Artide distende lastre lucenti, arma inverni di diamante. Nel teatro del gelo svernano arcani severi, nitidi come spilli. Schiere di angeli e giaguari, serpi e pantere prendono vita dal paesaggio, mentre il nibbio e il corvo volteggiano in un sole ostinato, che «esercita i suoi sciacalli». È così che Davide Brullo crea gli orizzonti di Lince, opera poetica dura e vergine, distesa nel chiarore. La voce del poeta è un monito reiterato, caparbio, che scorre tra parole insorte. Indagine primigenia, che diviene escatologia a ritroso, e detta strage di ogni docilità. La rivelazione condivisa da Brullo discende nello smisurato, nel barbarico, assedia il mutismo del ghiaccio. Il presagio è un lampo che sovverte, impone nuovi feriti esordi: il segreto occhieggia, si espone e arretra. Poi si iberna nel suo dedalo bianco, vegliato da creature addestrate ad atroci candori.
Lince è dapprima un immaginato dialogo intimo tra due Fratelli in spirito: Davide Brullo tratteggia una conversazione con Andrea Temporelli, in risposta a una sua egloga ancora inedita, e questo mimato scambio diviene un porgersi il mistero sul palmo, l’un l’altro, con parole bibliche, incise su crinali di pietra: «D: Il padre è innumerevole – la menzogna d’edera rende / l’albero un predicatore – è dall’era dei giubilei / che dividiamo i fratelli […] A: armati a perdere per desiderio – rinnova / la ricerca – finché non ami lo scomparso / il resto è sconfitto».
Da questo dialogo «polare», volutamente «mutilo» e «parte parziale del simbolo», l’opera si dispiega in abbacinate Cronache artiche, in accorate Lodi di città evanescenti e vie d’acqua sotterranee: le stelle a guida, come candele in processione, lungo un «destino scorsoio», a «dedurre l’altro mondo». Ci sono, in Lince – come Pontiggia, accurato prefatore – le «lande vitree dell’ultimo cerchio infernale» dantesco, un «immane bestiario […] dai contorni sinistri», «l’arduo […] orizzonte teologico e patristico» che l’autore conosce nel dettaglio e «l’enigmatica sapienzialità» dell’Apocalisse di Giovanni. Ma Davide non è solo conoscenza, per quanto smisurata. C’è, nei suoi versi, un’innocenza pervasiva, radicale, una purezza disarmante che rovescia continuamente la brutalità in carità, la meta in esodo: «Ho rincorso il resto fino al decimo mondo dove gli an- / geli mondati di ali hanno andatura di ghepardo». Sua l’inesausta ribellione, la continua smentita del riparo: chi posa soffoca il cammino, ristagna in epifanie mancate. La pace di Brullo, se ve n’è una, non è spenta in stasi, ma si svelle in continue antinomie, dove diffida e agguato sono la via, la rotta astrale dei giorni: «Onorare l’avversario perché è lui l’unico / avvertimento risposi – non sanno che il corvo / è l’estensione di un precetto».
Sono lande artiche ma non desolate quelle di Davide Brullo. Bisogna salire alle latitudini del gelo, dove il respiro è un ideogramma di vetro e il sole intaglia profezie negli occhi. Arrivare al ghiaccio, al Tetragono muto che divora ogni impatto: l’enigma è silente, s’acquatta in falde sommerse come un drago addormentato, ma rivolge a chi non teme sanguinarie attenzioni: arma fiere alate, felini puntuti di artigli. Tali creature sovrane, negli scenari di Davide, camminano sinuose come i decenni, evocando presagi. Chi saprà piegare le ginocchia avrà risposta, sembra dire il poeta, affilandosi in preghiera. In queste stanze non c’è il grigiore della vanità, l’illusione e l’accumulo: l’anima deve dismettere sé stessa, farsi esule e mendica, tralasciandosi.
Nella ferocia primaria, che non infligge ma dilania, l’ultima innocenza. Quell’imperativo che si fa unica legge: occhio immobile, stella dura che, dai millenni, ci guarda. In Davide, la lealtà accanita, per abrasione; un privarsi del fatuo, strato per strato, verso un annientamento che non avviene, perché il nucleo di limpidezza così sottratto all’esistenza diviene piccola cosa rara, continuamente intagliata in esilità e lucore.
Il rapporto di Brullo con il sacro è struggente, il suo dialogo interiore è un desiderio devoto fino alla fiamma: «So che sparirai ma fammi credere / di non avere preistoria – di essere nato / integro e senza speranze – spietato / nella nube d’erba come in una casa / avido a snidare la tigre dal suo mistero / e ad accudire i figli nel timore […] dimmi che possiedi la perla e il silenzio / che la fiamma fiorirà in un verbo / più duraturo del cielo e da lì / nascerà ancora un dio –»
Il suo voto di integrità sembra non permettergli di addomesticare nulla, né di posare in alcun rifugio o conforto: «Eppure bisogna scegliere un fuoco – costruire / il sole ulteriore – per sciogliere il ferro dalla fede / distinguere cena e censura – e curvare / il corpo tra le risaie dell’ombra – // si è uccisi sempre per fraintendimento per / l’amore meno importante»; perché Brullo è ribelle al rimedio, efferato in amore, radicale nel dono: «Puoi risalire alla simmetria solo / dallo strappo – dal corpo crudo – il resto / è la perfezione prevalente di chi inneggia».
Del tragitto sconnesso, il traguardo è un crollo; e la via un folle, holderliniano Pallaksch, divenuto poi celaniano inconciliato tra poesia e azione umana nella storia: affermazione e negazione continua, assenso nel dissenso, in creazione «speculare alla città», passeggiando «sul lago ingigantito dal ghiaccio», sovvertendo qualsiasi principio, «regale», in perenne «creazione contraria».
Il gelo spoglia dell’inessenziale, induce a deporre ogni «stanzialità», ad accogliere «un’etica distillata tra le migrazioni», perché nulla è conclusivo, e l’itinerario è un tenace nomadismo: «Il ghiacciaio deforma l’idea / di solidità – divarica maree / e conversioni».
Il paradosso: forse solo nelle lande polari è accolto il vessillo umano, il gesto di misericordia: «L’anacronismo ci portò tra i ghiacci / questa cronaca di baie e di balzi / dove hai deciso di piantare una città / capace di elargire sospiri»; tutto si rovescia nel suo opposto, questa è regola antica: nel brivido il calore, nel difetto la benedizione: «Nel dedalo l’indeciso è lo splendore», ma anche: «La pace spropositata che è ignota a chi non muore»; ancora Hölderlin, accanto: «Ma ne hanno abbastanza / della propria immortalità gli dèi, e abbisognano / i celesti di una cosa, / perciò sono eroi e uomini / e anche mortali» (Friedrich Hölderlin, Poesie scelte, a cura di Susanna Mati, Feltrinelli 2018).
L’Artide è vestibolo, anticipazione, dove «s’impara a pietrificare la pretesa / a inferocire la fede», e dove «anche il mistero si snerva in neve»; il gelo è rigoroso, addestra all’esistenza nel pianto, educa alla provvisorietà: «“A Nord un grido sgretola / la cronaca e inchioda i ghiacci all’onestà” / è scritto nell’anagramma delle aurore»; luogo tirannico, perentorio, ma che apre il passaggio: «Basta che gli occhi defluiscano tra le dita / e venga dettato un nome perché esista / l’al di là – l’Artico è un antefatto».
C’è un’inconosciuta origine che ci tiene aggiogati, «quel fischio che ogni notte / come una biglia d’argento / perfora i giorni fino al primo», e la difficoltà mai superata di comprendere l’esistenza, il fluire, la precarietà consustanziale all’esistere. Nell’inazione apparente del ghiaccio tutto accade in essenza: «“decisi il ghiaccio per gustare / il giorno che ha l’intensità / di un millennio –” è scritto», perché nel glaciale è l’assoluta sconfitta, germe di disarmo e a un tempo di audacia che, nell’inversione di ciascun ragionevole principio, inspiegabilmente, collimano: «Nell’umiltà non si esplora il verbo / e la sua marea – un risveglio negli / occhi dell’abete – “siete come le narici / dei santi intinte nell’argento / e inchiodate sul bordo degli / inginocchiatoi dove l’inno sgrava / le ossa in salto” –».
In aiuto, la preghiera: intaglio inesausto del monolite d’incredula materialità: «La preghiera è di legno te l’ho detto? / il giorno torna ad accucciarsi nel buio / è barbaro e bello – in ostaggio», e va sfiorata con cautela, pronti alla disgregazione di ogni intento: «Va percorsa in obliquo la preghiera / tra le vocali vocifera la iena – / l’acqua ha l’abitudine della terra / dice l’uomo che apre l’inno / con mani simili ad aratri […] solo chi si arrende non arretra». L’umano è chiamato a rastremarsi per discernere l’innocenza: «Cardare di un uomo / il sibilo blu – dove la fede s’insabbia in sonno // nel cauto scalpitio delle nuvole / di un viaggio va riconosciuta la sposa».
Siamo qui, dove la gloriosa narrazione che l’uomo fa di sé stesso mostra tutti i falsi meriti, le gioie spurie, l’inautentico che ha ucciso la speranza e la parola, sepolto l’amore: «Non gronda la Storia – la redditizia – perché la speranza / è sparita e le parole siedono nel diamante // dove potrei amare allora?».
Già Celan scriveva: «Venisse, / venisse un uomo, / venisse un uomo al mondo, oggi, con / la barba di luce dei / patriarchi: potrebbe, / se parlasse di questo / tempo, potrebbe / solo / balbettare e balbettare» (Paul Celan, Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, trad. Luigi Reitani, Meridiani Mondadori, Milano 1998).
Brullo è patriarca, ma non balbetta: ha in sé albori irriducibili, che irradiano dall’umiltà spavalda di chi vede oltre il valico. Lince è il canto di chi va scalzo tra i rovi, di chi abbraccia la base della croce: il poeta si fa profeta, e rifiuta ogni facilitazione, ogni illusa rivalsa sulla propria miseria d’uomo.
Chi ha visto l’Antartide ha parole precise. Non assoluzioni ma istanze interrotte, orme di lupo, ombre sul fondo del lago. Il ghiaccio ricopre i germogli, si issa nel rifiuto, dissuade. Solo il disertore dei ripari, delle confraternite, delle pacificazioni ne avrà un cenno. Chi si fa scoria, residuo, chi tentenna avrà, per un istante, la torcia sulla via.

da Lince (Crocetti editore 2022)

manca il falco così il blu
è sacro per disparità –
ma le mani non sono
un oracolo – se ne servono
come se avessi legge sulle acque –
ricorda che all’ora si arriva
spogli – dimentichi dei figli –
l’uomo che sa tagliare gli alberi
potrebbe guidarci dentro l’oceano

*

per benedire l’acqua dev’essere dura
bisogna poterla alzare come una scala
le stelle sembrano candele impugnate
dalle vedove in una disordinata processione –

nel tabernacolo della sera – quando la luce
è illecita – vanga le ombre nella vanità opposta –
l’agguato è dappertutto – neanche i cani sbandano
perché qualcuno guarda e non ha occhi –
– solo una madre può sradicare i balconi –
ridere di una infelicità

*

dorme sotto la scrivania per ricavare
un’infanzia – chi nuota conosce
i nodi del sonno –
un dio d’acqua punteggia di mattini la sera
“quando si è soli credi nel mondo –
non attendi una posterità e non t’importa
che prosperi la terra – strisce d’erba
adombrano le dune a un destino – sembrano
lupi elettrici –
ma io amo soltanto chi non ha dote”

*

lungo il paradigma del digiuno conduce gli accoliti a
dedurre l’altro mondo nelle mani ad aureola –
il resto lo fa la nebbia che inneggia l’acqua in una grigia
teologia di addii –
“rinnegare la città estiva – patria di troppi veli – complica
il nomadismo in una corsa perenne”
la fame sfigura il corpo in un suono – ma è per quel richiamo che si avvia la lince
che il desiderio sia una scorciatoia e scorsoio il suo destino
lo sanno anche gli esseri fatui – i pentametri del sacro – creati per scorrere

Davide Brullo (Milano, 1979) ha pubblicato Annali (Atelier 2004), L’era del ferro (Marietti 2007), Abbecedario antartico (Raffaelli 2017), Gries (Aragno 2019). Ha tradotto i Salmi e le poesie di David Gascoyne. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Rinuncio (Guaraldi 2014), Pseudo Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (Melville 2018), Un alfabeto nella neve (Castelvecchi 2018), Nabokov (Compagnia Editoriale Aliberti 2021). Ha fondato il quotidiano culturale on line «Pangea»; scrive su «il Giornale» e sul «Venerdì di Repubblica».

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