In occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio), in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto, del nazismo e del fascismo, presentiamo il libro di Luca Artioli La crudeltà dei deboli  (premessa di un lager) (La vita Felice, 2017): trenta poesie per ripercorrere la genesi di uno sterminio, quello dei disabili e delle minoranze, iniziato ben prima del secondo conflitto mondiale e che poca voce ha avuto nei libri di storia. Trenta poesie per dimostrare quanto la natura umana possa essere feroce e spietata. Trenta poesie per chiedersi chi siamo noi, oggi, e quale debba essere il nostro debito di coscienza collettiva nei confronti di ciò che è accaduto.

“Due differenti debolezze che stanno alle due estremità del coltello, traducibili come la crudeltà dei deboli (i carnefici) sui deboli (le vittime). Ma c’è, dunque, una vittoria nelle vittime? Luca Artioli, con la propria opera poetica, diventa un ulteriore ‘testimone di fede’ (non di fatto) che a suo modo onora la vittoria delle vittime, ricordandole nei suoi pensieri e parole. Si potrebbe dire che Artioli, nel suo impegno di scrittore, fa ciò che è giusto seguendo il monito di Primo Levi, posto in apertura di Se questo è un uomo, e cioè fa in modo di non dimenticare.” (Dalla postfazione di Serse Cardellini)

“Riconoscersi, dunque, non soltanto ricordare. Riconoscere che tutti noi siamo accomunati da un’identità collettiva, dolente o nolente, che ha commesso ignobili efferatezze, sebbene non risultiamo esserne i diretti colpevoli. È quindi questo l’intento con cui ho deciso di dare alle stampe il libro: consegnare al lettore uno strumento che abbia la velleità di scuoterne la coscienza, che possa invitarlo ad assumere una posizione responsabile, stimolandolo a promuovere una propria rielaborazione critica. Mettere a nudo le contraddizioni che resero possibile quanto accaduto, infatti, potrebbe aiutarci a evitare che, un giorno non troppo lontano, questo avvenga nuovamente.” (Luca Artioli)

La lettura de La crudeltà dei deboli richiede un impegno emotivo senza vie di fuga, inchioda occhi alla pagina e stomaco contratto, va centellinata e non di certo per la forma con cui si offre, ottima, misurata, incisiva. Piuttosto per i contenuti, che colpiscono come un pugno dritto al cuore e tolgono l’aria. Non si tratta “solo” dello sterminio degli ebrei, ma anche e soprattutto di eugenetica, di eutanasia, di iniziative violente e feroci etichettate come esperimenti scientifici e di molto altro ancora, episodi realmente accaduti e documentati con note esplicative in calce ai testi, di cui non si è parlato forse abbastanza. È terribile. In queste poesie sono tratteggiati magistralmente identità e volti di chi ha compiuto gesti raccapriccianti (e di chi di quei gesti è stato vittima). Gente comune, non “mostri”, che pure ha imboccato la via della crudeltà senza ritorno, indossando il bianco immacolato dei camici d’ospedale, il rigore inamidato delle divise, gli abiti distinti di una quotidianità insospettabile. È una lettura difficile, perché si è di fronte al male, senza filtri e senza protezione. Però la parola poetica di Luca Artioli resta leggera, lontanissima da qualsiasi deriva ideologica o peggio patetica, lucida e chiara in mezzo a tanto buio e dolore. È un libro da leggere per stanare quanto di noi alberga nell’ombra, per acquisire consapevolezza su una verità spesso rimossa: il male più efferato a volte ha la parvenza di una briciola, eppure nutre demoni spaventosi, che vivono in noi tutte e tutti. E sui quali dobbiamo vigilare, sempre, perché restino inermi. (Silvia Rosa)

da La crudeltà dei deboli  (La vita Felice, 2017)
MATITE
Ѐ come per il tramite bieco di un sequestro
questo interminato spossessamento di vita,
un ordine ripugnante e schierato fra le tempie
che nella misura uguale a un oggetto, toglie
dalle case per non vedere, per non restituire.
Lo chiamano “trattamento” e tu sei presente,
sei presente e comprendi quanto poco valga
‒ se non per un colore o un tratto di grafite ‒
il respiro di un altro, quel destino in presagio
scritto sopra il foglio, quanto un capolinea.
Osservi il suo indice, la sua scelta senza cura,
i nomi legati per catena, divisi nella diagnosi
che dice “idiotismo”, che dice “idrocefalia”,
sono scorie, tutte scorie di uteri senza appello
sono un elenco-patibolo a cui mettere il sigillo.
Nessuna visita, nessuna perdita di tempo, niente
di niente che non sia un modulo di registrazione,
così nel segno rosso si muore, nel blu si scampa
quasi bastassero un paio di matite per essere dio.
E tu ripeti «sono un’infermiera, soltanto un’infermiera»
a quello specchio che la sera ti strucca, rotati i cardini
dalle tarde ore di ambulatorio, quanto un perdono
in richiesta, una privata indulgenza da confessionale,
come se mai nell’obbedienza potessi esserci una colpa.

*Il dottor Brandt, medico personale di Hitler, fu uno dei cinque componenti del “Comitato per la registrazione scientifica di gravi disturbi ereditari”. Era però una sorta di comitato fantasma, che per indirizzo aveva un’anonima casella postale e che utilizzava nomi in codice. Il compito di questo gruppo di medici era quello di catalogare tutti i neonati affetti da importanti patologie, in base al flusso di dati che giungevano loro dal ministero dell’Interno e dalla direzione sanitaria. Ogni membro di tale comitato era chiamato a esprimere la propria opinione circa l’opportunità di sottoporre i bambini al “trattamento” (l’equivalente della soppressione), mediante l’apposizione, vicino al nome di ogni segnalato, di un simbolo + con la matita rossa (o un ‒ con la matita blu, per la loro esclusione). All’atto pratico, queste decisioni venivano spesso prese senza aver effettuato alcuna visita medica.

VALENTINA Z.
Nero è lo sfondo, come predisposto
è l’angolo scelto di ripresa: Valentina
senza il suo futuro di chissà quale via,
di chissà quale spettacolo su trampoli
o corda da ginnastica, riempe la scena.
Bianco è il colore macabro del suo boia,
mani flaccide che l’artigliano per quanto
ci si ostini a chiamarla ancora scienza,
mani che non chiedono alcun permesso,
che sulla vita decidono per sottrazione.
E poi c’è il grigio, la sfumatura neutra,
la tua presenza relativa, quasi più atroce
di un’assenza, che rinserra ogni alfabeto
e lascia accadere l’istante, lascia incidere
il proprio umiliante graffio sulla pellicola.
Vola in alto, Valentina, il lancio di braccia
di un medico che poi non riprende, che
poi l’abbandona, adesso è pura didattica
e fa scuola, come il rinsaldarsi di quel corpo
piccino alla spezzata gravità del pavimento.
Curi così l’inquadratura, pieghi il tuo occhio
a beneficio della camera e ritagli il pensiero,
finché non sia soltanto una preoccupazione
la visione intera del gesto, quell’immagine
che maligna replica sul filo del piano focale.
Li senti i suoi gemiti, il rumore cupo di ossa
ormai disordinate, ma stringi sullo sguardo,
cerchi sulla sua bocca una reazione al dolore
ubbidendo, nell’ubbidienza illogica riservata
alla violenza, a quel camice che pare divertito.
Quel camice che alla cinepresa ora sorride, sì.
Sorride.

**Valentina Z., una paziente di quattro anni e mezzo affetta da microcefalia, fu la protagonista di un film realizzato a scopo didattico negli anni Trenta, a uso dei corsi universitari. Nel video si poteva notare lo psichiatra Gerhard Kujath lanciare in aria la bambina disabile, figlia di circensi, osservandone le reazioni dopo ogni caduta.

NUTZLOSE ESSER
Sopra i letti, troppo poco sono le ossa
premono sempre più leggere, adesso
tra lenzuola, un grido di rotule spinose
raccontano di contrattempi da risolvere
per la fretta senza nome, del fare posto.
Che si smetta da subito con l’imboccare,
messi al bando i cateteri e tutte le mani
mosse per l’implorare della fame nera,
da oggi è urgente il conto a sottrazione
e l’esigenza di un vuoto, di nuovi spazi.
Si chiama “dieta E”, ti hanno spiegato
ed è come lasicare senza grassi la vita
a orologeria, togliere per sfinimento,
finché l’occhioburrone non sia scavato
e, con esso, il suo perduto magnetismo.
Qualche verdura, allora, qualche carota
per non dire che subito la morte arrivi,
quasi fosse uno slancio della coscienza
o una scusa banale, prima del referto,
prima che ogni stanza sia abbandonata.
Così è scoperta la tua nuova dedizione:
attendere che il tempo di un bambino
si ripieghi nella misura corta dei mesi
e che la sua diventi una sagoma appena
buia, dimenticata ombra da sottoscala.

***Erano definiti in questo modo i cosiddetti “mangiatori inutili”, ovvero adulti e bambini disabili o con problemi psichici, internati nelle strutture sanitarie tedesche, i quali lo Stato, in piena Seconda guerra mondiale, non avrebbe più potuto permettersi di mantenere. Nel 1942, a tal proposito, venne convocata con urgenza una riunione di tutti i direttori degli ospedali pschiatrici bavaresi, presso il ministero dell’Interno. E fu proprio in quell’occasione, che il dottor Valentin Faltlhauser, a capo della struttura di Kaufbeuren- Irsee, propose l’adozione della famigerata “dieta E”. Quest’ultima, basata esclusivamente su cibi privi di grassi come rape, cavoli o mele, portava alla morte per edema da fame i pazienti nel giro di qualche settimana. Considerando la sua efficacia e i bassi costi di attuazione, divenne presto la dieta ufficiale per tutti manicomi del Sud della Germania.

LUCA ARTIOLI nasce a Mantova nel 1976, dove tuttora vive. Dal 2001 scrive su riviste online e siti a carattere letterario, curando rubriche dedicate ad autori affermati ed esordienti. Presente in varie antologie, ha all’attivo anche diverse pubblicazioni personali, sia di prosa che di poesia. “La crudeltà dei deboli” è stato dato alle stampe nel febbraio 2017 da La Vita Felice Edizioni.

 

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