CONFINE DONNA – XVI PUNTATA

Qual è stato il confine che ti ha segnata di più, cambiandoti, quello dal quale hai sentito di non poter più fare ritorno?

Tornata per un mese in Argentina, un amico mi fece notare che io parlavo in spagnolo ma facevo le domande come si fa in italiano, con quella intonazione, cioè mettevo l’accento alla fine del periodo, a differenza dello spagnolo che enfatizza l’inizio – “qué” – con il segno rovesciato interrogativo. Un accento che ha segnato il passaggio mentale a un’altra lingua. Poi sognare, sognare in italiano è stato l’altro momento in cui ho sentito di aver oltrepassato un valico. Non ho mai più sognato in spagnolo. Come dicevo sono stata un’immigrata privilegiata, non dovendo soffrire né code per il permesso di soggiorno né l’angoscia di sentirmi clandestina. Comunque devo aggiungere che non ho mai sentito il richiamo degli antenati, siano italiani, siano argentini. Mi sono sentita sempre apolide, nel senso di non credere molto alle radici. Si nasce in un posto piuttosto che in un altro e questo determina parte della vita di ognuno. Se i miei fossero arrivati in Brasile tutto sarebbe stato diverso e la mia “patria”, la mia squadra di calcio e la mia tifoseria per un paese sarebbero state altre. Quasi provo invidia di chi si sente appartenere a qualcosa: religione, paese, lingua, storia. Invidia e compassione perché a volte è escludente e impedisce a molti di godersi la conoscenza dell’altro. A casa mia si mangia cus cus e si beve mate, si impara l’arabo e si parla in tante lingue. I miei amici vengono da tante parti del mondo e lo stesso era in Argentina. Non posso dire di aver sofferto la discriminazione (bianca, laureata, passaporto italiano, che vuoi che possa metterti all’angolo?), ma ho visto negli occhi degli amici non bianchi la tristezza di sapersi sempre in pericolo. Ora più che mai. In spagnolo c’è una bella parola: desarraigo, sradicamento, che vale sia per le piante che per le persone. Io pianto radici con le persone, non con i luoghi, nonostante Trento e Italia siano parte del mio stare bene, del sentirmi a casa. Ma mi sento a casa davvero quando sono con la gente che amo, che rispetto, sono lì le mie radici, in mezzo alle persone, con le persone.

Al bivio
della sorte
Di là (a destra?)
camminare in
punte di piedi
con le scarpe
in mano
nel silenzio
di una dissoluzione
che rasenta
l’oblio
Di qua
A sinistra?
Un destino
sfuggevole
ramingo
pieno di parole
da inventare
Di qua
le ombre
minacciose
dell’idioma perduto
Di qua
un buio
accecante e muto
Di là (a destra?)
I cani che abbaiano
in solitudine.

Lidia Palazzolo è nata a Buenos Aires. Antropologa, dal 1987 in Italia, vive a Trento con un cane e una gatta. Scrive, cura le sue piante e i suoi vicini. In Argentina è stata premiata e pubblicata in un’antologia sui diritti umani alla fine della dittatura Primer concurso literario 1984 Derechos Humanos, e poi nell’antologia Escritoras argentinas entre lìmites. In Italia compare in Anime in viaggio, 2001, primo premio del concorso organizzato da Eks&Tra; nella raccolta a cura di Maria Rossi Parole di frontiera e in Ai cofini del verso a cura di Mia Lecomte.  Suoi testi appaiono in diverse antologie e sulle riviste di letteratura online Sagarana e El-Ghibli.

 

La rubrica “Confine donna: poesie e storie d’emigrazione” è ideata e curata da Silvia Rosa

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