Fotografia di Sally Mann

Scure fiabe agitano l’infanzia, territorio onirico delle grandi devozioni e degl’interminati spazi interiori; e, pur se il passato non reitera il proprio accadere, è presente come conio ai giorni adulti, forgiando ogni individuo in imperfezione e fragilità, a immagine e somiglianza del mondo. Il più ovvio automatismo è dare avvicendamento e nuovo ingaggio al male, col proprio bagaglio d’incompreso sopruso, di reattiva barbarie.
Ma c’è anche chi, da difetto e cagionevolezza del tutto, dal terrore di amare “in un posto così fragile come il mondo”, (esergo, da Sophia de Mello Breyner Andresen), si raccoglie in ala, ed eleva la parola al di sopra della celaniana spina: eccolo, Enrico Marià nella sua ultima silloge La direzione del sole (prefazione dei fratelli D’Innocenzo, La nave di Teseo 2022), a darci un’opera spericolata di bontà, narrazione tenera e amara del crimine quotidiano che tutti piaga e sazia del nero latte dell’esistenza.
Arabeschi aspri e lirici a tracciare l’errore, l’eterno schianto che mescola bene e male con l’intento di smarrire il cuore. E l’orrore incantevole di essere qui, in un laboratorio di tragiche possibilità che apprestano ciò che sarà dopo la materia, quando si dissolverà la pesanteur, e tutto sarà candido e vero. Tra il chiarore sognato del prima e del dopo, ora è la “colpa di essere vivi”, calati in un corpo fardello e “bersaglio” che è perpetuo, sospeso allarme di abuso o inciampo: “Dormire con la luce accesa / alla tosse dei ragni / la sensazione che quasi tutto si fermi / prima dell’inutile provarci / che i bambini lo sanno / come in carcere / i nuovi arrivati”.
Il filo del torto, del peccato ci fa gemme opache di un rosario che discende attraverso le generazioni: genitorialità invasive che ignorano l’accudimento e riconfermano il danno: “Margini muti d’attrito / la presa spalancata bocca / papà, tu il mio grido /i globuli della luce nera”.
Quando le ali dello spirito radicano sul dorso di una creatura, carne e sensi ne percorrono la sete e si delinea l’area della pena. Specularmente, da epoche anteriori al creato terra e cielo s’allacciano nella sagoma purissima dell’agnello.
Nella specie eletta il candore è impresagito, incidentale: ordinario invece è l’esser smarriti, capolavori di delitto, nell’umana pecca, nel bisogno. Inesausta la nostalgia, il dolente aggrapparsi a scenari in continua trasfigurazione; ché tutto muove e muta ribadendo sé stesso, e la sofferta presenza del singolo è minuto singhiozzo in un tempo illimitato, dove presenze animali antichissime, indecifrate, sono basiliche di sconfinata quiete, e portano nel genoma ieratici annunci: dicono di deserti senza fine, e del nostro essere friabili comparse, in una luce primordiale: “I proiettili del vuoto / mi cercano la testa / che odora di luce / santuario le balene / si addensano le ossa”.
Esile soglia sul dolore, l’esistenza è sospensione, indugio al precipitare, lacrima in perpetua potenza. E la poesia di Marià è un ostinato scavare i gironi di questo “inferno strabico” – così i fratelli D’Innocenzo in prefazione – in cui passano come figuranti sagome umane buie, angeli malformati, gravidi di sofferto splendore: la vita uno sbandare di mancanza, nel costante equivoco di sé: “Eco del mio sangue / tu, giostra incarnazione / la lacrima candela / padre patria / l’angelo profano”.
Ha il passo del travaglio, dell’alternato contrarsi e dilatare, l’opera di Marià: impresa ardua lo “scarcerare dal corpo il cielo ulteriore” che prescinde dalla nostra miseria di entità carnali: basse, svolate allo spirito, e pur inappagate dalla pura materialità: senza posa tese alla luce; e come tali sfibrate, insonni.
L’ipotesi impronunciabile: fare del capo una nota sul rigo, corpo tra i binari, in una “dogana di rose” che reitera l’adito, in un passaggio che chiede dazio in metamorfosi: la dolorosa di bellezza, nel soffice scarcerarsi: darsi l’incanto dell’avvenenza che oltrepassa il confine, dell’innocenza futura perfetta, lieve; divenire etereo, trafitto bocciolo eterno.
Pellegrino sulle tappe dell’umano patire, il poeta nuota un oceano di spine: abuso, dipendenza, degrado coagulano in isole di tersa compassione: “Le brusche fratture / d’ogni impulso d’amore / che ci spaesano saliva / aghi di pioggia / gli oceani cani”.
L’amore frammentato da brame e affanni, pur ferito, non muore: agnello blasfemo, l’innocente violato affronta sempre martirî oltre il dicibile: nell’impercorso, nello spacco che divarica, rigermina l’essere a un nitore dilavato: bianca consapevolezza, a tal punto sdrucita e sofferta che è già balbuzie di redenzione.
“Difeso d’indifeso / è l’invulnerabile”: di fronte agli orridi apogei con cui la vita strazia di commozioni e bramosie, l’inerme veste con nudità l’inviolabile involucro dell’esposizione, aura chiara e riflettente del trágos: la creatura perfetta, eretta al sangue e all’altare, che abbaglia gli astanti e, con l’innocenza, scardina ogni colpa.
Tra i vinti, i piegati germina l’amore e, nel quotidiano lutto di sé, la perdita è una tensione al carnefice che infligge il proseguire obliquo, fuori sesto: immenso e tremendo l’amore nel suo tetro dilagare, fluide le ombre del perdono nell’osmosi assorta che alle cose impone il bene caparbio, terminale, sovrano della sera, la suprema.
Se il vero delle membra è nell’incompleto, nel mutilato, e ogni bellezza porta in sé la primigenia avaria della caducità e della brama, allora l’affacciarsi è scossa irregolare, involontaria “convulsione” a “commuovere il silenzio”, a “sporgersi aria”; irriducibile cercarsi nel cercare. Incarcerati in corpi imprecisi, candidati a perenne rimpianto, “disabbracciati” e a un tempo “cani crocifissi”: il poco e il troppo dell’amore.
Nelle pagine di Marià cuori abrasi ardono come candele, a tenere acceso il bene nel mondo: purezza che si contrae, doglia di fiamma: ardere verso l’alto, dire apice e trovare aria, indulgenza intima e somma che tutto rischiara, e addestra a una dolente selvatichezza: “spiegami la morte /il fare da madre / alle macchie sul lenzuolo / lo stato brado / di un ragazzo lupo”.
In questo sapersi ridire e rialzare, il lucore della doppia genealogia dell’umano: semidio precario, guasto, nel quale indugia brevemente lo spirito. Nella fatale adesione alla propria corporeità “che non ragiona / ma solamente vuole / l’amore abbandono / l’algebra del corpo accanito”.
L’amore pieno è espunto dall’esistenza mortale, ne permane solo l’ombra, attimo in cui è maldestramente esaudita la sete dei sensi: l’amore è lì, un barbaglio, carità nella perdita. Chiave del persistere è l’assenso al crollo, a quell’“inevitabile progresso delle rovine” che è il passo del tempo: lasciarsi scorrere con grazia nei paesaggi dell’impermanenza, e levarsi nel punto alto che tralascia l’infrangersi: “Blindato dal mare / lo scricchiolio della luna / nelle conchiglie / che calpestate / il proiettile del treno”.
Marià, come ogni ricognitore che si cala nel buio, sa la direzione del sole, ed è poeta intero: pur divelto, abraso, non indietreggia al sotteso spaventoso della vita: affila gli eventi al tremore che ha tra le labbra, e ce lo porge in immagini acerbe, nude, in orrore commosso, facendo del linguaggio allegoria: la ripartizione dei corpi e dei destini diviene sintassi spezzata, che isola segmenti nominali lampeggianti di radiosa disperazione: “Da Auschwitz a Lourdes / i vermi delle dita / Genova luce / l’autismo di Dio”.
Ma sa dire la luce Marià: “Tu dentro il cielo / un’ansia di neve / che impara l’estate”, e conosce gli etimi del bene ricevuto: “l’essere assolto / abitando cani carezze / le palpebre del costato”; crede, Marià, ad altri luoghi, con l’ardire dei teneri, che guardano negli occhi il celeste. Dallo smisurato oltraggio, in prospettiva cristica, deflagra il pieno riscatto, amore perfetto nello scandalo: “Il fiore duro del cielo / quando è un guarire / gli animali morti / splendidi crocifissi / per oratori e altari”.
Albore di custodia, grembo saldo, un’ombra materna e silvana si staglia nelle ultime pagine, insieme all’immagine fluida e riunificante di penitenze equoree, di severe abluzioni che fanno sacramento: ardono le acque nell’inondare i bordi, medicare le sponde, e annullare ogni segmentazione: “Aiutami a morire / lo sterminato battesimo / che annega / piromane il mare”.
Nel debito inestinguibile e senza colpa, la kafkiana segregazione dei corpi è già una pena: soli nella moltitudine, ogni giorno scontiamo l’amare scarnendoci, finché sarà sacro l’amore dopo il vivere, dopo la pelle e la sete dei respiri, quando sarà obsoleto e riposto ogni dolore.

da La direzione del sole (La nave di Teseo 2022)

Sarà dogana di rose
il mio minore morire
farmi schegge d’impatto
le note sulle righe
i binari, quelle negli spazi.

*

Dentro i lupi
la lobotomia
degli angeli
l’allearsi a morire
con le siepi del vetro.

*

Le ali a carcassa
che germoglia silenzio
la farfalla mortaio
ordigno d’amore.

*

La carne degli affetti
una sfera che si schiude
quando scarcerato dal corpo
il cielo ulteriore.

*

Le brusche fratture
d’ogni impulso d’amore
che ci spaesano saliva
aghi di pioggia
gli oceani cani.

*

Coni di luce contrapposti
noi i disabbracciati
a cicatrice dei nomi

*

Che cos’è il mio vuoto
un vangelo di orchidee
le rose sdentate
la sacra luce
del cielo spaventato.

*

Dopo il mondo sarà d’amore
la discolpa di essere vivi
il commosso perdersi
della disperata erezione.

Enrico Marià (Novi Ligure, 1977) ha pubblicato le raccolte: Enrico Marià (Annexia 2004); Rivendicando disperatamente la vita (Annexia 2006); Precipita con me (Editrice Zona 2007); Fino a qui (puntoacapo 2010); Cosa resta (puntoacapo 2015), I figli dei cani (puntoacapo 2019). Ha preso parte alle antologie: Genovainedita (Galata 2007); Atti della II Fiera dell’Editoria di Poesia. Pozzolo Formigaro giugno 2008 (puntoacapo 2008); Dolce Natura, almeno tu non menti (Zona 2009); La giusta collera (CFR 2011); Oltre le nazioni (CFR 2011); Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo 2012); Il ricatto del pane (CFR 2013); Poeti di Corrente (Le Voci della Luna 2013); Cronache da Rapa Nui (CFR 2013); La festa e la protesta. Atti della XVI Biennale di Poesia di Alessandria (puntoacapo 2013); Poesia in provincia di Alessandria (puntoacapo 2014); Comunità nomadi (deComporre  2014); Bukowski. Inediti di ordinaria follia (Giovane Holden 2014); Ad limina mentis (deComporre  2014), Il Fiore della Poesia Italiana (puntoacapo 2016). È tradotto in lingua inglese e spagnola.

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