Poesie tratte da Inondazioni (Capire edizioni 2019)

 

(Chiedono allora: “E gli stranieri? I pesci tra voi
di lingue diverse?” – io taccio, mi verso dell’acqua.
“Fateci restare qui, lasciateci perdere tra loro”.)

Il bisonte

Via serba delle armi, strada azzurra dei rifiuti, crocevia di spilli:
la massa scura avanza; si ritira attorno gonfia d’aria
la terra, le mosche nere e le mosche bianche senza occhi
si cercano nell’ombra raggrumate dalla fame; è compatta e marcia,
ingrossata dalla pioggia, bucata dalle formiche minatrici.

È il bisonte che temevi e ti cerca.

Piano scioglie contro il sole dal suo corpo di fango
le forme: è fatto di pelle incrostata, carne molle
sulle ossa e di ciglia e capelli con punte spaccate in due,
forfora e narici chiuse dalle allergie, e peli biondi
seminati sulle schiene, sulle pance, e menischi che si agitano
come sonagli, aliti invecchiati, vescicole che divorano le labbra
dal giorno della partenza, unghie non tagliate da settimane, e intestini
e di escrementi, dentro agli intestini e intorno e a ogni sosta. Ha orologi
col cinturino slabbrato, e fedi portate sullo stesso dito, flaconi
di shampoo, aghi e qualche filo, petali che continuano a seccare
in mezzo a due pagine in un libro, la fotografia di lei felice, il portagioie
della camera da letto, pettini di rame, spazzolini, e specchi, e medicine.

Il bisonte avanza e tu arretri.

Questi non sono poeti, ma sono poeti; non sono esploratori, ma sono
esploratori. E maghi, sarti, ceramisti, dottori, il piastrellista ti avrebbe
chiesto la metà del prezzo, e maestri con l’abaco nascosto dentro agli stivali,
Qabbani arrotolato nelle calze, recitato a un equipaggio di mogli.
Portano i ricordi e il dolore dentro a un sacco bianco di cotone,
appeso in cima alla fiumana, come una vittoria; lo romperanno
a Carnevale, con le scope e con gli occhi bendati. Grande è la distanza
che dalla marea li separa, e grande è il pianto. Qualche volta il riso
come uno scroscio di ali vaste di gabbiani dalla bassa fila si distacca,
qualche volta il destino sorge in mezzo a loro come un’ave Maria.

Il bisonte avanza e tu arretri.

La vecchia che ha perso tutti i denti meno cinque, intagliata di sughero
e di argilla, lungo il fiume ignoto di fango e di spergiuri si ferma, con le mani
allo sguardo fa un nido: quelli si strappano un materasso, lo agganciano
a una tenda e due corde; lei è già sopra l’altra riva, alza al cielo di pane
le palme: può applaudire la massa, può scomporsi in una festa fluviale.
Anch’essi conoscono allora la felicità, com’è fuori dal viaggio, l’istante
che la vita come un’anguria si spacca e ognuno crede di poterne bere.

Il bisonte avanza e macina respiri. Tu arretri.

La giovane allarga le gambe in mezzo all’erba, si fissa le punte dei piedi,
ha la vescica gonfia ma le cade un figlio: un altro, a questo mondo.
Il sedicenne che ha una gamba sola cammina accanto a un altro, insieme fanno
un cavalletto a tre assi e pensa di potervisi posare l’uccello con l’iride di sangue
che segue o guida i morti e la colonna, per questo gli fa ombra.

Tu arretri. Il bisonte si sgretola, si frammenta, si sformica.

Sono meschini, sono vigliacchi, possono portare coltelli minuscoli
dentro alle tasche, svariati Cristi camminano tra loro e qualche raro
san Michele, allevatore di galli scampati ai combattimenti, si trascina dietro
gabbie basse impagliate su ruote; sono gentili, sono luminosi, venderebbero
una sorella per dieci olive mature, un formaggio stagionato, darebbero la vita per te,
il loro dente d’oro, quello marcio; nel sole si proteggono gli occhi, che si fanno
a tutti verdi, o azzurri, acquosi in qualche modo, trasparenti; sono come i loro
occhi, sono timidi come bambini tra i riflessi della neve, sono bugiardi.

Arretri. Il bisonte scoppia, prima del giorno.
I germi lo muovono nella pelliccia disfatta.

La massa si sposta come un confine marrone, una ferita infetta, produttiva,
e dentro ha un villaggio di ciclamini, bouganville ad ogni angolo che esplodono, e frasi,
e sono frasi che dicono questo: Cuore mio, non è il freddo, cuore mio, la spiga
che ti punge; oppure, per esempio, non lasciarmi amico mio, fino alla fine
dei giorni, fino alla fine dei pesci dentro al mare; non raccogliere il ragno
da terra, non toccarlo e non distrarti, tienimi la mano; e le parole sono come
case, le parole si arrampicano come edera sui tetti, e le teste sono i loro tetti,
le piaghe di stormi che aprono il cielo, le albe color di mandarino. Il torrente
di pani ammuffiti lasciati sul fondo e di costati senza fori e di bocche senza indirizzo
sopra tutto ancora avanza, è una notte, una belva che nuota a inghiottire ogni nome.
Ed ecco, uno tra loro che è un bambino ti porge il piede: allacciagli la scarpa.

 

***

 

Il perdono

Come ho avuto ciò che mi dai tu.

Avrò amato a sufficienza?
Avrò dato l’acqua ai gerani,
cambiato sempre quella nella ciotola del gatto?
Avrò imparato a memoria i cipressi,
i soldati e i loro fratelli, non una copertina
con l’orlo offeso? Neanche una stagione che si senta
con me risentita? Nessun grazie
è mai stato omesso? Mi ha perdonata il corpo
per il trattamento, e gli uccelli al davanzale
per l’assenza di briciole, così grande si è estesa
la misericordia? Di quante mie cure
è stato il mondo difettoso? Strappavo
insieme ai giorni i fiori, mal imparavo
a carezzare, ho ignorato nomi, date e tempo,
e il volto unanime dell’uomo,
la forma sua unica degna di amore,
lasciarla fluire negli scoli per la pioggia:
dunque tutto ad ogni modo mi è rimesso?

Dentro al tuo abbraccio sconfina la grazia.

 

***

 

Vicino a un fiume
“Sisi sarà il nostro Pinochet”

I figli non torneranno. Il riflesso nelle tazzine sopra la mensola
continuerà a rotolarsi come una biglia polverosa. Le madri
sempre arrivano, a strofinare uno straccio. Ma questi figli
non torneranno. Piatto come un lago, il pane è sopra il tavolo e li aspetta,
e questo pianto che piango non è il mio mentre lo piango; io lo so,

da qualche parte, vicino casa, le eriche germogliano i loro
amari fiori; da riva a riva, i nomi ancora muovono
un’assenza di schiume minute, e un bambino sopra il fiume mezzo nudo
pesca e ride pesciolini verdi da cuocere all’amianto; tra due mani
ci sarà ora, ora, una gioia rotonda da nascondere al vento.
Io so che adesso è altrove, e sempre, il rimescolio delle albe silenziose
e degli eterni cominciamenti. Sull’uscio i destini si precipitano dal mondo
come lingue di mare pazienti, a chiederci una speranza, un rumore
di chiavi nella toppa. Ma noi faremo piano, e non ci sentiranno.

La porta resterà infossata nella pietra di calcare e di formaggio
fino a che i figli non torneranno. Io lo so, ascolta, sul fondale un ramo viola
per solleticargli la pianta dei piedi si allunga, mentre qui parliamo
delle loro risa spente, e degli occhi nei ritratti, i fazzoletti un minuto
prima di adesso arrotolati nelle bocche, il latrato che ha diviso
in due metà perfette il cielo che è un quadrato, e poi l’adesso, ti dicevo: il ramo
per giocarli di nuovo, e i fiori, da qualche altra parte. Scrivi al comandante
che cuciono un lenzuolo per coprirli: ricamano sugli angoli stirati all’infinito
di queste e di altre felicità. Scrivi al comandante della congiura delle loro madri.

 

Valeria Cagnazzo nasce a Galatina (LE) nel 1993. Dopo la maturità classica, si trasferisce a Bologna, dove si laurea in Medicina e Chirurgia. Viaggia in Palestina, della quale scrive per l’agenzia di stampa online Nena News Agency, anche sotto pseudonimo, su blog e nel libro Ci conducono gli ulivi, e come medico in Grecia, Libano, Etiopia. Nel 2018 vince per la sezione Inediti il premio di poesia Elena Violani Landi dell’Università di Bologna e il premio Le Stanze del Tempo promosso dalla fondazione Claudi. Collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. Sue poesie compaiono sulla rivista Poesia Crocetti Editore e online su Poesia Ultracontemporanea, Critica Impura, Laboratori Poesia, Inverso Giornale di poesia. Inondazioni è la sua opera prima.

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