Lo scorso novembre è uscita per Crocetti Editore la traduzione italiana dell’Odissea del poeta greco Nikos Kazantzakis (1883-1957); non si tratta dell’opera che lo presenta al pubblico italiano, al quale è già da molto tempo noto per i romanzi L’ultima tentazione di Cristo, La seconda crocifissione di Cristo, Francesco e soprattutto Zorba il greco (da cui è tratto l’omonimo film che ha reso celebre il sirtaki), peraltro reperibili anche oggi da Frassinelli o dalla stessa Crocetti, ma è senz’altro quella che lo fa conoscere, o sarebbe più corretto dire lo ricorda, a un pubblico e a un’editoria a volte poco interessati ai grandi classici specie se difficoltosi.
Nicola Crocetti, grecista, traduttore ed editore di poesia, non solo con la casa editrice ma anche con la prestigiosa rivista, ha svolto e svolge un lavoro egregio e senza pari nel farci conoscere la grande letteratura greca del Novecento, dove indubbiamente la parte maggiore spetta alla poesia (Kavafis, Kariotakis, Elitys, Seferis, Ritsos, solo per fare alcuni nomi, non possono essere ignorati da chiunque si occupi di letteratura, non importa il secolo, il genere, la lingua), e alla quale aveva, nel 2010, dedicato un bellissimo meridiano come non ne esiste (pessima abitudine) per nessuna altra poesia contemporanea straniera.
In questa gigantesca raccolta il cretese Kazantzakis, pur presentato come uno dei maggiori autori, restava più che altro una promessa incompiuta, un migliaio forse di versi dalla sola Odissea, che non permettevano di capire granché. Oggi che Crocetti, che ne è il traduttore, ha mantenuto la parola capiamo perché: si tratta di un’opera mastodonica di 33.333 versi in 24 libri (i canonici fissati dal numero dell’Iliade e dell’Odissea), come lo stesso autore e il curatore affermano il più lungo poema epico occidentale: per dare un’idea è superato dal Libro dei re di Ferdowsi (100.000 versi), dal Mahabarata ( versione più lunga 95.000 versi), ma supera ampiamente il Ramayana (circa 24.000) e gli stessi poemi omerici messi insieme (circa 26.000), un raffronto con l’Omeros di Walcott (un po’ più di 4.000) è quanto mai eloquente: Kazantzakis infrange il veto anti-poematico della modernità poetica.
Se come è possibile, se non certo, conosceva il divieto alle lunghe composizioni espresso da Poe nella sua Filosofia della composizione, secondo cui non sarebbe possibile tenere alta la tensione poetica per un così lungo tratto, e via Baudelaire immesso nel novecentismo con il quale tutti noi siamo vaccinati, non deve essergliene importato pressoché nulla, come del resto nulla gli è importato delle critiche quasi unanimi degli omeristi, dei puristi, dei filologi e dei critici grechi che, all’apparire del poema nel 1938, lo criticarono ferocemente (come Crocetti, con un qualche innamoramento per il suo beniamino, ci informa nella sua introduzione) per la sua abnormità e la lingua.
Dobbiamo fidarci, dato che il testo a fronte avrebbe comportato un volume di milleseicento pagine, del curatore che ci racconta come Kazantzakis, indefesso viaggiatore e cronista, per qualche anno anche nel corpo diplomatico, abbia passato anni raccogliendo dalla viva voce dei contadini e dei marinai greci termini della lingua orale per il suo poema, spesso preservando parole che altrimenti sarebbero state perdute; ciò portò una parte della critica a definirlo popolareggiante o addirittura scritto in cretese e per di più in un metro insolito per la tradizione greca: il decaeptasillabo, verso di diciassette sillabe a fronte del più canonico, per i greci, decapentasillabo. Un plauso assoluto si deve andare al traduttore che ci ha fornito una traduzione isometra (motivo per il quale gli sono serviti dieci anni di lavoro) e per farlo ha saputo abilmente ricorrere a tutte le risorse linguistiche dell’italiano, dagli arcaismi alle espressioni dialettali, dai dantismi a originali composti e neologismi.
Si sente evidentemente che questo poema in lingua originale deve essere un’altra cosa, ma anche così Crocetti ci restituisce abbastanza intero il senso del canto ritmato e regolare (caratteristico dell’epica) unito alla irrefrenabile furia verbale e immaginativa di Kazantzakis, evidente ad esempio nelle centinaia di rutilanti epiteti e espressioni formulari.
I seguiti moderni di Omero si sprecano, da Tennyson a Pascoli, da Walcott alle versione pop di Baricco e Petersen: Ulisse, come ci ricordano gli studi di un comparatista di vaglia quale Boitani, è una delle figure che più ha affascinato la modernità che spesso ne ha fatto l’archetipo dell’individuo, rispetto al quale Adamo, archetipo dell’uomo, sembra un pesce lesso; questo però è enormemente differente da tutti gli altri: il punto di partenza è sempre il ritorno ad Itaca e la profezia di un secondo viaggio di Ulisse, ma entro il terzo il libro la materia omerica è liquidata, Laerte morto, Penelope ignorata e ignobile, Telemaco rimesso al suo posto dopo aver tentato una patetica congiura contro il padre che, per tutta risposta, gli dà esattamente il regno che avrebbe voluto e lo costringe a sposare Nausicaa.
La rapidità con cui Kazantzakis si trae d’impaccio e si libera dello stesso Omero come dell’impalcatura appena necessaria ai primi piani della costruzione è speculare al carattere del suo stesso eroe, che è forse la sola cosa a somigliare vagamente all’originale, incapace di stare fermo, sempre aspirante a più alte mete, irrealizzabile si direbbe oggi, nemico di tutto ciò che radica, sia esso l’affetto, la paura, l’abitudine, la certezza, ma alla fine persino il possesso e il potere, non a caso verso la fine del poema Ulisse sarà solo e diventerà un asceta, un mistico e poi un dio.
Istruttivo è il confronto tra Telemaco e il padre. Nel primo il poeta ritrae l’aborrito piccolo borghese compito e un po’ codardo, che vuole essere giusto e amministrare bene il regno e con rispetto delle nome, della tradizione e delle regole e che è soprattutto assetato di sicurezza; uno che vuole mettere su casetta e non pensarci più (come in genere hanno fatto e fanno tutti i telemachi che tentano di alzare la testa al giorno d’oggi), ma che in fondo è anche, come i piccolo borghesi, desideroso di potere e di possesso; Ulisse è invece, in una parola, il superuomo, l’individuo eccezionale, il moderno aristocratico.
A costui si addice solo l’infinito viaggio e tale è quello che copre la maggior parte del poema del quale non è sempre facile seguire la trama nel profluvio dei versi, (un lungo sommario posto nell’introduzione aiuta assai) ma che tentiamo di riassumere. Risolte le questioni sospese ad Itaca Ulisse si cerca pochi compagni, anch’essi mastodontici in quanto a sete di vita e magnanimi come il loro capo, Capitan Conchiglia, Centauro (un ciccione che è forse il solo personaggio canonicamente “buono” del poema), il cantore Orfeo, il Bronzista e Granito, il gruppo parte verso Sparta dove Ulisse ritrova il vecchio compagno Menelao, oramai un re vecchio e indebolito, alle prese con tumulti e insorgenze popolari proprio mentre una sconosciuta popolazione barbarica giovane e forte (i Dori) sta per invadere il suo regno. Ulisse rapisce la consenziente Elena, bellissima e distruttiva come in Omero, e prende con sé il giovane Roccioso, poi il gruppo fa vela verso Creta.
Su Creta regna Idomeneo che amministra una corte e una civiltà lasciva e decadente e si mantiene in vita grazie a sacrifici umani e a un patto segreto con una divinità-toro alla quale sacrifica anche le figlie. Ulisse distrugge quel regno immondo ordendo una congiura grazie ad Elena che lascia ad un giovane e forte amante dopo aver nominato il Bronzista re della nuova Creta e seppellito il defunto Conchiglia. Il gruppo giunge in Egitto, retto da una feroce teocrazia e da un faraone imbelle, dove è in corso un tentativo di rivoluzione capeggiato da Rala, Nilo, Falcone e Scarabeo (ritratti di Rosa Luxemburg, Lenin, Trockij, Stalin), ammirato dall’eroismo dei rivoluzionari Ulisse si unisce a loro ma gli insorti vengono sconfitti in battaglia, dopodiché, morta Rala, Ulisse guida (come Mosè) i suoi in un esodo dall’Egitto per fondare una città ideale ma comincia anche la diaspora dei compagni: Roccioso segue la sua strada e diviene re di una tribù di cannibali; durante il viaggio verso le sorgenti del Nilo il gruppo è attaccato più volte e Orfeo, mandato a chiedere cibo in un villaggio, si converte a un culto idolatra. Raggiunte le sorgenti Ulisse si ritira su un monte dove ha una visione della città ideale e di Dio come fuoco che permea l’universo; la città è costruita ma dopo poco distrutta da un’eruzione nella quale trovano la morte Granito, Centauro e anche Roccioso sopraggiunto in aiuto. Ulisse ora è solo e lo resterà fino alla fine del poema, comincia il suo percorso di metamorfosi: fattosi asceta Ulisse è venerato come santo ed incontra la Morte, la Tentazione e Buddha, nelle sembianze di un principe, i due entrano in una città dove sono accolti dalla prostituta Margarò che amoreggia con Ulisse prima che questi riparta. La tappa successiva, dopo che Ulisse come Buddha è illuminato, è alla corte del principe Eliàs che sacrifica alla lira e al canto i suoi sette figli, in seguito incontra Capitan Uno (Don Chisciotte) e lo salva dai cannibali, egli lo riconoscerà come suo simile e ugualmente farà il Signore della Torre, nobile solitario dedito ai piaceri dal quale però Ulisse si allontana, segnando il suo definitivo distacco dall’edonismo.
Giunto al limite estremo dell’Africa viene nuovamente venerato come dio, ma sceglie di vivere da mendicante finché incontra il Pescatore (figura di Cristo) e i due si parlano: Ulisse lo stima ma si riconosce diverso, per questa ragione naviga ancora una volta verso il polo Sud.
Dopo essere rimasto qualche tempo presso una tribù dell’Antartico si lancia in un viaggio in canoa tra i ghiacci guidato solo dal pensiero della Morte, unico e ultimo mistero inesauribile e insieme compagna delle peregrinazioni del navigatore; approdato su un iceberg Ulisse costruisce una grande nave di ghiaccio e chiama a raccolta tutti i defunti e i personaggi del poema che gli si schierano davanti in omaggio alla sua dipartita, memorie, ricordi e sensazioni ormai unite in una dimensione sovratemporale; alla guida della nave di ghiaccio delle ombre l’eroe entra nell’abisso del Maelstorm e scompare.
Ce n’è abbastanza per porsi di fronte a questo libro la sciocca alternativa, o l’autore è completamente pazzo oppure è un genio, e nell’ordine delle considerazioni generali risalta evidente l’interesse di Kazantzakis per i racconti fondativi, i miti, le cosmologie, le grandi visioni della storia dell’umanità e le figure storiche o simboliche in cui queste si sono espresse. È del resto una caratteristica di tutta l’opera del greco, che è stato anche traduttore del Faust, della Commedia e di Shakespeare, e che prima dell’Odissea ha composto un poema intitolato Cristo e più tardi comporrà una tragedia su Buddha.
Il poema può essere diviso più o meno in due parti: la prima va fino alla distruzione della città ideale, in essa vi sono personaggi e scontri di caratteri, le vicende si svolgono ancora sul piano della storia (sia pure la storia immaginosa dell’epica che, come insegnava Bachtin, è sempre passata e indistinta) e di una geografia abbastanza riconoscibile e sono le vicende della politica non aliene all’epica: congiure, guerre, rivolte, cadute di regni e fondazioni di città, ma quando quella fondata da Ulisse è distrutta avvertiamo un distacco, simboleggiato dal periodo di ritiro ascetico, e sentiamo che il protagonista, sostanzialmente unico elemento di coesione della vicenda, non è più lo stesso. Tutta la seconda parte dell’Odissea sarà il racconto del suo distacco spirituale dalla vita, di un trasumanare, per usare la parola di Dante che vorremmo sapere se nella versione greca è stata da Kazantzakis impiegata, che idealmente potrebbe anche tutto svolgersi nella mente e nell’anima dell’eroe.
Questo autore, naturalmente, fosse pure stato pure l’individuo superiore e assoluto al quale ha eretto un monumento poetico e che, naturalmente, incarna prima di tutto la sua personale filosofia e visione della vita, non è certo vissuto isolato e anzi è stato tra i più attivi e affaccendati protagonisti del suo tempo.
Siamo evidentemente all’interno di un panorama politico sociale e culturale che è quello tra le due Guerre (le date di nascita e morte ci ricordano che siamo ad esempio nell’epoca di Thomas Mann, di D’Annunzio, Di Musil, Di Unamuno, oltreché ovviamente del conflitto tra socialismo e capitalismo e dell’emergere dei fascismi) e che si riflette sulla personale cultura di Kazantzakis, il quale non solo seguì lezioni di Bergson e conobbe e intervistò Unamuno, ma anche Primo de Rivera e Mussolini e condusse, dopo essersi occupato della questione dei profughi greci dall’Asia Minore a seguito dell’invasione turca, attività politica con i gruppi comunisti dell’isola natale, preparando anche una fallimentare insurrezione armata forse rievocata nel poema.
Quel periodo convulso e terribile, che nondimeno ha dato nella sua ferocia e nell’emersione di nuovi attori e grandi masse sulla scena della storia anche probabilmente l’ultima (per ora) stagione di fioritura di grandi autori di livello mondiale in ogni nazione, lingua e schieramento culturale (cosa che in seguito è avvenuta su livelli geograficamente e culturalmente più circoscritti), è facilmente rintracciabile in tutte le sue mitologie non solo superomistiche tra i versi dell’Odissea.
Oltre ad un Bergson di cui è enfatizzato l’aspetto vitalistico, formano l’orizzonte ideale del poeta cretese soprattutto Nietzsche, sul cui Zarathustra Ulisse stesso è scopertamente modellato, e Spengler, il cui Tramonto dell’Occidente è imprescindibile per comprendere il senso della storia che sorregge questo poema. Autori che alla metà degli anni Venti, epoca cui risale la concezione dell’opera, erano buoni, anzi ottimi, tanto per la destra quanto per la sinistra (come sarebbero tornati ad essere verso la fine degli anni Settanta) e che l’autore ha avidamente letto, tradotto e utilizzato: è fin troppo facile riconoscere nella frequente evocazione di civiltà e imperi decadenti (Sparta, Creta, l’Egitto) sostituiti da forze giovani (i barbari, i biondi invasori dorici che mietono i campi del Peloponneso) la morfologia organicista di Spengler secondo cui le civiltà conoscono un ciclo vitale di nascita, espansione (guerresca e culturale), consolidamento e poi sclerosi, decadenza e morte per opera di nuove e più giovani forze; è così facile da essere persino troppo ripetitivo e da generare un qualche fastidio alla terza occasione dopo diverse migliaia di versi, tanto più che, nell’immaginario poetico di Kazantzakis le civiltà decadono tutte allo stesso modo: lusso, banchetti, cortigiani imbelli, schiavi trattati sadicamente, cortigiane nude e orge a non finire, se ci è concessa una stoccata ad un uomo pur tanto intelligente e geniale, questa è precisamente l’idea della decadenza che ha un piccolo borghese, non certo un superuomo.
È possibile, e un po’ più interessante, che l’autore abbia mutuato anche da questi suoi riferimenti l’idea che l’alternativa al soppiantamento da parte di una civiltà più vigorosa sia la comparsa di una grande personalità, di un grande statista e condottiero in grado di risollevare le sorti di un popolo (altra idea che, purtroppo, notoriamente circolava in Europa tra anni Venti e Trenta e che ha prodotto molti mostri e mostriciattoli tra cui i duci e caudillos che il nostro intervistava) e non a caso Kazantzakis è stato anche traduttore e senza dubbio lettore attento del Principe di Machiavelli.
Versi di sicura grandezza poetica (per darne infine un esempio e perché non sembri che stia cercando un trattato sul buongoverno dove non ci deve essere) e che hanno il sapore di certe pagine del segretario fiorentino sono quelli dell’intervento di Ulisse per sedare la folla inferocita degli spartani e più tardi del confronto con il “decadente e capitalista” re Menelao:

Come due splendide comete, i due re si gettano
veloci nella pianura lasciando una scia di luce.
Tacciono. A un tratto l’anima fiera tocca il ginocchio
del compagno, e piano, in tono afflitto, gli confessa:
“Amico, il cuore non lo sopporta, provo vergogna
a ingannare il mio popolo per conservare il regno;
per un momento l’anima voleva dire la verità,
ma ho tremato, fratello, sotto il tuo sguardo cupo!”.
Il Tessitore sorride amaro, disprezza in silenzio
chi non ha ancora appreso come si governa il mondo,
perché un sovrano deve avere un cuore duro e scaltro;
sua madre lo ha fatto agnello, pastore la malasorte.
“Amico, la tua bocca sorride ma non dici nulla”.
[…]
L’Uomo che tutto vuole sospira, ha il cuore oppresso;
la sua mente non è mai stata al servizio della terra,
né ha mai voluto vivere come il padre da colono;
ma a volte guardando dalla nave le spighe turgide,
le vigne, gli olivi e i contadini chini sulla terra,
sospirava amaramente di nascosto dall’equipaggio
come se un vecchio aratore in lui arasse ancora.
[…]
La mente china sulla terra femmina con lei si fonde,
come quando la donna si unisce all’uomo, e insieme
generano semi, procelle, figli e sogni di bruma;
la grande coppia si accarezza e fruttifica nel sole.
Ma di fianco il padrone Menelao pesa ogni cosa,
il fosco sguardo sempre vigile dappertutto al mondo
vede solo raccolti e interessi, il tuo e il mio.

Il grande uomo vede soprattutto la vita che cresce, l’inesausto ciclo delle generazioni, il capitalista (il plutocrate direbbe una certa mistica di destra non troppo aliena a Kazantzakis) vede un quanto, una unità di misura di ricchezza espandibile.
Anche per questo Ulisse e il suo poeta avvertiranno una maggiore affinità con i rivoluzionari egiziani, affascinati soprattutto dal loro coraggio, dalla loro disponibilità alla morte per una visione del mondo e dall’avversione per le società statiche e ingiuste; Ulisse si unisce subito a Rala e agli altri, ma mentre questa (la spartachista Luxemburg idealmente) si innamorerà di Ulisse e prenderà parte al suo ultimo viaggio, dopo essere stata sconfitta, con gli altri sarà molto meno tenero perché commettono il torto fondamentale di continuare a vivere e di non cadere eroicamente; saranno infatti più diffidenti nei confronti di Ulisse e il dialogo con Nilo (Lenin) dopo la sconfitta dei ribelli è eloquente: il capo rivoluzionario è forse l’unico, oltre al Pescatore, che in un duello verbale non esca come minuscolo rispetto a Ulisse (segno evidente della sotterranea attrazione che grande reazione e coerente rivoluzione provano l’uno per l’altra come avveniva anche nell’Europa dell’epoca), ma la loro diversità è palese e tanto Ulisse lo giudica un po’ miope e gretto quanto Nilo dà tutta l’impressione di aver altro da fare che giocare con la morte e la vita come l’eroe omerico.
Questo Ulisse ha la morte per compagna e essa appare in varie forme nel poema e lo permea quasi interamente: una delle più felici invenzioni di questo estroso poeta è quella di aver immaginato la Morte stessa che si corica insieme ad Ulisse e nel sonno ha un incubo, sogna la vita.

la Morte viene a coricarsi al fianco di Ulisse;
ha vagato tutta notte e ha le palpebre pesanti,
vuole stendersi in riva al fiume con il vecchio amico
all’ombra dell’agnocasto, dormire anche lei un poco;
posa lievemente le mani ossute sul petto dell’Arciere,
e così avvinta la valorosa coppia si addormenta.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,
che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra
passeggino donne nobili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota della terra, e che ogni anno porti
erbe e fiori, frutti d’ogni sorta, piogge dolci e neve;
che la ruota giri ancora, e che la terra si rinnovi.
La Morte ride di nascosto, lo sa ch’è solo un sogno,
vento multicolore, fantasia della mente stanca,
e tollera imperturbabile che l’incubo la assilli.
Pian piano la vita si fa sfrontata, la ruota prende slancio;
la terra avida apre le viscere alla pioggia e al sole,
infinite uova si schiudono, il mondo brulica di vermi;
si muovono folti eserciti, uomini, uccelli, fiere,
e pensieri, si avventano per divorare la Morte.
Una coppia di umani si rannicchia nelle sue nari,
accende il fuoco e lo attizza per prepararsi il pranzo,
e sul suo labbro appende la culla del neonato.
Ha un solletico sulle labbra, formicolano le nari,
la Morte si scuote all’improvviso e svanisce il sogno.
Nel sonno fulmineo ha avuto un incubo: la vita.

Il viaggio di Ulisse si conclude in un grandioso scenario antartico dove la Morte e il suo eroe possono finalmente ricongiungersi, con un’ambientazione che ricorda il Frankenstein di Mary Shelley, un altro racconto prometeico sul destino dell’uomo, e in quegli ultimi versi che fanno sfilare davanti a noi in un gioco di ombre tutti i personaggi del poema, cioè tutta la vita che si congeda da Ulisse, il lettore, anche quello che cerca solo la bellezza, è certamente e ampiamente ripagato delle fatiche di questo poema, di una lettura lunga e a volte difficoltosa come quella di ogni grande opera (non ho ancora trovato nessuno che possa dire della Commedia che “si legge tutta d’un fiato” come i romanzi gialli).

Piano, con tenerezza, guarda intorno l’ultima volta,
è tempo che esploda il riso, segnale di partenza;
alza la gola e ride, la fregata si impenna dritta,
uva e fichi oscillano sulle ancestrali alberature,
i vecchi marinai vanno ai remi, l’onda romba sorda,
e le gole delle donne intonano l’addio al mondo.
A prora, il Flautista incolla le labbra al flauto
del cervello d’ombra, come per suggerlo, e intona
un canto fioco, lontano, come una pioviggine notturna,
che scroscia ridacchiando sulla terrazza dell’amata.
Ritto sull’albero maestro, tra grappoli d’uva riccia,
il grande Viaggiatore ascolta il canto del ritorno;
vuote e chiare le sue pupille, il cuore più leggero ‒
Vita e Morte sono un canto, l’uccello è la nostra mente.
Si guarda intorno, muove le mani, stringe piano i denti,
affonda le mani tra i fichi, le melagrane e l’uva,
e i dodici dei si rinfrescano intorno ai suoi lombi.
Il grande corpo del Giramondo svapora, si dissolve,
e lentamente nave di ghiaccio, amici, memoria, frutti
svaniscono come nebbia, gocce di guazza in mare.
La carne dissolta, lo sguardo fosco, il cuore fermo.
La grande mente balza sulla vetta del suo riscatto;
un ultimo frullo d’ali vuote, poi, ritta nel vento,
si alza in volo, esce dall’ultima gabbia, la libertà.
Tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta
sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne:
“Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!”.

Se esiste un tono per il sublime moderno è certamente questo. Quando negli anni Cinquanta il professor Bowra nel suo studio capitale sull’epica La poesia eroica indicava l’epica moderna come inevitabilmente nostalgica e condannata al manierismo privo di forza vitale, infranta la totalità sociale che aveva generato l’epica aveva certamente ragione (e del resto cose assai simili aveva già scritto il giovane Lukács nella Teoria del romanzo prima che questa Odissea fosse anche solo pensata), e non si può fare a meno di sentire come Kazantzakis, specie nelle sue lunghissime descrizioni, sia anche manierato e si sforzi di raggiungere uno stile grandioso, ma d’altra parte come poter non dargli atto che questo balzare della mente «sulla vetta del suo riscatto» possa essere anche un’etica totale in una società alienata, quella che, in un certo senso, l’Odissea esige e incoraggia nel suo lettore?
Forse uno dei problemi, il maggiore di questa epicità, è proprio che questo Ulisse più che superuomo al lettore di oggi appare Superman, il protagonista di una storia grande e avvincente, ma che può fare ciò che fa in virtù della sua diversità da noi, non della sua somiglianza, e qui, sinceramente, l’umanesimo di Kazantzakis si rivela scricchiolante almeno secondo me.
Non si tratta di fare un processo alle intenzioni di un poeta ma di cogliere quegli elementi di elitismo che sono insiti nella sua poetica, nella sua cultura e in tutto il suo modo di ragionare e che ne fanno non il punto debole ma la specificità: il confronto immediato, almeno per il lettore italiano, è obbligatoriamente con D’Annunzio, con cui condivide molti aspetti (non ha forse D’Annunzio scritto le lodi della «Vita dono terribile del dio» e scritto versi, romanzi, tragedie, saggi, con la stessa inesausta forza inventiva?), che pure ha raccontato di un Superuomo-Ulisse nel poema Maia; ma la differenza tra i due aspiranti vati si può misurare presto: se l’Ulisse dannunziano compare, ma si fa presto da parte per omaggiare il vero individuo eccezionale, cioè D’Annunzio stesso, questo di Kazantzakis assume uno spessore autonomo come tutte le grandi creazioni letterarie e il poeta è capace di annullarsi in esso, così che persino il disprezzo evidente per le masse, per gli uomini e le donne “comuni” che nel poema appaiono come folle di schiavi, braccianti, storpi, cortigiani, prigionieri e simili è meno fastidioso essendo il rovescio di un desiderio di riscatto.
Più il passato di una civiltà è stato grande, o più correttamente è mitizzato come grande, maggiore probabilità i suoi scrittori avranno di essere sedotti da visioni palingenetiche e da profezie rivoluzionarie che assumono su di sé parte dell’antichità (Benjamin lo ha spiegato benissimo alludendo ai costumi e toni romano-repubblicani della Rivoluzione Francese), e io credo che parte dell’omerismo di Kazantzakis sia anche in questo, del resto un altro poeta comunista coevo come Kostas Varnalis ha movenze abbastanza simili quando opera con il patrimonio tradizionale greco, cristiano e bizantino che è il sostrato di tutta l’Odissea.
Si tratta insomma di un’opera dalle molteplici sfaccettature e che per questo può essere letta in molti modi e dunque per ogni luce che rivela può anche proiettare ombre; ciò che importa, a mio avviso, è che sia letta e finalmente, dopo un ritardo di più di mezzo secolo sulla versione inglese e di almeno vent’anni sulle altre lingue europee, disponibile anche in italiano. Se una cosa ci ricordano questo poema e tutta l’opera e la figura del suo autore, così alieno dalla piccola amministrazione privata del suo genio che oggi sembra la sola preoccupazione dei letterati, è che bisogna pensare e scrivere in grande, cercando di lasciare capolavori (o quelle che la più sobria critica accademica ha chiamato opere-mondo e tra le quali senza dubbio questo seguito moderno di Omero rientra).
Anni fa con un amico eravamo soliti dire, prima uno si deve leggere Omero, Dante, Shakespeare e Goethe, poi acquista diritto di parola sulla poesia, non era solo una (goliardica certo) asserzione dell’importanza di un canone come coscienza delle proporzioni, ma un modo stesso di intendere la letteratura e una polemica contro le sue versioni presuntuose e bottegaie che sono spesso figlie dell’ignoranza (non bisogna confondere la democrazia a suffragio universale con la letteratura, non si fa un buon servizio a nessuna delle due), sono convinto che, a giudicare dai suoi risultati poetici e traduttori, questo poeta cretese del secolo scorso diventato poeta anche italiano solo in questo sottoscriverebbe.
La questione che si pone però per un classico nel XXI secolo è quella del riconoscimento: non gode infatti più dello statuto privilegiato dei grandi autori appena ricordati che Bloom avrebbe detto appartengono all’era prima del diluvio della letteratura, e nemmeno della protezione fornita da una lettura storicista della storia letteraria, oggi il diluvio è soprattutto un diluvio editoriale di migliaia e migliaia di titoli difficili da esaminare persino per gli addetti ai lavori e, in questo flusso continuo, anche imbattersi nella poderosa Odissea di Kazantzakis può essere un puro caso, come testimonia tra l’altro l’esigua presenza di recensioni e studi (grossomodo come se la Montagna incantata o La terra desolata fossero passati tra la pigra recensione di un poeta di mezza età e la nota su un quotidiano dei vescovi e tanti saluti).
Plaudiamo dunque a questa scelta coraggiosa e al lavoro di Crocetti, ma speriamo anche che in un futuro non lontano possa apparire un asteroide meno isolato e si possano avere magari anche i romanzi mancanti in traduzione e, perché no?, il teatro, che potrebbe darci finalmente qualche suggerimento su un tragico moderno e liberare la povera Grecia dallo spettro di Antigone risorgente in mille (non sempre di gran gusto) stanche forme e forse lo stesso Cristo, ora che almeno i religiosi, in vita avversi all’uomo, ne onorano l’opera.

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