«Anthony Hecht è stato uno degli esponenti più autorevoli della straordinaria generazione di poeti statunitensi nati negli anni venti del secolo scorso. Questa generazione è cresciuta e maturata in un’epoca difficilissima: bambini e adolescenti durante la Grande depressione e giovani durante la seconda guerra mondiale – nella quale molti di loro sono stati chiamati alle armi vivendo e testimoniando, ancora negli anni formativi, la povertà estrema e, in alcuni casi, atrocità impensabili. Questi giovani sono maturati in fretta: sono stati costretti a maturare. Dopo la guerra, molti di coloro che avevano servito nelle forze armate tornarono a frequentare l’università grazie al GI Bill (una legge che garantiva ai reduci, tra gli altri, benefici nel campo dell’istruzione), in un momento in cui la vita accademica americana si stava rapidamente estendendo grazie anche a intellettuali che da tutto il mondo entravano negli atenei statunitensi. Inoltre, era il periodo in cui il New Criticism stava prendendo forza, per cui i giovani reduci, come i loro coetanei che non avevano prestato servizio militare, ricevettero nozioni approfondite su come leggere le poesie, e su come scriverle. Questa situazione, unita agli esempi ancora molto vivi dei grandi poeti modernisti (W. B. Yeats, T. S. Eliot, Wallace Stevens tra i maggiori), come anche alla crescente autorevolezza degli illustri poeti nati nei primi due decenni del XX secolo (W. H. Auden, Robert Lowell, Elizabeth Bishop, ad esempio), fornì alla nuova generazione una comprensione eccezionalmente raffinata delle possibilità dell’arte poetica, insieme a un armamentario di modelli stilistici e paradigmi estetici straordinari, anche se capaci di incutere soggezione. (…) Anche nella folta schiera dei suoi talentuosi contemporanei, Anthony Hecht si è sempre distinto per diverse ragioni. Le sue doti erano molteplici, e il modo in cui le ha impiegate è esemplare. Ha sempre avuto, fin dall’inizio, un orecchio sopraffino perle sfumature musicali del verso inglese; persino le sue primissime poesie dimostrano una spontanea padronanza delle complessità del metro e della rima, e pochi poeti americani lo hanno eguagliato nella costruzione di intricate forme strofiche. Godeva anche di una qualità complementare ma parimenti rara: l’occhio preciso del pittore sul mondo che lo circonda, così che nelle sue poesie – sia quelle brevi che le più lunghe – spesso sono incastonati passaggi descrittivi di un’accuratezza mimetica strabiliante. Il suo vocabolario era immenso, e lo spettro della sua dizione molto ampio: anche un lettore esperto ed erudito dovrà ricorrere al dizionario quando legge Hecht, ma insieme ai termini di derivazione latina e a quelli iper specifici del linguaggio tecnico si trovano, impiegati in modo impeccabile, le frasi e le inflessioni del discorso quotidiano. Era anche naturalmente portato all’uso di strutture sintattiche elaborate, quasi labirintiche, ma sapeva scrivere semplici periodi dichiarativi di grande forza retorica. Possedeva, in abbondanza, quella che Aristotele identifica come la più importante qualità che un poeta possa avere (perché, diversamente dalla dizione o dall’abilità metrica, non può essere imparata, essendo dipendente da doti innate): il potere di creare metafore, di scoprire somiglianze in oggetti dissimili. Il suo acume era vivace ed esuberante, così che le sue poesie possono risultare giocose e assai spiritose, ma anche aspre: nel corpus della sua opera l’ironia è presente in tutte le sue sfumature, dalle più luminose alle più scure. E oltre a tutto ciò, Hecht era uomo di un sapere sconfinato, ampiamente erudito non solo nel campo della letteratura, ma anche della musica, della pittura, dell’architettura, della storia, della storia dell’arte, della filosofia… e l’elenco potrebbe continuare. Erudizione a parte, gli attributi fin qui menzionati potrebbero essere considerati virtù stilistiche, qualità che erano parte integrante del suo modo di scrivere. Per molti poeti, la capacità di sciorinare una tale moltitudine di talenti costituirebbe una meta soddisfacente di per sé. Ma più importante di tutte queste doti (e quindi un elemento di ulteriore distinzione rispetto a diversi dei suoi autorevoli contemporanei) è l’argomento delle sue poesie, la materia inquietante che si è sentito spinto a dover affrontare. Per motivi sia di temperamento che di esperienza, Hecht ha finito col divenire un poeta del sommo rigore morale, deciso ad affrontare gli aspetti più oscuri della nostra psiche come i momenti più neri della nostra storia. È diventato soprattutto, al di là della sua eleganza stilistica e delle acrobazie verbali, un grande poeta tragico, il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato,sia che assumesse la forma della meschineria, della piccola cattiveria personale (una moglie che riduce il marito sul lastrico, una governante che picchia un bambino con un rastrello giocattolo),sia quella universalmente condannata della tortura e dell’omicidio (la mutilazione dei prigionieri di guerra, l’impensabile catastrofe dell’Olocausto). È la materia dolorosa delle sue poesie più potenti, ancora più del piacere fornitoci dal suo stile, a rendere Hecht una lettura essenziale per chiunque cerchi di comprendere la statura della poesia statunitense nella seconda metà del XX secolo.»

Tratto dall’introduzione di Joseph Harrison a Le ore dure (Donzelli, 2018), raccolta di traduzioni di poesie di Anthony Echt a cura di Moira Egan e Damiano Abeni.

 

 

 

A Hill

In Italy, where this sort of thing can occur,
I had a vision once-though you understand
It was nothing at all like Dante’s, or the visions of saints,
And perhaps not a vision at all. I was with some friends,
Picking my way through a warm sunlit piazza
In the early morning. A clear fretwork of shadows
From huge umbrellas littered the pavement and made
A sort of lucent shallows in which was moored
A small navy of carts. Books, coins, old maps,
Cheap landscapes and ugly religious prints
Were all on sale. The colors and noise
Like the flying hands were gestures of exultation,
So that even the bargaining
Rose to the ear like a voluble godliness.
And then, when it happened, the noises suddenly stopped,
And it got darker; pushcarts and people dissolved
And even the great Farnese Palace itself
Was gone, for all its marble; in its place
Was a hill, mole-colored and bare. It was very cold,
Close to freezing, with a promise of snow.
The trees were like old ironwork gathered for scrap
Outside a factory wall. There was no wind,
And the only sound for a while was the little click
Of ice as it broke in the mud under my feet.
I saw a piece of ribbon snagged on a hedge,
But no other sign of life. And then I heard
What seemed the crack of a rifle. A hunter, I guessed;
At least I was not alone. But just after that
Came the soft and papery crash
Of a great branch somewhere unseen falling to earth.
And that was all, except for the cold and silence
That promised to last forever, like the hill.
Then prices came through, and fingers, and I was restored
To the sunlight and my friends. But for more than a week
I was scared by the plain bitterness of what I had seen.
All this happened about ten years ago,
And it hasn’t troubled me since, but at last, today,
I remembered that hill; it lies just to the left
Of the road north of Poughkeepsie; and as a boy
I stood before it for hours in wintertime.

 

Una collina

In Italia, dove cose così sanno accadere,
una volta ho avuto una visione – ma, capirete,
in nulla come quelle di Dante, o dei santi,
forse per niente una visione. Con amici
procedevo adagio in una piazza calda di sole,
di primo mattino. Una radiosa tarsia d’ombre
dagli ombrelloni si spargeva sul selciato, faceva
lucenti bassifondi dove una flottiglia
di carri era ormeggiata. Libri, monete, mappe
antiche, paesaggi da due soldi, orribili stampe
religiose erano in vendita. I colori, i rumori,
come le mani in volo, erano gesti di giubilo,
così che anche le contrattazioni
giungevano all’orecchio come volubile religiosità.
Poi, quando accadde, i rumori caddero improvvisi,
si fece scuro; svanirono carretti e gente
e perfino l’imponente Palazzo Farnese
era scomparso, con tutti i suoi marmi; al suo posto
una collina color topo e brulla. Faceva assai freddo,
quasi gelava, e prometteva neve.
Gli alberi erano ferrivecchi affastellati
contro un muro d’officina. Niente vento,
e il solo suono per un po’ fu lo scrocchiare fino
del ghiaccio rotto nel fango dal mio passo.
Vidi una striscia di tela impigliata a una siepe,
non altro segno di vita. E poi udii
come lo schiocco di una schioppettata. Un cacciatore,
pensai; almeno non sono solo. Ma subito
seguì il soffice schianto cartaceo
di un grosso ramo che crollava a terra non visto.
Fu tutto, se non per il gelo e il silenzio
che promettevano di durare in eterno, come la collina.
Poi riaffiorarono i prezzi, le dita, venni restituito
al sole e agli amici. Ma per più d’una settimana
restai sconvolto dalla nuda asprezza di ciò che avevo visto.
Accadde circa dieci anni fa,
e da allora non mi ha più turbato, ma infine, oggi,
ho ricordato quella collina; sorge appena a sinistra
della strada a nord di Poughkeepsie; da ragazzo
vi trascorsi ore e ore lì davanti, d’inverno.

 

 

***

 

 

“Auguries of Innocence”

A small, unsmiling child,
Held upon her shoulder,
Stares from a photograph
Slightly out of kilter.
It slipped from a loaded folder
Where the income tax was filed.
The light seems cut in half
By a glum, October filter.
Of course, the child is right.
The unleafed branches knot
Into hopeless riddles behind him
And the air is clearly cold.
Given the stinted light
To which fate and film consigned him,
Who’d smile at his own lot
Even at one year old?
And yet his mother smiles.
Is it grown-up make-believe,
As when anyone takes your picture,
Or some nobler, Roman virtue?
Vanity? Folly? The wiles
That some have up their sleeve?
A proud and flinty stricture
Against showing that things can hurt you,
Or a dark, Medean smile?
I’d be the last to know.
A speechless child of one
Could better construe the omens,
Unriddle our gifts for guile.
There’s no sign from my son.
But it needs no Greeks or Romans
To foresee the ice and snow.

 

«Divinazioni di innocenza»

Piccolo, senza sorriso, il bambino
tenuto da lei in spalla
fissa da una fotografia
leggermente sciupata.
È uscita fuori da un faldone
dove la denuncia dei redditi è archiviata.
La luce pare dimidiata
da un cupo filtro ottobrino.
Certo, il bimbo ha ragione lui.
I rami spogli si annodano
in inestricabili crivelli alle sue spalle
e l’aria è decisamente fredda.
Data la luce spenta a cui
sorte e pellicola l’hanno consegnato,
chi sorriderebbe al proprio fato
anche se solo a un anno?
Eppure la madre sorride.
È finzione da adulti, come
quando chiunque ti fa una foto,
o una più nobile virtù romana?
Vanità? Follia? Gli assi
che taluni hanno nella manica?
Un’orgogliosa, inflessibile censura
al mostrare che le cose possono far male,
o un oscuro sorriso da Medea?
Sarei l’ultimo a sapere.
Un bimbo di un anno che non parla
potrebbe meglio tradurre i presagi,
districare la nostra propensione all’astuzia.
Non c’è alcun segno da mio figlio.
Ma non servono Greci né Romani
per prevedere ghiaccio e neve.

 

 

***

 

 

See Naples and Die

                                                              It is better to say, “I’m suffering,” than to say,
                                                                                                      “This landscape is ugly.”

                                                                                                          Simone Weil

I

I can at last consider those events
Almost without emotion, a circumstance
That for many years I’d scarcely have believed.
We forget much, of course, and, along with facts,
Our strong emotions, of pleasure and of pain,
Fade into stark insensibility.
For which, perhaps, it need be said, thank God.
So I can read from my journal of that time
As if it were written by a total stranger.
Here is a sunny day in April, the air
Cool as spring water to breathe, but the sun warm.
We are seated under a trellised roof of vines,
Light-laced and freaked with grape-leaf silhouettes
That romp and buck across the tablecloth,
Flicker and slide on the white porcelain.
The air is scented with fresh rosemary,
Boxwood and lemon and a light perfume
From fields of wild-flowers far beyond our sight.
The cheap knives blind us. In the poet’s words,
It is almost time for lunch. And the padrone
Invites us into blackness the more pronounced
For the brilliance of outdoors. Slowly our eyes
Make out his pyramids of delicacies –
The Celtic coils and curves of primrose shrimp,
A speckled gleam of opalescent squid,
The mussel’s pearl-blue niches, as unearthly
As Brazilian butterflies, and the grey turbot,
Like a Picasso lady with both eyes
On one side of her face. We are invited
To choose our fare from this august display
Which serves as menu, and we return once more
To the sunshine, to the fritillary light
And shadow of our table where carafes
Of citrine wine glow with unstable gems,
Prison the sun like genii in their holds,
Enshrine their luminous spirits.

                                                             There, before us

The greatest amphitheater in the world:
Naples and its Bay. We have begun
Our holiday, Martha and I, in rustic splendor.
I look at her with love (was it with love?)
As a breeze takes casual liberties with her hair,
And set it down that evening in the hotel
(Where I make my journal entries after dinner)
That everything we saw this afternoon
After our splendid lunch with its noble view –
The jets of water, Diana in porphyry,
Callipygian, broad-bottomed Venus,
Whole groves of lemons, the packed grenadine pearls
Of pomegranate seeds, olive trees, urns,
All fired and flood-lit by this southern sun –
Bespoke an unassailable happiness.
And so it was. Or so I thought it was.
I believe that on that height I was truly happy,
Though I know less and less as time goes on
About what happiness is, unless it’s what
Folk-wisdom celebrates as ignorance.
Dante says that the worst of all torments
Is to remember happiness once it’s passed.
I am too numb to know whether he’s right.
[…]

 

Vedi Napoli e poi muori

                                                                 Meglio dire «Soffro», piuttosto che
                                                                                      «Il paesaggio è brutto».
                                                                                 Simone Weil

I
Posso alfine esaminare quegli eventi
quasi senza emozione, circostanza
cui per anni e anni poco avevo creduto.
Dimentichiamo molto, certo, e, con i fatti,
le emozioni forti, di pena e di piacere,
si stemperano in duro non sentire.
Del quale forse, andrebbe detto, sia ringraziato Iddio.
Così percorro passi dal diario di quel tempo
come fosse scritto da un estraneo.
È un giorno di sole qui, è aprile, l’aria
fresca acqua sorgiva al respiro, ma il sole è caldo.
Sediamo sotto una pergola di vite,
ricamati di luce e screziati dalle ombre delle foglie
che scattano e recalcitrano sulla tovaglia,
guizzano e scivolano sulla porcellana bianca.
L’aria sa di rosmarino fresco,
bosso e limone e di una leggera fragranza
di fiori selvatici da campi nascosti alla vista.
I coltelli da due lire ci accecano. Per dirla col poeta,
è quasi ora di pranzo. E il padrone
ci invita in un’oscurità tanto più fitta
per la brillantezza dell’esterno. Adagio gli occhi
mettono a fuoco piramidi di prelibatezze –
le spire celtiche, le sinuosità dei gamberetti,
il lucore maculato della seppia opalescente,
le nicchie azzurro-perla delle cozze, ultraterrene
come farfalle amazzoniche, e il rombo grigio,
signora picassiana, entrambi gli occhi
sullo stesso lato del volto. Ci invitano
a scegliere il cibo da questa mostra augusta
che funge da menù, quindi torniamo
al sole, alla fritillaria luce
e ombra del tavolo dove caraffe
di vino citrino rifulgono di gemme instabili,
imprigionano il sole come un genio in loro potere,
incastonano i loro spiriti luminosi.

                                                                                  Lì, davanti a noi,

il più sontuoso anfiteatro del mondo:
Napoli e il suo Golfo. Abbiamo iniziato
la vacanza, Martha e io, in schietto splendore.
La guardo con amore (era amore?)
e una brezza si prende libertà coi suoi capelli,
e quella sera metto per iscritto in albergo
(dove dopo cena aggiorno il diario)
che ogni cosa vista nel pomeriggio
dopo lo splendido pranzo con quella veduta superba –
i getti d’acqua, Diana di porfido,
la callipigia Venere dall’ampio fondoschiena,
giardini di limoni, le stipate perle granato
della melagrana, gli ulivi, le urne,
tutto infocato, in un diluvio di luce, dal sole del Sud –
rivelavano un’irrefutabile felicità.
E così era. O così pensavo fosse.
Credo che su quell’altezza io fossi davvero felice.
Anche se con il passare del tempo ne so sempre meno
di cosa sia la felicità, a meno che non sia
ciò che la saggezza popolare celebra come ignoranza.
Dante afferma che il peggiore dei tormenti
è ricordare la felicità una volta che è passata.
Sono troppo inebetito per sapere se ha ragione.

[…]

 

Anthony Hecht (New York, 1923 – Washington D.C., 2004) è stato uno dei più eminenti poeti statunitensi degli ultimi cinquant’anni. Ha vinto il Premio Pulitzer nel 1967 per The Hard Hours e numerosissimi altri premi, tra cui il Bollingen Prize, il Ruth Lilly Prize, il Librex-Guggenheim Eugenio Montale Award e il Wallace Stevens Award. È stato il primo vincitore del Prix de Rome che lo ha portato all’Accademia americana di Roma nel 1951, anno a partire dal quale ha frequentato costantemente l’Italia per più di mezzo secolo.

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