silenzio che fiorisci
tra le traiettorie dei morti, sotto gli armadi, allo specchio,
tra luci di lanugini. Alle quattro
doni due spighe al vento, non ti perdi
tra gli ulivi, smarrisci
la consistenza di zolla, incontri pomeriggi vasti
come il disegno dei gusci. La luna
di marzo prepara la pula e spala.
Ruota l’ora come il bacio di ieri, le labbra, la lotta.

*

CHARDIN

Il vuoto interno al viso delle maschere.

Il mondo delle porte.

Nelle spire il pudore s’intreccia al vizio, nei rifugi
contadini, un giorno di sole, le leggende sui morti.
Il bambino impara dal disegno a grappolo del fiore
(tante piccole mani) il nome e ripete: caprifoglio.

Ora la gioia balba
nella voce scura e tramortita. Ora
suona la grondaia. Il paese del passero
s’ingozza di luce. Il pioppo
scalza di un semitono
il mantice del vento.

*

Alfonso Guida (1973) vive a San Mauro Forte, è cultore di Beppe Salvia, Amelia Rosselli, Dario Bellezza, e Paul Celan. Alcuni suoi testi sono apparsi, tra le altre, sulle riviste “Poesia”, “Forum Italicum”, “La foce e la Sorgente”. Ha vinto i premi: Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte (1998); Montale con la plaquette Le spoglie divise [15 stanze per Rocco Scotellaro] (2002). Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche Il dono dell’occhio (Poiesis 2011); Irpinia (Poiesis 2012); Ad ogni passo del sempre (Aragno 2013); L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle 2014); Poesie per Tiziana (Il Ponte del Sale 2015); Luogo del sigillo (Fallone Editore 2016);  I penati (Gattogrigio Editore 2021); Conversari (Round Midnight 2021); il diario in prosa Diario del transito, disponibile in rete; le plaquette: Via Crucis, Note di terapia, Nous ne sommes pas les derniers; la presente raccolta Il tassidermista, è uscita per i tipi di Terra d’ulivi edizioni nel 2022. Cura la rubrica “Golpe” per la rivista Avamposto.

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