«Ora capisco che la vita\ è questo ronzio di fondo che accomuna ogni istante,\ nessuno ci conosce davvero, siamo questa assurdità: tenuti al riparo\ nelle scatole con solo i buchi per poter respirare per non\ morire soffocati» (p. 36). Così, senza preamboli né falsa circospezione, il libro d’esordio di Valentina Murrocu ci porta al cuore di un’esistenza; anzi, dovremmo dire: alla vita così com’è. Fin dalla prima lettura sul sito Formavera, la poesia di questa giovane autrice di origini sarde mi aveva colpito per la peculiare commistione di violenza delle immagini, ritmica percussiva e tematiche che audacemente frammentano e uniscono la biologia alla filosofia esistenziale. Se allora ci inoltriamo nelle pagine di questo libriccino e se vinciamo la repulsione per questo verso continuamente fratturato, pagina dopo pagina, siamo proiettati in un percorso che, pur procedendo, nega ogni movimento. Un libro infatti – così vuole il nostro pregiudizio – ci dovrebbe coinvolgere in una sorta di sviluppo, dalla prima all’ultima poesia qualcosa dovrebbe mutare, evolvere. E invece l’opera prima di Valentina Murrocu trasgredisce palesemente questa nostra attesa e anzi si oppone totalmente a un’idea consolatoria e narrativa intrinseca allo schema Canzoniere. Si ha l’impressione che La vita così com’è non voglia che il lettore abbia la sensazione di muoversi verso la soluzione di qualcosa che si sia innestato all’inizio. Non c’è sviluppo qui e non c’è guarigione: non c’è illusione di salute fra le pagine della Murrocu. Come se fossimo proiettati nel film Il cavallo di Torino di Béla Tarr, a ogni pagina noi ci troviamo davanti la ripetizione di una medesima scena, una stessa potentissima scena che trova nondimeno di testo in testo variazioni sempre nuove. La potremmo chiamare la “scena madre” della sua poesia. Nei suoi versi la Murrocu prova a far accadere qualcosa e quel qualcosa è il momento di un’agnizione fondamentale, un momento antropopoietico, che potremmo parafrasare così: una coscienza umana è di fronte a ciò che percepisce e alla sua restituzione verbale. Posta di fronte alle parole e alle cose, ai viventi e alle loro verbali esternazioni, la coscienza protagonista dei versi avverte un crescente senso di disagio, una vertigine, uno spaesamento, una nausea (di cui Sartre scrisse: «la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza»): scopre che la vita pensata non è altro che ideologia, uno schermo per proteggersi dal dolore. Per esempio leggiamo questi versi: «costruisco un’immagine\ che mi schermi dagli altri un filtro\ o una membrana che regoli gli scambi\ con l’esterno mi faccia sentire vivente\ tra viventi insomma percepita» (p.24). Dietro questo scudo, necessario perché i rapporti con gli altri esseri senzienti non siano troppo dolorosi, si agitano immanenti forze mareali; la coscienza che scrive scopre anche che chi parla e scrive “io” è solo una piccola porzione di queste forze che ci trascendono. Ed è qui, a questa comprensione, in un crescendo di violenza, che abbiamo accesso a una vita vera: alla vita così com’è.

Ho scritto agnizione e non epifania. La realtà nei versi della Murrocu è infatti già sempre apparsa. Fin da subito si nota che uno degli aspetti più potenti della sua scrittura è proprio il lessico: è totalmente orizzontale. C’è di tutto: da «instagram» e «jogging», a «nichilismo» e «cinepanettoni» (p. 22), dai termini tecnici della medicina, della biologia, della filosofia, a parole comuni e quotidiane, fino a vere e proprie citazioni esplicite, ma deformate, da poeti più recenti e di cui la sua scrittura non nasconde l’influenza (soprattutto Guido Mazzoni, ma anche Milo De Angelis, e l’ultimo Mario Benedetti). Ciò che accade nella sua poesia è proprio imitazione di azioni, come voleva Aristotele. La messa in scena delle azioni del mondo è orientata, come nella tragedia greca, il protagonista dell’azione, l’agente, scopra di essere un soggetto, ovvero di essere assoggettato a forze che lo trascendono; grazie a questa agnizione, l’eroe del testo (e il lettore con lui) incomincia una vita vera, vede «nuda la vita»: inizia a esistere veramente, sfuggendo all’illusorio dominio sul mondo. Questa scena è ripetuta ovunque nella sua poesia, accade a ogni pagina, con una coazione e un’ossessione che ci violenta. Accade in casa, fuori, mentre si corre, mentre si mangia e perfino a bordo di una piscina: «E mentre stanziamo a bordo vasca\ e dal cloro siamo dominati sale a galla anche l’angoscia che da poco\ ci aveva abbandonati: ecco il rovesciamento, ecco la trasmutazione» (p. 28). Fra percezione, orrore e agnizione c’è un’oscillazione che culmina nella comprensione di una fisiologia dell’esistere a cui non c’è scampo. Questa comprensione dà accesso alla comprensione della propria natura, così com’è altra da quella animale e dal nulla. E infatti, come leggiamo nella poesia, Oscillazione: «ora capisco\ cosa significhi non esistere» (p. 40). L’eroe del testo e il lettore sono portati a far decadere la superbia di essere padroni del mondo e sono condotti a scoprire infine di essere soggetti alle forze del mondo, elementi che si rovesciano in un’immanenza assoluta, calata ogni volta nell’hic et nunc del testo (si veda la poesia Baricentro).

Lo stile è totalmente asservito per essere strumento di questo percorso. All’assoluta orizzontalità del lessico, che rende capace la sua scrittura di accogliere il maggior numero possibile di realia, si affianca l’ordine caotico e violento con cui sono disposti, alternando realtà percepita, pensiero razionale al sogno allucinato. Un altro elemento essenziale è dunque la sintassi: il lavoro di Valentina è potentissimo a questo proposito. Da una parte infatti sposta il verso radicalmente verso la prosa, e nella prosa alterna la riflessione filosofica all’intimità sporca e informale del diario; dall’altro però esibisce il tratto più radicale e identificativo del verso, ovvero l’enjambement. L’enjambement in questo primo lavoro della Murrocu è forzoso, reiterato fino all’irragionevole, esacerbato. E se qui si mostra evidentemente anche la debolezza di un esordio, la mancanza di un pieno controllo formale, dall’altra la somma di questi fattori, con l’aggiunta del ricorso sistematico alla pressione percussiva della paratassi, porta il componimento della Murrocu ad assomigliare a una spirale di serpi, ad groviglio di mostri («mi aggroviglio» dice proprio un testo a p. 54). Creando così un inceppo continuo della sintassi che frana proprio mentre prova a significare filosoficamente, a narrare diaristicamente.

Ma ancora tutto questo non basterebbe per rendere conto della sua poesia. La cosa che a tutto questo si aggiunge e che rende promettente la sua poesia è che c’è una volontà di oltranza e di crudeltà contro se stessi che è continuamente esibita. L’io si mostra lacerato nel noi, si analizza nelle sue pieghe, nelle sue risacche; si rappresenta teatralmente, cercando il più possibile di calare il proprio pensiero negli anfratti di ciò che turba, che umilia, con una coazione alla violenza che stordisce. Come se nella poesia, e solo qui, ci fosse la possibilità di essere veramente. Come se la poesia fosse il luogo unico di un disvelamento decisivo e profondo, che altrove è invece sempre negato: solo nella letteratura si è veramente, perché solo nella letteratura ci si può mostrare, non nella verità della propria cronaca, ma nella verità delle figure e delle azioni che la mostrano con la più sincera potenza. C’è insomma nella sua poesia un anelito di verità così radicale, così estremo, che si mettono da parte tutte le debolezze e le ingenuità retoriche che inevitabilmente minano questo libro d’esordio; e si ascolta invece questo richiamo, spostato più in là delle parole, mentre leggiamo della malattia e del vomito che colgono all’improvviso e nessuno sembra più lì a «tenerci la testa». Nei suoi versi, siamo sospesi «fra asma e psicosi», fra un respiro interrotto e una visione lacerante; siamo trascinati lì dove nasce il desiderio di un’adesione umana alle parole, tale da dismettere l’analisi del piano stilistico, da scollegare lo sguardo dalla mera testualità e fare di questa scrittura il luogo di un incontro con se stessi, con le proprie paure, con le proprie idiosincrasie. Un incontro che si situa al di là dell’autrice stessa, che sembra allontanarsi e scomparire, mentre la vita si dispone tutta lì, distesa sulla pagina straziata.

 

Tommaso Di Dio

 

 

 

L’atto del nominare

Tre quasi i mesi
e non ti fanno scudo le mani non
ti tacciono la mia assenza forse
ignori cosa animi me o quale
dubbio mi schiuda il giorno; ma
finché sorge il sole dietro
i mattoni – un’antinomia
nuova mi dissangua e non
conosce tregua – guardami attraverso
il vetro non essere più: se tu vi fossi
e ancora te mio sentissi
nelle cose che non
ho visto e mi aprono una mancanza – giardino
cancello ghiaia, quasi
casa – conteresti i tuoi torti e non
mi colpiresti a morte – è questa
scritta già nell’atto del nominare – non
mi diresti e non nasconderesti
a te l’angoscia. Eppure indica me e pone
in me fiducia lo spettro dell’uomo
che ti neghi e non so condannare purché
sia lo stesso esistere e commettere
ingiustizia; ma tu non
vivi.

 

***

 

Viva-voce

Il bambino che vuole uscire e non
è in grado questo tuo cesareo mi attanaglia
il ricordo della rabbia che affiora – quasi
un’arteria che pulsa – e premi
contro i polsi l’alcool che calmi la febbre; non
parli o l’eco è lontana quella
che in viva-voce sento manca
lo stupore e intanto conto i piatti
sporchi sul tavolo sapere esistere
quasi vinco al tuo posto la paura
che attribuisci a te e non
comprendo; ma è tardi, mi dico allo
specchio – quasi disumana come
in prova – e solo sfrutto il tuo disagio
ne scrivo faccio leggere. E non
chiedere se sia giusto o sbagliato,
soltanto questa fede mi sostiene
veramente.

 

 

 

Valentina Murrocu (1992) vive tra Nuoro e Siena. Attualmente frequenta il corso di Laurea Magistrale in Storia e Filosofia presso l’Università degli Studi di Siena. Nel 2015 e nel 2018 una scelta di suoi testi è apparsa sulla rivista online Formavera. Nel novembre 2018 è uscita la sua opera prima di poesia La vita così com’è per le Marco Saya Edizioni.

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