CONFINE DONNA – XIX PUNTATA

Qual è stato il confine che ti ha segnato di più, cambiandoti, quello dal quale hai sentito di non poter più fare ritorno?

Il confine culturale. Nell’atto di allontanarsi dall’oggetto, si acquista una prospettiva diversa. Più ampia. Lontana dalla cultura in cui sono cresciuta, l’ho vista con altri occhi. Ho attraversato diversi stadi, che intuiscono come tipici dell’immigrato. Non si tratta di un’evoluzione, di stadi necessari, qualcuno ne sperimenta solo uno per tutta la vita. Gli stadi sono di tre tipi.
Il primo è quello romantico, in cui il paese d’origine è il paradiso perduto, perfetto o quasi, in cui si stava bene anche quando si stava male. Di contro, il nuovo paese è quello della distanza, delle difficoltà. Dell’integrazione. Si ama il primo, si detesta il secondo. Si esalta il proprio popolo, in un gioco identiario che esclude gli altri per fortificare il senso dell’io.
Il secondo stadio è quello del disincanto. La distanza ora assume il ruolo di lente di ingrandimento, mette in evidenza i difetti del paradiso perduto che si trasforma, nei migliori dei casi, in un purgatorio. Loro, il popolo lasciato è detestabile, si amano gli altri, il popolo che ti ha accolto, il nuovo, che, in ultima analisi, è migliore. Per meritarsi l’accesso in questo mondo, bisogna somigliare agli altri, essere riconosciuti e accettati. Si finisce per scimmiottarli come attori di un teatro dell’assurdo in cui non avviene mai la metamorfosi.
Il terzo stadio è quello della sintesi, delle dimensioni reali, dell’ammettere che non esiste la perfezione da nessuna parte, che non c’è un meglio o un peggio, ma solo una questione di opportunità. Si può raggiungere questo stadio solo nel momento in cui si elabora il lutto della perdita di quell’io cittadino del paradiso perduto, smarrito poi nell’iniziale inferno dato dalla lotta al riconoscimento.

 

La traversata

Tu dormi bambina,
Il buio s’avvicina.

C’è puzzo di benzina e di sudore,
L’aria è gravida di paura.
E se fuggire fosse un errore?
Meglio calibrare l’andatura.

Tu dormi bambina,
Il confine s’avvicina.

C’è terrore negli occhi dei grandi,
La piccola la lasciano dormire,
Si fanno avanti loro, si fanno avanti i padri.
Ma non c’è modo di farsi capire.

Shhh, non ti svegliare bambina,
Quello non è il futuro che si avvicina.

 

Irina Turcanu è nata in Romania e vive in Italia dove si è laureata in Filosofia presso l’Università di Milano. Ha collaborato con diverse testate nazionali e provinciali. Ha lavorato come editor per diverse case editrici. Alcune sue poesie sono state pubblicate in antologie e si è classificata terza al concorso “Lingua Madre” e prima a “Scrivere Altrove”. Ha curato le antologie Ritorno a casa (Ciesse Edizioni), Io scelgo (Rediviva Edizioni), e ha tradotto in romeno Musica per lupi (Marsilio) e Ozon Generation (Rediviva). In italiano, ha tradotto Le giovinezze di Daniel Abagiu (Ciesse Edizioni). Ha pubblicato i romanzi Alia, su un sentiero diverso (Seneca Ed.); La pipa, Mr. Ceb e l’Altra (Ciesse Ed.), La frivolezza del cristallo liquido (Absolutely Free); Rigor Artis (Absolutely Free). Attualmente collabora con SulRomanzo e lavora, come ufficio stampa, per Parallelo45 Edizioni.

 

La rubrica “Confine donna: poesie e storie d’emigrazione” è ideata e curata da Silvia Rosa

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