Dalla presentazione

La silloge poetica La città delle mosche narra la terra natìa dell’autore, la Calabria. Il libro si apre nel contesto dello scontro tra gli elementi negativi (la ‘Ndrangheta e la politica corrotta) e i  vinti (il popolo calabrese), tutto in chiave metaforica: l’opera narra di mosche grandi che producono merda e di mosche piccole alle quali piace viverci dentro. È un chiara dimensione di convivenza e sconforto che produce un sistema clientelare e malsano per ogni abitante della “Città”. L’autore, che ha vissuto i suoi primi vent’anni nella locride e che ha organizzato eventi contro la ‘Ndrangheta, descrive la decadenza e l’abbandono non ad opera di forze sovrannaturali o biologiche, ma derivanti da una cultura mafiosa ormai radicata ovunque, divenuta insensibile a ogni forma di evoluzione positiva. Il libro non parla solo ai calabresi, ma si rivolge all’intero sistema italiano ormai stretto nelle maglie di una corruzione perpetua e del clientelismo asfissiante. Il libro si compone di tre parti: le prime due narrano in forma poetica della “Città” e dei suo abitanti, mentre la terza parte è costituita da un racconto dal tema molto “banale” (faida omicida per amore), ma assai controverso nella sua conclusione, che rimane aperta alle interpretazioni del lettore. Questo è uno dei primi libri poetici a soffermarsi interamente sul problema della ‘Ndrangheta.

 

Da La città delle mosche (Gilgamesh Edizioni, 2017)

 

Le mosche sono commensali.

Come donne rinchiuse in bozzoli
e tormenti.

<<E la vitti a la missa chi jìa,
chi natichitundi e chi minni c’avia.>>*

Nell’astro dei cieli, il cuore strappato –
il cuore strappato.
Sei tu:
gelida/tenera come bianco languido
gelsomino. Il corpo t’appartiene.

Grida se puoi.
Sei tu: né
vanto né
salsedine o cipolla tirrenica:
dinastia vaginale, ecco cosa sei.

<<Pruté!>>**

Fìmmini.

* Verso ripreso da un’antica canzone popolare. In italiano: E l’ho vista andare a messa, che culo tondo e che grandi tette che aveva.

** Verso usato dai pecorari per richiamare le pecore. Un altro è scité (o qualcosa del genere – molto difficile da trascrivere)

 

++++

Ci sono mosche piccole e
ci sono mosche grosse.

Le mosche grosse le
trovi tra i santi e gl’araldi
a divorare con novizia.

Le mosche piccole designano,
costrette;
a volte per un permesso,
a volte per due permessi.

Le mosche grosse ridono, sviluppano
patti e congiure.

A discapito di ognuno.

<<Ndannu a testa frisca.>>*

Il popolo.

Ci sono mosche piccole e
ci sono mosche grosse.

Le mosche piccole durano meno.

Le mosche grosse e
le mosche piccole
nascono già imparate.

Cosa fare.
Cosa non fare.

Non è questione di veggenza:
è pura sopravvivenza.

Hanno la testa fresca. Anche questo è un detto popolare che significa avere la testa senza pensieri e preoccupazioni. Simile alla napoletana capa fresca.

 

++++

Nella città delle mosche
c’è l’arte di collezionare mosche.

Nella città delle mosche
qualcuno cunta* le formiche schiacciate
sul tavolo e perde affetto.

Nella città delle mosche
unicamente la merda ha valore,
funzione, diramazioni, semafori.

Nella città delle mosche
ci sono file di foto segnaletiche
tristi tristi.

Nella città delle mosche
c’è il sangue, l’agglutinazione sociale,
l’assenza dell’interrogatico perché.

Nella città delle mosche.

Conta. Voce del verbo contare.

 

++++

Dillo vigliacco:
‘Ndrangheta = merda.

<<Me cumpà,
i guai da caddara
i sapi a cucchjara
chi i mìscita.
Non affendìri
u pani chi mastichi.>>*

Non dite niente.
No.
Nessuno sa niente.

* Mio (caro) compare, i problemi della pentola li conosce solo il mestolo che li gira. Non offendere il pane che mastichi. Sono due detti popolari. Il primo significa che i problemi li sa solo chi li ha. Il secondo, invece, è detto inventato, ma ripreso da quello famoso non sputare nel piatto in cui mangi. Quindi: non tradire chi ti aiuta o ti sostiene.

 

++++

Qui si scanna per uno sguardo
bieco,
per l’onore di un piccolo seno
d’oliva
violato,
per un gesto d’amore – tra
le cosce, le serve –
qui si ammazza.

Come se fosse dovuto.

E pace agl’esseri di buona volontà,
ai castagni in fiori zuccherini,
alle Madonne salate –
capofila:
il capo branco.

Ogni festività. Rispetto.

 

++++

La disperazione
ha forgiato
le scapole
lo spirito
la morte.

La pietà ha scelto altri
condomini per esprimersi.

L’intelligenza ha la veste
del suicidato.

La noia: quella dell’universo.

Ed ecco il grande silenzio,
sotto chicchi di grano splendenti,
organi trafugati e
un essere senza più viscere
né pianti di servizio.

 

++++

Poi un segnale,
un lampo divino,
una segnaletica crivellata –
benvenuti a –
pazienza.

Nessun luogo di merda
può essere identico all’altro.

Anche se qui l’immondizia sconvolge
le mura di case e parenti.

É il cattivo odore
di ogni ingrediente a
farne una torta.

É una questione di
cognomi e dinastie e
alimentazione scorretta.

 

Benny Nonasky (1987) è calabrese, ma da alcuni anni risiede a Torino. Presente in diverse antologie in Italia (Fili di Parole, G. Perrone Editore; Chorus, Ibiskos Edizioni) e all’estero (finalista al 50esimo Festival d’Atene), è poeta, attore e scrittore di teatro. È stato cofondatore della rivista online “Trasumanar” e gestisce un blog dedicato alla poesia, con video-letture e recensioni (venerdidipoesia.blogspot.com). Ha pubblicato: la silloge poetica La città delle mosche (Gilgamesh Edizioni, 2017); l’antologia poetica The tears of things, (Berkeley,California, 2013) tradotta da Jack Hirschman (2012); la silloge poetica Imàgenes Trasmundo (Albeggi Editore, 2010); un quaderno poetico intitolato Vestito a nozze, carne e trenta lamette (GDS Edizioni, 2009); la silloge poetica Nelle trasparenze caotiche di nuvola perpetua (Ed. Montag).

 

 

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