FILOSOFIA

Onde passar o amor, nada tem que fazer a inteligência.
Plotino

Embora o alberto caeiro tenha dito que amar
é pensar, continuo a pensar que o amor não precisa
do pensamento. Pelo contrário, quando se pensa
no amor, o amor esconde-se em cada linha
de raciocínio, e só quando o sentimento substitui
a lógica é que, tal como a flor que só se abre
com o sol, o amor ganha a forma de quem
amamos. Podia dizer que nada do que alberto caeiro
pensa sobre o amor é diferente do que eu sinto,
tendo ele apenas o fundo filosófico que faz parte
da sua natureza; o que eu penso, porém, é que essa
filosofia que o impregna de cada vez que abre
a janela e, em vez de ver a natureza, vê apenas
a essência do que ele julga ser o mundo natural,
não passa de uma certeza tão vaga como a ideia
que ele tem do amor. Com efeito, tal como
para saber o que é uma pedra é preciso senti-la
no côncavo da mão, com a sua matéria dura
e fria, também para saber o que é o amor
é preciso sentir o corpo da amada e o seu calor,
e o que aprendemos nesse instante é que o amor
existe, assim, sem precisarmos de o pensar.

FILOSOFIA

Dove passa l’amore, nulla ha a che fare con l’intelligenza.
Plotino

Anche se alberto caeiro diceva che amare
è pensare, penso ancora che l’amore non abbia bisogno
del pensiero. Al contrario, quando si pensa
all’amore, l’amore si nasconde in ogni tratto
del raziocinio, e solo quando il sentimento sostituisce
la logica accade che, proprio come il fiore che si apre solo
con il sole, l’amore prende la forma di chi
amiamo. Potrei dire che niente di ciò che alberto caeiro
pensa sull’amore è diverso da quello che sento,
conoscendo appena il fondamento filosofico che fa parte
della sua natura; ciò che penso, tuttavia, è che questa
filosofia che lo impregna ogni volta che apre
la finestra e, invece di vedere la natura, vede solo
l’essenza di ciò che crede sia il mondo naturale,
sia solo una certezza tanto vaga quanto l’idea
che ha dall’amore. Infatti, proprio come
per sapere che cos’è una pietra devi sentirla
nella mano concava, con la sua materia dura
e fredda, anche per sapere cos’è l’amore
devi sentire il corpo della tua amata e il suo calore,
e quello che impariamo in quell’istante è che l’amore
esiste, quindi, non abbiamo bisogno di pensarci.

Nuno Júdice da Ritorno ad uno scenario campestre / REGRESSO A UM CENÁRIO CAMPESTRE (Dom Quixote 2020, in fase di pubblicazione per Delta3, traduzioni a cura di Eleonora Rimolo e Matteo Pupillo)

*

Se l’uomo è misura di tutte le cose, e se è vero, come sostiene Kojève, che l’Homo sapiens è ormai giunto alla fine della sua storia e non gli rimane altro se non la scelta tra l’accesso ad una animalità poststorica e lo snobismo di chi continua ostinatamente a celebrare il feticcio di sé stesso con cerimonie svuotate di ogni significato storico, cosa resta da fare all’uomo di cultura? Ci si domanda innanzitutto se è ancora possibile perseguire un’idea di cultura che resti umana e vitale e che tragga linfa nuova dal confronto con un passato oramai concluso (e che si fatica a sentire come vivo) e con una cultura attuale del tutto museificata. È indubbio che oggi la letteratura sia figura di questo passato e il rapporto con quest’ultimo diventa man mano sempre più problematico: il rischio che si corre, e che si manifesta in più forme, è, come ricorda tra gli altri Agamben, di trovarsi di fronte ad un’opera d’arte senz’opera. Cosa sostituisce, dunque, l’opera che latita? Tra le diverse manifestazioni di questa crisi, c’è sicuramente una iperattività concettuale dell’uomo di cultura e dell’artista che tenta di riempire questo vuoto ridondante con l’utilizzo spietato dell’intelligenza – la quale finisce col prevalere sulla visione, su cui di norma è incardinata un’opera. Questo produce caricature di artisti e di intellettuali che rispondono solo al proprio personale nozionismo, giustificando così l’assoluta mancanza di autenticità dell’opera o della riflessione su di essa (1). Da cosa viene questo istinto quasi autodistruttivo, che consiste in un’arte che divora la sua consistenza stessa? C’è stato un momento in cui il Novecento ha deciso di far tornare patologicamente il rimosso, cioè il passato, il bagaglio pesante della tradizione, sotto forme parodiche (vedi Avanguardie e Neoavanguardie) abolendo l’arte stessa ma senza realizzarla, svuotandola dei propri caratteri essenziali, prescindenti dal nozionismo e dalla conoscenza. È qui che l’uomo ha provato a non essere più misura di tutte le cose, ad allontanarsi dall’onnipresente Aristotele, il quale – come tutti i Greci – privilegiava l’opera rispetto all’artista, in quanto quest’ultimo raggiunge il suo telòs, il suo fine, soltanto uscendo fuori da sé, appunto nella realizzazione concreta dell’opera, e spostando il baricentro di ogni problema etico sul problema metafisico. È nel Rinascimento che l’uomo rivendica la piena titolarità della sua attività creativa: l’arte non ha più il suo perfetto compimento fuori da essa, ma diventa, come la prassi o la conoscenza, un’attività produttiva che trova in se stessa il suo totale compimento. Questo compimento risiede nella mente dell’artista e non si realizza in qualcosa di esterno, riducendo in questo modo l’opera a mero orpello dell’intensa attività mentale creativa dell’autore. Come conciliare le due spinte? Secondo Agamben (2), esse sono assolutamente complementari ma anche totalmente incompatibili ed è per questo che ai primi del Novecento gli artisti iniziano a pensare alla pratica artistica come ad una liturgia da celebrare, ad un rituale performativo da compiere, indipendentemente da ogni significato di tipo sociale. La pretesa pragmatica fagocita ogni paradigma mimetico-rappresentativo dell’opera e l’estetica e i suoi principi operano slegati dalla realtà, in maniera parallela ed autonoma: è una rappresentazione, a volte ben riuscita, altre meno, del conflitto storico con cui si è aperto il discorso, ossia arte vs. opera. Certo è un dato, e va affrontato, opponendo alle soluzioni offerte da correnti e movimenti del Novecento, avanguardistici e non, un punto di vista inedito che tenga conto sempre e alla base di ogni riflessione sull’arte del fatto che il poeta non è colui che dal nulla decide un giorno di creare l’opera, rivendicando a piena voce la propria titolarità trascendente di creazione, ma un uomo, come tutti, che vive nel mondo e si relaziona ad esso attraverso l’uso di una pratica (artistica, letteraria etc.) la quale mira al raggiungimento di una felicità ideale e universale o meglio ancora alla realizzazione di un atto di “resistenza” (così Deleuze definisce l’atto di creazione 3) nei confronti della morte e di tutti gli aspetti castranti e perturbanti della vita umana, liberando una particolare “potenza di vita” pertinente all’artista. Liberare questa potenza senza essere ossessionati dall’idea di coincidere perfettamente con il proprio “genio” creativo conduce all’opera e alla sua capacità di lasciare volutamente qualcosa (se si procede attraverso la visione è inevitabile) di non detto, di non raccolto, di suscettibile, che sta al lettore, al critico, al filosofo portare alla luce, vivificare, interpretare, rigettare nel mondo. Riuscire a fare questo significherebbe riuscire a superare il confine del nome proprio e delle sue pretese in nome di un interesse sincero e spassionato verso ciò che spetta al mondo dei lettori – e non verso ciò che spetta a ogni singolarità artistica.
Certo è che questa potenza si può definire, come insegna Aristotele nella Metafisica, proprio dalla possibilità del suo non-esercizio: il poeta non è pura potenza creativa ma la sua ispirazione è palcoscenico di una tensione di forze opposte, azione e resistenza, scrittura e silenzio. L’arte non è una mera esecuzione ad ogni costo, non è solo “potenza-di” così come l’abilità non è solo perfezione formale ma innesto dell’imperfetto nelle forme stilisticamente perfette. Quando subentra inevitabile la necessità dell’opera, cioè quando la contingenza impone all’artista la sua realizzazione, la messa in atto della sua potenza creativa, allora si manifesta davvero un evento artistico: si scrive solo perché in quel momento non poteva proprio essere altrimenti, e obbedendo a questa accidentalità della creazione chi scrive si muove tra due impulsi in contraddizione, cioè slancio e resistenza. La conciliazione di questi elementi consiste nella manifestazione dello stile dell’opera che è conflitto individuale (resistenza personale all’espressione universale) ma anche elemento impersonale (potenza creativa, puro genio che spinge ciecamente verso la realizzazione dell’opera). È per questo che la poesia deve rigettare l’autoreferenza, cioè il rivolgersi autistico della potenza a se stessa senza curarsi della realizzazione dell’atto: ciò che rende grande la poesia e può ancora generare opere oggi è il fatto che essa, in questo gioco tensivo, non dice solo ciò che sta dicendo ma anche ciò che non dice e non può (non sa) dire, raccontando l’impotenza di dirlo, sospendendo ma insieme adoperando la lingua. Azione e inazione, quindi, lavorerebbero di concerto per generare la grazia, un vero e proprio spazio nel linguaggio in cui la lingua stessa mette a tacere le funzioni informative di un testo per aprire quest’ultimo ad un nuovo uso, ad un inedito universo di senso. In altri termini, Hugo sostiene che i poeti hanno dentro di sé un riflettore, l’osservazione, e un condensatore, la commozione. Non c’è poesia senza vita, e viceversa, soprattutto quando la collettività è chiamata quotidianamente a rispondere ad un numero cospicuo di esperienze che ci vedono sì in prima persona protagonisti attivi, ma a cui dovremmo rispondere collettivamente. La poesia può quindi oggi spingere ad una riflessione comune, a dei motus animi collettivi, insomma ad un qualsiasi sommovimento dello spirito che possa restituire la voce ad un mondo ora embrione, in attesa di nuova linfa, scongiurando il pericolo di piombare in un’“esistenza inautentica”, come la chiamerebbe Heidegger (4), perché completamente inaderente alla nostra autonoma ricerca del bello e della felicità.

 

Note

1 R. Klein, L’eclissi dell’opera d’arte, in Id. La forma e l’intellegibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1975.
2 G. Agamben, Creazione e anarchia: l’opera nell’età della religione capitalistica, Neri Pozza, Vicenza 2017.
3 G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, a c. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2009.
4 F. Battaglia, Heidegger e la filosofia dei valori, Il Mulino, Bologna 1967.

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