Dalla copertina dell’antologia La nostra classe sepolta

Una crestomazia di voci liriche diverse ma strettamente collegate fra loro dall’urgenza di un tema irrisolto, può saldare la più fervente denuncia civica alla rabbiosa commozione per la fragilità della condizione umana. Il lavoro, presunta causa di nobilitazione dell’uomo, diventa un epicentro di convergenza tra questioni sociali, politiche, sanitarie, economiche, sentimentali, culturali, religiose, di genere e di razza che si estremizzano nel bisogno esistenziale e materiale dell’uomo.

La nostra classe sepolta – Cronache poetiche dai mondi del lavoro, a cura di Valeria Raimondi e con una prefazione della sindacalista Fiom Eliana Como (Pietre Vive 2019), è la dimostrazione di come la parola poetica possa – e forse debba – includere quella mobilitazione etico-sociale che, pur non cedendo al mero reportage giornalistico, trasporti nel linguaggio dell’arte le istanze della realtà a cui, sotto un profilo storico-sociologico, appartiene.

Tutte le “morti bianche/si tingono di rosso/sempre di grida/appese al gancio che le sgozza” (Francesco Zanoncelli) è un’immagine simbolica della ferocia con cui si realizzano i decessi sul lavoro, apparentemente privi di un artefice identificato ma, in realtà, compiuti dall’intera società che rimane – indolente – a osservare.

La riflessione più marcatamente filosofica (“L’homo oeconomicus/vive nelle città per progetti/da servo emancipato/a coltivare idee/pagate a cottimo/e nel frattempo sacrifica/il tempo della vita/e qualità e talenti/al dio neoliberale” di Alessandra Flores D’Arcais) si unisce al dramma del recesso dei diritti umani davanti alle dinamiche merceologiche e monetarie, e alle silenziose tragedie personali e familiari che si consumano nella routine disumanizzante di moltissimi ambienti lavorativi o, al contrario, delle situazioni in cui il lavoro non c’è.

Sono molti i nomi noti di poeti che hanno trattato, tra i loro versi, la tematica del lavoro, dello sfruttamento e della disoccupazione, presenti o meno nell’opera (come Christian Tito, Luigi Di Ruscio, Francesca Lo Moro, Nella Nobili, Fabio Franzin, Lucianna Argentino), ma una delle suggestioni più forti di quest’antologia è quella di spronare il lettore alla ricerca delle voci poetiche meno note che, con eguale efficacia, hanno contrastato certa ignavia e certo disimpegno della poesia contemporanea.

Di recente, la rivista cinese XIN GONGREN WENXUE (Letteratura dei nuovi operai), nel suo settimo numero autoprodotto da lavoratori-scrittori di Pechino, ha pubblicato alcuni dei testi contenuti nell’antologia e tradotti da Federico Picerni, che fa ricerca sulla letteratura cinese contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Abbiamo dialogato con il traduttore Federico Picerni per comprendere come si possono incontrare, nella transizione traduttiva, i testi e i temi di autori provenienti da mondi così diversi.

Nel tuo articolo “Metamorfosi operaie. Corpo e alienazione in alcuni poeti operai cinesi” (in Costellazioni, Num. Nove: Corpo), scrivi: “il corpo gioca (…) un ruolo centrale. «La testualizzazione del corpo nella poesia dagong», sottolinea il poeta operaio e critico letterario Liu Dongwu, «rivela i segni della realtà sociale e, ancor più, l’impronta della storia scolpiti nel corpo»”. Che differenze e che affinità hai riscontrato tra il modo di descrivere letterariamente il corpo del poeta lavoratore italiano e quello cinese?

Credo che il corpo sia forse uno degli aspetti dove più si ravvisa il fatto che la poesia operaia, a dispetto delle diverse latitudini, parli di una realtà, quella dello sfruttamento salariato, che, sia pure con le dovute specificità, non conosce confini. L’idea del corpo usurato dai ritmi della catena di montaggio, o da altre situazioni non propriamente “di fabbrica”, è una costante di quasi ogni narrazione delle realtà operaie in prosa o in versi: tra gli elementi corporei più frequenti abbiamo il sudore, la fatica, ma anche le mutilazioni causate da incidenti sul lavoro, per non parlare delle “infiltrazioni nocive” nei corpi operai di acque reflue, polvere, tossine e così via.

Pensando al contesto italiano, mi viene subito in mente un’autrice straordinaria come Nella Nobili, la cui poetica è costellata di corpi operai. C’è una poesia cruda ma molto vivida che rende benissimo l’idea di quanto il lavoro di fabbrica annienti le lavoratrici e i lavoratori nel fisico così come, di conseguenza, nello spirito: “È la pelle che dovremmo strappare / Nell’inferno dell’officina” (Ho camminato nel mondo con l’anima aperta, Solferino, p. 181).

Nel caso dei poeti operai cinesi, l’aspetto che mi colpisce di più è questo rapporto quasi metamorfico con le macchine o gli strumenti di lavoro: la macchina diventa una protesi dell’operaio, o forse è più vero il contrario, l’operaio diventa protesi della macchina. In altri casi il suo corpo diventa tutt’uno con le merci che produce, come queste ultime si assembla, si scompone, si avvita, si salda. È una potentissima metafora dell’alienazione e deumanizzazione della fabbrica capitalista. Che si sposta anche su altri piani, meno legati alla quotidianità della fabbrica e più a una condizione di vita generale, o dall’aspetto sociale a quello psicologico (che, in fin dei conti, non sono mai separati in quanto il secondo non è indipendente dal primo). Penso per esempio a Xu Lizhi, il giovane poeta operaio della Foxconn divenuto tristemente famoso per il suo suicidio a soli 24 anni, il quale sembra anticipare questo tragico epilogo proprio paragonando un operaio che si butta, esausto e deluso, da un palazzo a una “vite che cade a terra”.

Non bisogna infine dimenticare che i poeti operai cinesi sono spesso migranti dalla campagna alla città, un fenomeno che ricorda un po’ la migrazione dal Sud al Nord dell’Italia, ovviamente decuplicata, visto che parliamo di oltre 290 milioni di persone. Sono quindi corpi in costante movimento, in qualche modo sospesi fra la città e la campagna, perché in Cina esiste un rigido sistema di controllo della mobilità per cui chi non possiede un certificato di residenza urbana non ha accesso ai servizi sociali in città. Fino al 2003 si rischiava anche la detenzione in veri e propri centri di identificazione ed espulsione dove avvenivano violenze e soprusi. Al sudore del lavoro si aggiungono quindi il sangue della violenza fisica e amministrativa nel definire la dimensione corporea della poesia operaia cinese. Come ha scritto il poeta An Zhesi, “il fiore dei miei anni ha imbrattato col sangue di Sun Zhigang / quel ‘permesso di residenza temporanea’ questione di vita o di morte” (tr. Marco Sabbatini, http://www.lamacchinasognante.com/%E6%88%91%E7%9A%84%E9%9D%92%E6%98%A5-il-fiore-dei-miei-anni-an-zhesi-trad-marco-sabbatini/). Sun Zhigang era un giovane migrante la cui morte misteriosa in uno di questi centri portò alla loro chiusura.

Che posizioni assumono gli intellettuali e i letterati cinesi rispetto alla questione del lavoro (e a tutte le problematiche a esso collegate), considerando anche la presenza della censura? Pensi che ci sia maggiore o minore impegno civile in Italia, in tal senso?

È difficile rispondere in termini generali perché questo impegno, più che “civile” in senso stretto, indica un posizionamento politico in riferimento alle questioni del lavoro e della lotta di classe. Di certo, la Cina su questo presenta diverse peculiarità storiche: gli intellettuali si sono sentiti spronati a interessarsi ai temi del lavoro sin dai primi decenni del Novecento, grazie al fatto che la rivoluzione in campo letterario avvenuta in quegli anni ebbe uno stretto legame con la rivoluzione sociale. Diventerà poi paradigmatico a seguito dei famosi discorsi di Mao sulla letteratura e l’arte, dati nel 1942, in cui agli scrittori e ai poeti viene dato mandato di vivere fra le masse lavoratrici per poterle meglio raccontare e descrivere. Un’intera generazione di poeti salita alla ribalta fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 (cioè dopo il tramonto del maoismo) era composta di “giovani istruiti”, cioè studenti che dopo il diploma o la laurea venivano mandati a lavorare in fabbrica o in campagna, molti dei quali hanno raccontato questa esperienza nei loro versi (vedere l’eccellente antologia Nuovi poeti cinesi a cura di C. Pozzana e A. Russo). Negli anni duemila si è sviluppato un intero filone di scrittori di estrazione intellettuale (non quindi essi stessi operai) a scoperchiare i lati oscuri dello sviluppo economico, ma dai quali giungono spesso visioni piuttosto stereotipate dei lavoratori. Questo interesse nei temi sociali e delle classi subalterne si ritrova anche in autori di più o meno recente pubblicazione in lingua italiana, quali Lu Nei, Sheng Keyi, Shuang Xuetao, Xu Zechen, o anche lo Yu Hua de Il settimo giorno (tr. S. Pozzi).

Contrariamente a quanto spesso si crede, la censura in Cina non falcidia qualsiasi cosa che dipinga una visione negativa della società (anche se la situazione è in netto peggioramento e gli spazi di libertà sempre più ristretti), ma temi tabù, soprattutto politici. È comunque rilevante che le contraddizioni sociali in Cina sono talmente mastodontiche che diventano impossibili da ignorare per qualsiasi interessato a raccontare la realtà che lo circonda.

Anche in Italia c’è stata una lunga fase di forte impegno da parte degli intellettuali (Balestrini su tutti, senza scomodare un Pavese, un Sanguineti…) ma non è un caso che, mi pare, si sia attenuata – o comunque modificata – con gli arretramenti del movimento operaio, in parziale concomitanza con il passaggio della Cina al libero mercato e a un ritiro di buona parte dell’intellettualità dal rapporto diretto con il sociale. Anche come reazione a questo, ci sono autrici e autori che hanno messo la vita, la memoria e le lotte della classe lavoratrice al centro della propria produzione, tra l’altro in una pluralità di generi che mescola memoir, reportage e finzione letteraria: Simona Baldanzi, Giorgio Falco, Alberto Prunetti, e si potrebbe andare avanti. Comunque, in effetti il lavoro occupa un ruolo rilevante anche in altre opere di successo nel panorama italiano di oggi, come la tetralogia di Elena Ferrante. Inoltre, mi sembrano particolarmente interessanti esperimenti di scrittura collettiva come Meccanoscritto (Collettivo MetalMente, Wu Ming 2 e Ivan Brentari) e, più di recente, Insorgiamo, diario di lotta del collettivo di fabbrica GKN. In poesia, La nostra classe sepolta è un gioiello che spero possa avere seguiti. Sono voci corali importanti che lasciano immaginare anche un diverso modo di fare letteratura, collettivo e collaborativo, accanto a quelli più classici.

Non è escluso che l’aggravarsi della crisi generale che stiamo vivendo porterà anche a un maggior impegno da parte di scrittori e poeti nella misura in cui si svilupperanno lotte e movimenti.

da La nostra calsse sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro (Pietre Vive Editore  2019)

FRANCESCA DEL MORO

Traduttrice e editor, Bologna

«Oggi si sta passando dalla tipologia del lavoro flessibile a quello gratuito. Io spero, parlandone anche in poesia, di uscire dalla solitudine e trovare compagni con i quali lottare.»

La risorsa umana si è spezzata in più punti
Era poco flessibile, dicono, poco resistente
o forse è stato per via di quella parte male inserita.
Una volta sostituita si ignora la sua destinazione.
Ridenti i mercati assistono come gerani al balcone

La produttività vi difetta, hanno detto
popolo di eroi santi eccetera e navigatori.
Basta un click: trecento pezzi all’ora
per dodici ore per ventisei giorni
e se non ti sta bene quella è la porta. 
Ho visto bei giovani con il pugno alzato
sull’autobus guardarmi dallo schermo.
Un 110 e lode – era sottotitolato –
vale uno sconto sull’abbonamento. 

*

Dicono noi dobbiamo
e tu non capisci
non sai chi noi siamo
in questi spazi invasi
dal discorde tam tam
lo sbattere dei piedi
sulla propria mattonella.
La rivolta neanche a parole
che si è così presi
a spezzare il verbo in quattro
a umiliarne il valore.
Non sai chi noi siamo
tra tutte le pagliuzze
da cercarsi negli occhi
le mille dita puntate
le mitragliate a salve.
Non sai chi noi siamo
tra gli o tempora o mores
con il dorso del polso
languido sulla fronte
la schiena che s’inarca
e trova breve sollievo
per poi piegarsi al padrone. 

 

MATTEO RUSCONI «ROSKACCIO»

Operaio metalmeccanico, Lodi

«Dimmi dunque compagno Sole / davvero non ti sembra / che sia un po’ da coglione / regalare una giornata come questa / a un padrone? (J.Prévert).»

Mi porto a casa il rumore della fabbrica
come un reduce porta dentro sé il ricordo della guerra.
Nella doccia ritrovo
lo stridere del metallo
il battere del martello
e tra i capelli ho sparsi i trucioli di un cristo di ferro.
Il tempo ciclo è importante più dell’anima
la velocità è tutto
gli avanzamenti sono tutto
e il mio invecchiare è il niente
io sono solo un meccanismo sostituibile.
Mi porto a casa l’odore della fabbrica
come un cane che ritorna da un tuffo nella fogna
e sul limitare penso spesso
al tempo perso là dentro
alla poesia di Prévert nel mio armadietto
e al sole che brucia le spalle
mentre alla mia pelle ci ha già pensato il solvente.

 

LUCIANNA ARGENTINO

Cassiera, Roma

«Ho cercato di raccontare il tempo vissuto in quel posto divenuto tòpos nell’atto della scrittura.»

Sto qui senza vocazione, ma ogni giorno rispondo, 
ogni giorno, pellegrina dell’umano, vado di volto in volto, 
piegata al sì dagli occhi e quando l’anima stanca 
cede al disamore li faccio tornare bambini, 
li riconsegno all’infanzia o a Dio, 
così mi stanno dentro per amore e non per dovere.

*

Sei piani e cinquecentosessanta passi 
tra me e questo armadietto di grigio metallo 
dove il camice attende il mio corpo 
per farsi anima e generare foglietti 
in gestazione di parole, nate per fame e per sazietà. 
Negli occhi degli uomini il pane delle stelle 
mi è parso buio e raffermo, i versi di Char 
puntellano questa giornata che mi sta davanti 
tutta intera, tutta in luce. Ma ecco 
ora è questo l’ombra, questo stare nell’affanno del fiato, 
nella me stessa di cui si spartiscono le vesti 
cose adiacenti al nulla.

*

E in ultimo ci sono io, 
esercitata al bene e alla pazienza, 
io con i miei pensieri frantumati, 
mandati a capo come una cattiva poesia. 
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso, 
una diversa cifra, grani di un immenso rosario: 
ognuno con la sua muta preghiera 
o la sua muta bestemmia, 
che poi è lo stesso se crediamo 
ci sia un Dio ad ascoltare.

 

Federico Picerni è dottore in letteratura cinese contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, in consorzio con l’Università di Heidelberg. Il suo progetto di ricerca riguarda la produzione letteraria degli operai migranti cinesi, focalizzandosi sul gruppo di scrittori di Picun, alla periferia di Pechino.

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