Fotografia di Antonio Lillo

Da Al panfilo! (e al Lettore) di Roberto R. Corsi

La perdita e il perdono è dedicato alla memoria di Marion Lignana Rosenberg, Christian Tito, Giuseppe Panella, Gianfranco Palmery, Carola Meschini. È dedicato all’albero ombroso della mia famiglia: persone che mi sostengono oltre il dovuto e ben più di quanto io riesca a fare con loro. Infine è dedicato a tutte e tutti coloro che han popolato con benevolenza i miei primi cinquant’anni. Da un triennio avevo in mente che questa prova fosse il mio canto del cigno (o del cignàle per i detrattori) e che terminasse nel gennaio 2020, mese del mio cinquantesimo compleanno. Ciò che è avvenuto dopo lo sappiamo tutti e si preannuncia solo di sfuggita nel libro, nell’ultimo verso della poesia mahleriana e in Salto di specie. Il senso catastrofico che spira tra le pagine promana quasi unicamente dalla riflessione sull’emergenza climatica (la considero ancora la vera, definitiva apocalissi a venire). Perciò la pandemia ha reso la raccolta, nella misura in cui non vi s’impernia, suscettibile di essere presa per il trastullo di un ricco epulone rifugiatosi su un panfilo al largo, o comunque di una persona così superficiale da non percepire il profondo sconvolgimento antropologico ancora in atto e chissà per quanto. Ho deciso di correre il rischio e di mantenere l’orizzonte temporale come era originariamente inteso, resistendo alla tentazione d’inserire versi a tema che pure, durante il lockdown, si sono copiosamente manifestati. Possa La perdita e il perdono valere se non altro come fotografia ante SARS-CoV-2; di quel che verrà ideato, nominato e pronunciato dopo, si occuperanno con più efficacia penne giovani, fiorite lungo l’epidemia o quasi. Almeno è ciò che auspico. […]

da La perdita e il perdono (Pietre Vive Editore 2020)

Jeux de vagues
(2019)

Accetta un consiglio: vai in spiaggia
fuori stagione, un pomeriggio di mare mosso.
Avrai in mente, mentre giungi, il classico distendersi
dell’onda, come lingua; il suo morire,
quel placato lasciarsi assorbire
dalla battigia.

È questo il diagramma della vita, per i più.
Ma, se farai attenzione, ti sorprenderai
a fissare altre onde, affluenti,
deboli per scavare un canale di risacca
e trovar pace; ugualmente chiamate
all’indietro, a scontrarsi e sfilare di lato
alla normalità delle novelle che accorrono.

Un gioco, solo un grumo di attimi,
zampilli e schianti.
L’esistenza: l’offesa.
Al mondo, distratto come te poco fa, resterà
il passo trionfante delle frangenti; nulla
del vano bramare agnizione, eufonia
con ciò che, onnipotente in giovinezza,

già mi scavalca.

*

Mio padre di ottant’anni e qualche giorno
è un pulcino incazzato,
sta tornando nel guscio
perché fuori, in cantiere, spira il freddo
di giovani che spingono che irridono che sputano.
Un vecchio è come carne quando cade
l’unghia che le sta sopra, o come Dafne
quando lenta si muta in una pianta d’alloro.
Attorno nasce un velo
corneo o ligneo; s’ispessisce pian piano,
sempre più impermeabile
ai miei gesti e parole.
Gli accarezzo le spalle
mentre dorme in poltrona e sbava e scalcia e sogna.
Guardo nella penombra il volto che è già maschera
e faccio il Mitridate col vuoto soffocante di domani.

*

Tu immagina un uomo – indiano o pakistano,
biancovestito venditor di tessuti –
rimpiattato, sdraiato sulla sabbia
dietro una tenda vuota della spiaggia VIP
per nascondersi ai vigili che ne inseguono un altro lungo la passerella.
Proprio così si sfugge a un cecchino in un blockbuster di guerra.
A pericolo scampato si rialza e rassetta, prosegue
appena prima che entri in azione il bagnino,
il penultimo zelante contro l’ultimo.

Kavafiana con cottura 10’ a 200°

E se proprio non puoi la vita e la poesia che desideri,
gustale di nascosto come una pizza surgelata al salame piccante:
qualcosa di rapida chimica prosaica semipiena soddisfazione,
qualcosa che nelle ottobrate solitarie, tra il crepuscolo marino
e le partite di coppa, ti torni pratico e a genio
anche se va tenuto celato al naso arricciato dei puristi,
a stilose profumiere sempre in cerca del dettaglio di classe,
a questo mondo smanioso di accessoriare il nulla.
Non sprecare la vita nel troppo dilettevole commercio
con gli altri, nel cercare una recensione, una presentazione,
una leccata in più alla frigida scena letteraria, fino a far diventare te stesso
una cosa non tua: una fetta che qualcuno, distraendoti, ti sfila dal piatto.

Once there was a boy who woke up with blue hair

Sono la somma algebrica di profezie e paure,
ma sono stato anche il sogno bambino
del reame di là da quella dimora contadina
che dalla cameretta
dell’ultimo orizzonte il guardo accompagnava.
A pensarci oggi, nel disincanto dell’orbe geotaggato,
era, credo, in via Como: massimo tre isolati.
Un casolare, l’aia, i campi attorno.
Ma di certo era il portale verso qualche Cartoonia
o Fantàsia con cui, morendo al mondo,
persino ai genitori, si potesse gabbare
quell’ansia che già collaudava i circuiti
dell’elettrocuzione, quella costanza del dolore
dove ogni sfioro, anche uno scampo, lacera
poi s’incista, si cumula,
si fa sceneggiatura.

Più tardi, negli ottanta, un drago cementizio
di tre piani ostruì la visuale
e la fuga. Ai suoi piedi,
la farmacia ammannisce un iniquo indennizzo.

Roberto R. Corsi (1970) vive tra Firenze e la Versilia. Dal 2016 al 2020 è stato conredattore del lit-blog collettivo Perìgeion. Alcuni suoi contributi critici sono stati recepiti in antologie, riviste, portali web. Ha pubblicato quattro raccolte, fra cui segnaliamo Cinquantaseicozze (Italic 2015). Nel 2000, lanciato senza preavviso dalla fidanzata di allora nel bel mezzo di un concorso enigmistico serissimo, lo ha incredibilmente vinto, portandosi a casa d’emblée un prosciutto di 7,5 kg. Lo ritiene tuttora il suo migliore conseguimento esistenziale, assieme ad altre inadempienze che tace per scaramanzia.

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