Scrittore riservato, ma non isolato, Luigi Trucillo si muove con eleganza nel panorama letterario italiano. Diverse collaborazioni segnano una trama di rapporti significativi e lo avvicinano ad altre forme di espressione artistica (ad esempio alla musica o all’immagine).
L’indagine conoscitiva lo guida sin dall’inizio: Navicelle (1995) declina questa volontà nominando gli oggetti del quotidiano mescolati a quelli del pensiero (possibili e fusibili, sguardo e parato) ma soprattutto attraverso una forza abbreviativa che riassume il mondo in forme poetiche stringate fino al monostico, come nota il filosofo Giorgio Agamben nella sua introduzione. La conoscenza è anche capacità di esplorare le figure del mondo contemporaneo, come quella della vittima in Lezioni di tenebra (premio Montano 2008) in cui risuona l’eco dell’attentato della metropolitana di Londra. L’osservazione del cambiamento, l’attrazione per le metamorfosi in cui il mondo è costantemente immerso, lo affratella a Darwin (premio Napoli 2009), la cui avventura esistenziale e conoscitiva rivive nella forza poetica della prima persona.
Infine, l’approdo provvisorio all’ultima raccolta Altre amorose (Quodlibet, 2017) è l’immersione in un mondo dove l’amore e il desiderio si fanno emblema di altro.
La tradizione poetica, come quella italiana, che all’amore consegna la sua radice prima e gran parte di sé, qui converge e si veste di rami nuovi. E il rapporto con la tradizione è subito evidente nell’attacco folgorante del libro: Perché scrivere poesie d’amore dice il titolo della prima poesia. Titolo e testo si appartengono intimamente stagliando sull’orizzonte di questo perché due principali motivi: «prima di tutto perché ci sei tu / e questo nostro nodo è inestricabile / dal loro filo di sollievo» dicono i primi tre versi, e più avanti «perché ogni poesia d’amore / di sé parla pochissimo e troppo / e cerca solo un ascolto del tempo più profondo / che tra le nostre mani / frulla come il saltello del passero».
«Forse tutto è già stato detto» ma la tradizione si mescola all’inquietudine del desiderio sul confine fluttuante tra vita e letteratura («e so che ciò che offre un corpo alle lettere / è una sostanza flessibile e schiva»).
Nella prima poesia appaiono gli attori della scena amorosa: nell’ordine tu (declinato nella sua grandezza), nostro (la relazione), loro (ripetuto due volte e riferito alle poesie d’amore del titolo), io (esplicitamente richiamato, solo al verso 11, dal verbo ho imparato, e poi, attraverso mi ai versi 18 e 19).
Le altre amorose sono le poesie ed altre è una parola ambigua segnata, nel contempo, da continuità e diversità rispetto alla precedente “Le amorose” (2004).
L’amore, con la sua parabola vitale segnata da inizio e fine (parole che significativamente si sfiorano all’interno di una stessa poesia), prende forma nella sua densità, smuovendo i suoi diversi registri emotivi. È la forza del corpo che balugina luminoso nei versi, schegge di corpo in amore (nuca, polpastrelli, vertebre, cosce) catturate in una luce netta; è la spossatezza dell’eros, potente e assetato, inquieto e salvifico («fare l’amore / è davvero un fare / per la salvezza del corpo»); è l’intimità domestica fatta di abitudini, una casa costruita con «l’argilla della tenerezza».
Eppure la parola amore, con il suo corteo di amoroso, amare, amante, è usata in modo molto discreto: una trama sottile.
Alcune poesie sembrano trasportare altrove, verso altri temi. Sono poesie dedicate alla Grecia fluttuante tra le onde; alle «facce / ammassate nelle stive»; ai «suoni stranieri / delle badanti polacche / nella metropolitana»; a Gandhi e alle «moltitudini oscure / che non furono lui / né mai lo saranno»; allo staff dell’ospedale di Osaka, che aiuta i malati terminali a ricordare i cibi amati nell’infanzia, a Ethel Rosenberg, «presunta spia comunista».
Sono poesie che rivelano come, in realtà, il filo rosso che percorre e compatta il libro, è il movimento. Tutte le poesie, infatti, contengono una rete fittissima di parole o immagini che esprimono o rimandano al movimento.
Il movimento è anzitutto spaziale: affiorare (molto insistita), mi muovo, mi inoltro, accostare, arrivare, vengo da, punto di partenza, viavai, vagare, traiettoria zigzagante, vicino e lontano, i nomi geografici (Idra, Samos, Lisbona) o il continente perduto di Atlantide, ma soprattutto migrare (migranti sono gli sguardi, migrazioni sono fuoco e abbandono e persino l’io lirico è «una scheggia migrante»). È un movimento affannoso oppure lento, in avanti oppure a ritroso («controcorrente come un salmone ho rimontato il percorso»). Un movimento che ha bisogno dell’azimut per orientarsi di cielo in cielo.
È un movimento temporale: cominciare, alla fine, incontro di epoche, dove passa il passato, e il passato è il punto da dove si viene ma anche verso dove si va perché «il tempo ha pareti liquide».
È un movimento in bilico tra velocità e lentezza, furia e quiete che si condensano, talvolta, nella stessa immagine come nella ripresa di Festina lente, il motto che Svetonio attribuiva ad Augusto.
È un movimento evolutivo: evolve è sin dalla prima poesia una parola centrale che scorre sotterranea fino alla poesia finale il cui titolo, non a caso, è “Il nostro genere”.
Diventare è verbo molto frequente con il suo sciame di trasformazioni: tutto è «un bisogno irresistibile di scambio».
Così il movimento è anche movimento di cellule che, con il loro vortice scrosciante, scelgono di aderire a una figura; movimento della figura che si stacca progressivamente dalla materia squamando; movimento percettivo dello sguardo; movimento dell’aria che sceglie di comporsi in una forma; movimento tra i possibili prima che essi diventino reali, come dice l’immagine degli inizi amorosi che stanno lì indecisi e timidi, vicino alla porta da cui sono usciti, pronti a manifestarsi o a sgusciare all’indietro, dentro un buco che li inghiotte. Anche le lettere sono un diluvio inquieto che può decidere di comporsi in un nome: «il tuo nome».
Il nome che traduce il desiderio o la tenerezza, il nome reale del tu potrebbe essere la salvezza, il varco che permette l’uscita da questo vortice in cui le lettere e le parole rischiano di perderci. Il nome che traduce la grazia si pone come il vallo di Adriano a guardia dei confini: «Così in lungo e in largo / tu sei il mio nome / che diventa il mondo, / e in quest’intima area sconfinata / mi è difficile scovare altre parole / perché appaiono tutte troppo esigue».
Anche la lettura è questione di movimento: nasce dal «contatto tra l’oggetto e la pagina» e l’occhio «è sempre un passaggio».
L’attenzione al confine, recinto, orizzonte, il punto in cui le nuvole si sfioccano nell’azzurro, l’orlo bianco delle foto è il contatto con il punto di transizione dove le cose si possono comporre o decomporre. Forse la parola che traduce di più questo senso è vento, agente di mutamento per eccellenza.
Tutto è cambiamento, anche l’universo si espande staccandosi via da noi.
Il movimento non è non è solo nel senso dei versi, ma è anche in una struttura linguistica che scandisce i passaggi soprattutto attraverso l’uso dei connettivi logici: prima di tutto, così, comunque, mentre ed eppure cui è dedicata una poesia rivelatrice. «eppure è una parola in movimento», dice infatti un verso, perché col suo valore avversativo innesca il moto. Del resto, i connettivi rappresentano le possibilità combinatorie del pensiero e della lingua.
Allora Altre amorose sono punti di vista mobili nell’atto del percepire come dice la citazione all’inizio del libro. L’amore e il sesso incarnano questa mobilità pluriprospettica («il sesso è una scintilla in movimento»).
Esiodo ci racconta che il secondo Eros (quello che spinge entità, individui differenti all’unione affinché da essi nasca un terzo essere) dispiega la sua potenza nel momento in cui Urano, evirato dal figlio Crono, si stacca dal grande corpo di Gaia perché è in questo momento che, allontanandosi il Cielo dalla Terra, si crea lo spazio-tempo dove possono venire alla luce le creature prima ammassate nel ventre buio di Gaia, interamente ricoperta da Urano. Cominciano così il ciclo dell’esistenza, le stirpi degli dei e degli uomini.
Dalla saggezza greca, Eros diventa, nella ricerca poetica di Trucillo, energia vitale e progressivo distacco, una catena di trasformazioni, le vite che «vagano sospese» ne Il nostro genere, la poesia conclusiva che affida il suo ultimo verso all’ariosità delle parole «nell’ossigeno spazioso».

 

da Altre amorose (Quodlibet 2017)

 

Perché scrivere poesie d’amore

Prima di tutto perché ci sei tu,
e questo nostro nodo è inestricabile
dal loro filo di sollievo.
Forse tutto è già stato detto,
ma al loro interno la tradizione si accosta
all’inquietudine di ciò che vogliamo,
perché se il passato è un paese straniero
il desiderio conosce.
Cercando te
ho imparato che tutto è difficile e semplice,
e che ogni parola trovata
ha il respiro dell’istrice
e il riverbero di fuochi lontani
dove la paura era gioia
per tutto ciò che affiorava
bruciando nell’immaginazione.
Così ancora adesso
quando mi muovo al nostro battito
mi inoltro in una scoperta possibile,
e so che ciò che offre un corpo alle lettere
è una sostanza flessibile e schiva,
come tutto ciò che si evolve
nella scia d’oro della gratitudine
e ha rinunciato al controllo.
Perché ogni poesia d’amore
di sé parla pochissimo e troppo,
e cerca solo un ascolto del tempo
più profondo
che tra le nostre mani
frulla come il saltello del passero.

 

Tra le righe

Tra le righe
ho pensato che il pensiero
non aveva limiti
oltre quelli tracciati dal linguaggio,
e che il tuo nome
in mezzo al diluvio delle lettere
così segreto
sapeva tutto.

 

Un’idea della Grecia

Dopo secoli e secoli di Itaca
qui nessuno è servo,
ma sulle spiagge spazzate dalle onde
ancora accende fuochi segnaletici.
Le acque fatte di pietra
e i nomi generali,
tutto ciò che viene da lontano
e inconsumabile
fissa nell’aria uno spazio,
forniscono allo splendore
l’eco assolato delle scogliere,
la limpidezza che vibra nella costa
quando gli ulivi sciolgono
l’aspettativa del sud.
Da un’altra strana vita
piena di scorie e notiziari
mi giro verso il televisore
zeppo dei grafici degli economisti
e quasi a tentoni
penso che il mare non ha paura.
Proprio come vorrei
anche tu sei lì,
nelle innumerevoli aperture
con cui la luce assoluta dell’estate
smantella la nostra stanza
inondandola di maree
da poter guardare e riguardare,
il pane blu dei filosofi
e di chi crede nella democrazia degli atomi.
Con tutta la frenesia dei sogni
io sono uno di questi.
Per tutto il pulviscolo delle migrazioni
e anche in questo progresso che ci bracca
ho sempre amato i porti
come se fossero un udito
che esplora i limiti del mondo,
le isole dorate
che attingono un’autorità dalle correnti.
Ho amato in ogni gesto le partenze
sbiadite nel mare violetto della notte
e l’incatramatura compatta delle prue
perché viravano verso le colonne d’Ercole
dalle indistinte ragioni per cui viviamo
senza badare ai morsi avidi del sale.
Così adesso nella mia cartografia
che scandalizzerebbe persino il vecchio Pindaro,
se guardo te che leggi
la forma ventosa delle onde
dove fluttua la Grecia
penso al silenzio degli inizi
lungo la rotta perduta degli dei,
e non scorgo la massa grigia del Pil
a cui molti barbari hanno dedicato
la linea stretta della propria storia.

 

 

Luigi Trucillo, nato a Napoli nel 1955, è autore di libri di poesia: Navicelle (Cronopio 1995); Carta mediterranea (Donzelli 1997); Polveri (Cronopio 1998); Le amorose (Quodlibet 2004); Lezioni di tenebra (Cronopio 2007, Premio Lorenzo Montano 2008); Darwin (Quodlibet 2009, Premio Napoli 2009); Altre amorose (Quodlibet 2017). Nel 2013 ha pubblicato il romanzo Quello che ti dice il fuoco (Mondadori).

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