Giacomo Leopardi ha scritto nello Zibaldone che «la natura ha posto nell’uomo una inclinazione illimitata al piacere», una «tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo»[1] che diventa motivo di ardore e nello stesso tempo di patimento e sofferenza. È il grande tema leopardiano della frattura ontologica dentro cui l’uomo vive, sospinto tra il desiderio di felicità e il dolore per la finitezza.  Davide Rondoni in E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo (Fazi 2019) si riallaccia alla riflessione: il problema più vero è avere a che fare con quella briciola, quel germe o barlume o scintilla di desiderio che l’essere umano porta inevitabilmente dentro di sè; questo rapportarsi, nel tempo, può diventare un dialogo intenso oppure una lotta disperata.

«L’infinito è diventato il mio tesoro. La mia carta di credito con la vita. La fontana che guardo sempre con la coda dell’occhio quando le giornate e il cuore induriscono»[2] scrive Rondoni, e così aiuta il lettore ad accorgersi, a spostare lo sguardo dentro al proprio presente, a prendere in considerazione la vita interamente. Poi continua: «Sto forse dicendo che l’infinito esiste? Si. Ma esiste in un luogo che da ora in poi chiamerò: “non altrove dalla poesia”. È un luogo irraggiungibile? Inesistente? Un luogo solo per eletti? No, non credo proprio. Il luogo “non altrove dalla poesia” è vicino a ognuno di noi, a volte basta girare lo sguardo un attimo per esserci, per ritrovarsi lì. Dipende da cosa si fissa… Credo ci sia una paradossale e quasi divertente indicazione da cogliere nel fatto che, per scrivere una cosa ispirata all’infinito, Leopardi sia andato poco lontano da casa sua».[3]

È ben nota l’avversità che Leopardi sentisse per quello che diceva essere un borgo selvaggio, per il suo paese marchigiano fatto di gente umile che zappava la terra, modellava il ferro, andava a messa tutte le domeniche, per una famiglia costrittiva e moralista. Il giovane Giacomo aveva paragonato se stesso ad un uccellino in gabbia sin dalle primissime poesie fino ai componimenti più famosi.[4]

Quanti di noi anche oggi soffrono per le poche opportunità offerte dai meravigliosi e piccoli paesi del centro e soprattutto sud d’Italia? Quanti di noi se ne sono andati per cercare occasioni, lavoro, un movimento vitale e cittadino che desse quantomeno l’idea di qualcosa che si fa, “si dà da fare” in contrasto con l’apparente fissità di un borgo collinare o appenninico dove sembra che la storia non sia mai passata a cambiare le abitudini delle persone, dove è sempre tutto uguale, tutto in apparenza statico.

Le Marche hanno il tempo della distensione, le aperture vaste del mare, i campi assolati, le colline morbide, i Sibillini silenziosi alle spalle; le Marche hanno un tempo che Leopardi in poesia ha fatto diventare nostalgia, a volte noia. Egli, dal colle di casa sua, vedeva questa distensione spaziale e temporale, partecipava ogni giorno a questa nostalgia.

Nostalgia significa dolore del viaggio di ritorno: ma casa sua era dietro l’angolo, non se ne era ancora mai andato, di che “ritorno” stiamo parlando allora? Che movimento aveva bisogno di sentire Leopardi a vent’anni quando scrisse l’Infinito?

Davide Rondoni in questo libro aiuta a “con-prenderlo”.

Il titolo riprende la seconda parte dell’ottavo verso, «e come il vento», proprio perchè, per la lettura che ne fa Rondoni, è un passaggio fondamentale: dopo la vista del colle, della siepe, l’intuizione dello spazio nascosto sul fondo e la fusione pensiero- paesaggio, all’io poetico accade qualcosa. Un dato di fatto reale cambia le carte in tavola: arriva il vento, un soffio naturale che passa tra le foglie e le fa battere come ali negli stormi. Allora cambia tutto: cambia la visione, si allarga la prospettiva, il cuore è alleggerito dal peso che prima sentiva e l’io diventa finalmente del tutto partecipe del presente. “Comparare” è il verbo usato da Leopardi, cioè legare, rapportare, quindi entrare in dialogo, mettere sullo stesso piano la voce umana e «l’infinito silenzio», il piccolo e finito con l’immenso e smisurato, il mortale con l’immortale, il tempo con l’eterno.

«La voce udita tra le fronde, grazie al paragone che il poeta fa con il silenzio, genera uno spazio in cui tempo ed eterno coesistono, o meglio sovvengono insieme nella coscienza del ragazzo. Uno spazio, dunque, fulmineo […] che non genera più spauramento, ma una diversa disposizione. Una disponibilità infine ad annegare “in questa immensità”»[5].

Rondoni parla di “disponibilità ad annegare” nell’immensità che è il vivere, una sorta di coraggio, di “apertura rischiosa alle cose”, un’indicazione di metodo proposta ad ognuno di noi che si faccia sguardo dentro la quotidianità: seguire il reale per mettere in moto la ricerca di senso, riaccendere un grido per entrare in dialogo col presente, senza volerlo per forza sempre dominare o, al contrario, subire. Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò li aveva chiamati «quei loro incontri»[6] cioè i momenti in cui l’uomo poteva mettersi in rapporto con l’infinito e camminarci al fianco[7], tendervi, anche grazie all’indagine della parola poetica.

«Essere vivi coincide con l’essere attenti ai segni»[8] scrive Rondoni, un anelito attuale, anzi forse più urgente che mai, è l’essere capaci di intravvedere sotto la scorza del mondo un senso vivo. È il sovvenire di un dialogo misterioso che Leopardi e Rondoni ci indicano ancora come possibile.

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«Cammino per strada e provo a difendermi dal gremito, dall’ipervisibile, dall’esplosione. Dal feroce Sistema di Narciso.

Una difesa, o forse un attacco, è prestare attenzione ai volti delle persone, ai volti reali, ai loro occhi, ai segni che si leggono nei volti. Lì spesso vive l’inimmaginabile, una specie di infinito e di sovrumano silenzio.

Anni fa mentre mi recavo a New York a presentare un’edizione dei Canti, rimasi colpito nel leggere che le ultime parole pronunciate dal morente conte Leopardi sarebbero state: «Non ti vedo più…» rivolte al viso del discusso amico Ranieri.

Ne nacque una poesia che violentemente infilo qui, mentre procede il commento dei suoi inarrivabili versi. Ma non possiamo commentare le poesie altrui se non mettendo il nostro magone in quelle parole, le nostre lacrime e la nostra ricerca in quegli occhi:

 

Mi piace New York quando finisce

nella luce,

il ventaglio che si apre sopra le deviazioni

e le cime

a Battery Park o Riverside,

il bianco favoloso incendio

che la compie

sopra ogni slancio

è là che guardavo per cercare

te, e non avere solo

il ragno delle città adosso

tra chi scarica camion di pesce congelato

che brilla sotto gli schermi giganteschi

e passi frettolosi controvento–

una frase di Leopardi mi ha dominato

nella meravigliosa rosa di vetro:

non ti vedo più.

La sua ultima cosa

prima di morire.

E io non la voglio mai dire.

Sempre ti vedrò,

mio amore alla fine di ogni maestà

anche dai ponti che portano via

nel fuoco, nei ghiacci

alla fine di tutte le città»

 

[1]Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Oscar Mondadori, 1980, pag. 143 e 134

[2]Davide Rondoni, E come il vento. l’Infinito, lo strano bacio del poeta al mondo, Fazi Editore, 2019, pag. 17

[3]Ivi, pag.17

[4]Cfr. G. Leopardi, l’Ucello, Favola in “Entro dipinta gabbia” tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi di Maria Corti, Bompiani, Milano 1972, pag.161 e Il Passero Solitario, Canti, Bur, 2001, pag. 68

[5]Davide Rondoni, Op. Cit. pag. 146

[6]Cesare Pavese, Gli Dei, in Dialoghi con Leucò, Einaudi 1999, pag. 171

[7]Cfr. la posizione di Antonio Santori, La poetica dell’incontro, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata” XVIII, Antenore, Padova 1986

[8]Davide Rondoni, Op. Cit. pag. 147

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