Fotografia di Alessandro Canzian

Così, fra il serio e il faceto, mi è venuto da stilare un microtrattato spinozante e wittgensteinianizzante di estetica del poetico ultracontemporaneo. Il lettore poco avvezzo alla filosofia classica, moderna e contemporanea mi scuserà, se può e se riesce. Il lettore avvezzo alla filosofia del postmoderno non riuscirà probabilmente a farlo. Ma non è mica obbligato.

Ma che cosa si intende con ultracontemporaneo?

Il concetto di ultracontemporaneità applicato alla poesia, che va preliminarmente esplicitato nell’ambito della presente rubrica di indagine estetica del poetico del qui-ed-ora, è apparso per la prima volta in alcuni articoli che sono andata pubblicando nel corso del tempo principalmente su Critica Impura, poi raccolti all’interno del volume Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi (Marco Saya 2017; ma c’è la collana Ultracontemporanea di Quodlibet dal 2015, successiva comunque ai miei primigeni usi del termine; e lo si usa, variamente, in ambito architettonico e del design); tuttavia, il concetto campeggia per la prima volta sulla copertina di un mio libro nel sottotitolo dell’antologia La parola informe. Esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità (Marco Saya 2018), all’interno della quale vi si discute l’istanza di fondo così: “In una conversazione privata, Ennio Abate mi interrogava sul senso del medesimo in questi termini: «si definisce poesia ultracontemporanea solo perché ‘degli ultimi dieci o vent’anni’? Ma il concetto di contemporaneo, soggettivo e instabile come tanti altri, varrebbe allora per il periodo che precede gli ultimi dieci o vent’anni? Qual è, cioè, il senso di questo aggettivo (ultra…) o della periodizzazione che esso stabilisce nel campo della poesia? Cioè con l’anno Duemila saremmo entrati in una nuova epoca? Tutto da dimostrare». Io rispondevo, in quel frangente, che il concetto di ultracontemporaneo è molto più intuitivo del concetto, ad esempio, di postmoderno; che non si tratta di un categorema epocale, ma di un concetto che restringe la ricerca critica all’ultimissimo periodo della produzione poetica, fino a cadere nell’immediato qui-ed-ora o, per così dire, nell’iperattuale; che si tratta di una neoformazione coniata in via ipotetica e con funzione meramente indagatoria; e che il neologismo ha, nella sua forma, una semplice funzione estetica, giacché anche in critica letteraria l’occhio e l’orecchio vogliono la loro parte, essendo l’aspetto esornativo del linguaggio una delle poche acquisizioni condivisibili del costruttivismo linguistico” [La parola informe, cit., pp. 9-10).

Ultimamente si è tentata da altre parti una definizione similare tramite il concetto di poesia iper-contemporanea (si veda l’uso che se ne fa nell’ambito del progetto Polisemie, nel quale avverto un’eco). Altri tentativi definitori si fanno e si faranno in futuro. Tuttavia, bisogna osservare che sul piano meramente metodologico, un categorema definitorio come il mio o quello di altri deve sempre tenere fermo il rischio della decadenza chimica nel canonico, che va assolutamente evitata. Giacché, come sostenevo già diversi anni fa, un canone “è sempre frutto di una parzialità” ed “è principio autoescludente, perché ci sono generi e stili che rimangono “fuori” per forza di cose” (Da che verso stai?, cit. pp. 35-36), in quanto non si potrà mai ottenere idealisticamente l’onnicomprensività, e allora bisognerà, di volta in volta, fare i conti con i gusti del curatore o del critico di turno; ma anche perché, in definitiva, “il canone è la morte del sommerso, la masochizzazione della critica e l’oppio del lettore” (Ibid. , p. 32).

Il canone è la morte del sommerso, perché fa emergere solo i salvati o coloro che salvi erano già fin dall’inizio e si affida più al nome di turno che alla prassi salvifica della critica testuale; è la masochizzazione della critica che si fa del male da sola perché spesso, per suo tramite, essa si riduce a strumento di blandizie del nome di turno oppure, ancor peggio, a mero ufficio stampa; è l’oppio del lettore, perché il lettore si riconduce all’emerso completamente ignaro delle tante voci rimaste sotto lo strato impedente dell’inconoscibilità in quanto non sufficientemente avvalorate dalla prassi ermeneutica e dalla diffusione sui canali di comunicazione; sul cui operato però grava, peraltro, anche la colpa contraria, ovvero quella di diffondere testi poco validi a mezzo di una scarsa scrematura. Ciò evidentemente accade a causa del latitare della figura del critico, che spesso, se vero e proprio critico letterario, si esime dall’operazione di scouting di nuove voci interessanti perché troppo faticosa o poco proficua oppure, se critico improvvisato come troppe volte si legge in giro, non possiede ab origine gli strumenti critici, ermeneutici ed estetici per dipanare il valore di un testo dal marasma indistinto degli aspiranti autori, dei poeti della domenica; ma questo è un altro discorso, complesso e spinoso, che riguarda la crisi odierna della critica letteraria sorta in seguito al proliferare delle riviste amatoriali e dei lit-blog, del quale si tratterà magari più avanti in forma più distesa.

Qui, quello che ci preme è intendere il concetto di ultracontemporaneità, come si diceva, come un mero strumento di indagine estetica e critica che si svincoli da qualsivoglia impeto di cristallizzazione del panorama circostante in un canone e che si utilizzi tenendo fermo il principio della provvisorietà e dell’ipoteticità di fondo. In questo senso, More Geometrico Demonstrata utilizzerà di volta in volta le armi dolci dell’ironia e quelle taglienti della filosofia. La forma è spinoziana, richiamando beffardamente la struttura dell’Etica more geometrico demonstrata; ma il contenuto è wittgensteiniano, giacché si tiene ferma la certezza dell’incertezza, la consapevolezza che la critica, come la filosofia, “lascia tutto com’è”, non costruisce Massimi Sistemi bensì li decostruisce dal loro interno setacciando i molti strati del testo attraverso principi resi il più possibile espliciti e funzionali all’indagine di turno.

In questo senso, potrebbero concretamente infastidirsi i simpatizzanti del grande inganno del postmoderno in quanto tale, categorema che negli ultimi anni ha imperversato in ogni campo dell’umano scibile ponendosi come presunta cartina al tornasole di qualsiasi fenomeno in fieri, ancorché non ci entrasse nulla; da cui il profluvio di “studi del postmoderno”, definizioni della “letteratura postmoderna”, dell'”arte postmoderna” eccetera. Diciamolo subito e in via preliminare: il postmoderno non esiste. Il termine, lo si ricordi sempre, era stato coniato da Lyotard come semplice “ipotesi di lavoro” (J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 2010, p. 9), un po’ come facciamo noi con il termine “ultracontemporaneo”: è dunque ben lungi dal doversi considerare come una categoria aristotelica all’interno della quale ordinare il reale multiforme che abbiamo davanti agli occhi. Allo stesso modo, “ultracontemporaneo” non esiste: è un’ipotesi, nient’altro che un’ipotesi, e si potrà dare nel postumo solo come tale.

Ultracontemporaneo è quindi, tentando una definizione provvisoria, l’osservabile del qui-ed-ora nell’atto stesso del suo svolgersi, il quale può essere osservato, indagato e (parzialmente) definito sempre e solo considerando il principio di Heisenberg in base al quale “ogni volta che si osserva il moto di una particella, se ne influenza la traiettoria in modo tale che un’osservazione oggettiva del fenomeno si rende impossibile” (Da che verso stai?, cit. p. 36). Da questo principio deriva l’inconsistenza di qualsiasi canone, comprese delle antologie, a meno di non considerarle, giocoforza, lyotardianamente come mere “ipotesi di lavoro” (e in questo senso le intendo io). Da ciò deriva anche, e sia detto con ironia, che il problema non è tanto Lyotard, quanto i lyotardiani.

In direzione di un’approssimazione definitoria sul piano cronologico non ritengo valida, per l’anticanonismo di cui sopra, il riferimento alle ben note antologie uscite negli ultimi vent’anni, come quella dei Poeti degli anni 0, uscita nel 2011 a cura di Vincenzo Ostuni e le altre più o meno coeve, più o meno accademiche o militanti. Nemmeno si potrebbe, a mio parere, tentare di delineare per l’ultracontemporaneità un terminus ante quem relativo a quegli autori e a quelle poetiche identificate esemplarmente in negativo dalla loro sparizione. Per variabili vicende della vita, poeti come Domenico Ingenito, Omar Ghiani o Andrea Ponso, ad esempio, non pubblicano un libro di poesia da un po’. Ma questo potrebbe non essere fattore discriminante: è il caso di Matteo Fantuzzi, che dopo Kobarid ha fatto uscire un’opera meritevole dopo diversi anni quando già lo davamo per vittima della Dissipatio Poetae Generis (fenomeno che in Da che verso stai? chiamavo Dissipatio Auctoris). In questo senso, diffido molto di poeti e poetesse che pubblicano libri a macchinetta; come sostiene spesso il nostro Christian Sinicco, questo comportamento sovraesposto non fa bene alla poesia. Allo stesso modo, diffido da sempre delle antologie generazionali, le quali hanno il grave difetto di sommergere le poetiche individuali proprio nel momento in cui l’unico criterio coagulante tra autore e autore è l’anno di nascita. Le ultime uscite in questo senso, Planetaria. 27 poeti nati dopo il 1985 di TAUT Edizioni e Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello per Ladolfi Edizioni posseggono ambedue questo difetto, comune a una mera impostazione catalogica in base a un criterio pre-suntivo, nonostante nelle premesse si chiarisca bene, in modo molto onesto, che si tratta evidentemente di una parzialità.

Il qui-ed-ora si occupa, piuttosto, del testo più che del nome. Per questo, a ogni puntata, proporrò variamente testi esemplificativi di quanto vado dicendo, giammai pretendendo l’esaustività e mai propendendo per la partigianeria. Componimenti di autori di recentissimo interesse, che hanno pubblicato poco o niente finora, si candidano a definire l’ultracontemporaneo anche in funzione del tentativo ravvisabile nelle loro poetiche personali di fondere l’istanza comunicativa con quella di una ricerca formale serrata e personale. Si tratta di autori del qui-ed-ora in attuale fase di emersione dal sommerso come Antonio Francesco Perozzi, Adriano Cataldo, Diego Riccobene, di cui poniamo in calce alcuni componimenti in funzione puramente esemplificativa, rifuggendo da qualsivoglia tentazione tassonomica e lasciando al lettore il compito di ravvisarvi l’allontanamento da stilemi ancora novecentisti come il puro e semplice lirismo (al massimo, nei casi più illuminati dell’oggi, posto spesso nella forma di uno stucchevole neoermetismo di maniera) e il tentativo di vivisezionare sul piano linguistico, lessematico ed estetico il categorema stesso di poesia di ricerca (che ormai, detto per inciso, lascia anch’esso il tempo che trova: la poesia, come ho già detto altrove, non è né lirica né di ricerca: è una). Il citazionismo voluto, specialmente nei testi di Cataldo (che spesso gioca con i rimandi letterari) e di Riccobene (in cui lessematicamente la prevalenza di arcaismi possiede una funzione straniante rispetto a qualsiasi classema) manifestano la comune intenzione patente di tentare una propria poetica differenziale anche e proprio in virtù della citazione, nella piena consapevolezza che tutto è stato detto e tutto è stato scritto; e allora, per esprimersi, occorrerà rinnovare gli schemi proprio a partire da essi. Ed è solo la ricerca di una poetica differenziale che parta da questa consapevolezza, a mio avviso, il criterio migliore per individuare autori e testi dell’ultracontemporaneo, via via nel loro rivelarsi nell’indagine e nello scavo. Qualsiasi altro indugio, diciamolo in modo definitorio e definitivo, a mio parere cade nel puro e semplice epigonismo.

Antonio Francesco Perozzi, Lagunare

Ci bagniamo nella laguna per
non riconoscere più la specie
diversa della pelle/del liquame/
degli stomaci/delle squame che
si fanno sulle onde se il vento

Quando scegli l’immersione/la
morte per acqua/lo sfaldamento
dei fuochi fatui dell’illusione, la
laringe idrica rintraccia
chiazze d’ossigeno sul fondo

La pozza colata dalle esse
delle colline stagna, ora che
Giove guida l’eclittica; poi
la consunzione diurna/il caos/
asciugandoci noi ricomporci e

piangere il vizio/lagunare

Adriano Cataldo, Un tempo era la pagina bianca

Un tempo era la pagina bianca.
Oggi, diverso il supporto, intatto l’abisso.
Presente ovunque,
il consentito è un dissentito dire.
Oggi è quarantena ovunque
e noi giochiamo e siam giocati
che è come dire “la condanna d’esser nati”.
Oggi siamo gettati ovunque,
e ci sorprende quanto abisso
porti in dono ognuno
per non esser stato cittadino.
Oggi si guarda,
mentre dorme quello spirito guerriero
che dentro è ruggine.

Diego Riccobene, Seppur prestante, in dodici lo legano

Seppur prestante, in dodici lo legano,
intricano quintuplice brachiere
intorno al nocchio tra mascella e collo;
lo piega l’ebetudine
dell’acre vino misto nel solstizio
dall’uva fulva e acerba,
ancella quando oziose mezzanotti
s’insediano tra i vomeri del lurco.
Domandano se incusso sia un principio
e sfrondano e percuotono, quei dodici,
vi scavano molteplici ferite
con pertiche di vischio, poi lo scuoiano:
la fibra sopra il desco giace esposta
e presto la si brucia, quindi sfregano
corniolo sulla cortice,
che i roghi s’alimentino gemelli.
Il cerchio in nome della Dea dell’orzo
tra la verzura aulente in medio giugno
bandisce un lauto pasto
offrendo carni dell’infanticida
affumicate e sbornie d’idromele.
Ma non chiamate questa la giustizia
d’Arcadia. Onesta quercia,
sei invero meno infetta di noialtri
che irridi in morti cicliche e battesimi?
Le tue radici affondano
all’infero e banchettano sui resti.

Nella prossima puntata, dopo questa necessaria premessa concettuale e metodologica, tenteremo di dare una definizione di poesia dipanando la differenza teoretica ed estetica tra forma e contenuto, penetrando cioè nel vivo della vexata quaestio dello scarto vigente tra prosa e poesia attraverso l’analisi della proposizione n. 1 che trovate qui.

Questione, come dire, davvero molto Spinoza.

 

 

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