Fotografia di Dino Ignani

 

Con equilibrio sorprendente, Trasparenza di Maria Borio (Interlinea 2019) da subito ci immerge in un universo poetico compatto e originale che spazza via tutto un repertorio abusato di immagini, di soluzioni stilistiche, linguistiche, sintattiche.
Trasparenza, ci avverte la nota al testo, è l’esito di un percorso dialettico che, sul modello hegeliano, si sviluppa in tre tempi: Il Puro, la tesi; L’Impuro, l’antitesi, e Il Trasparente, la sintesi. Un processo logico che si compie attraverso un’esplorazione trasparente ma tutt’altro che serena come sussurrano le parole di Amelia Rosselli dall’epigrafe.
Poiché la trasparenza non svela e non nasconde, nel tessuto poetico, anche dentro lo stesso verso, possono coesistere immagini-parole afferenti a campi disparati, con scarti rapidissimi possono slittare le une nelle altre in una rete di connessioni. Le connessioni tengono insieme realtà diverse creando armonia nel senso etimologico greco: non a caso, a questo proposito, l’autrice cita un passo dell’Odissea in cui Ulisse, esposto alla potenza delle onde, dice «Finché restano uniti i tronchi della zattera, starò qui, resisterò».
Tra la realtà e noi (ma anche noi siamo parte della realtà) ci sono dei filtri: un vetro sopra il vetro sopra il vetro. Il filtro non è solo un elemento di separazione o deformazione, ma è esso stesso risultato di una mescolanza, di una sintesi. Così il vetro è forgiato da sabbia e fuoco.
Il vetro è il vetro digitale che ha cambiato il nostro modo di vivere e le nostre stesse categorie mentali. In questo senso, è particolarmente significativa la scelta di strutturare il testo seguendo il respiro hegeliano: il modello logico per eccellenza della cultura occidentale. Dietro questo vetro, come sono cambiate la socialità, le relazioni, i nostri sistemi percettivi e logici? Come è cambiato il senso della scrittura e delle stesse parole? Come è cambiato il nostro modo di rappresentarci nel diluvio di filtri (foto, video, profili, registrazioni audio…) che abbiamo a disposizione? Maria Borio guarda agli effetti, anche perché appartiene a una generazione che ha trovato alla nascita un mondo in cui il digitale era già stato assunto. Di questo scarto generazionale occorre essere consapevoli.
La nuova realtà digitale ha ridisegnato profondamente il senso delle parole a partire dalla stessa parola realtà che rimanda non solo a ciò che tradizionalmente abbiamo considerato reale, cioè il sensibile, ma anche al virtuale, che, a sua volta, è parola che non può essere semplicemente intesa come un contrario di reale.
In questa esplorazione, spesso si incontrano nei versi i concetti della fisica classica: lo spazio, il vuoto, il tempo (anche attraverso la ripetizione della parola ore) tra quelli più insistiti, ma questi concetti diventano capaci di azioni e, in una certa misura, persino di pensieri. Rispetto ad essi, i soggetti umani, soprattutto quelli della tradizione poetica io-tu, seppure ineliminabili («imprevisto torno al tu»; anch’io vorrei smettere di dirmi io) si confondono o si connettono (Tu sono io nello schermo), perdono di consistenza, di peso (hanno il peso del giorno) ed il peso è proprio tra le caratteristiche principali dei corpi. Sovente, all’interno della stessa poesia, repentinamente cambiano i soggetti logici, i modi e i tempi verbali, creando un effetto di sbalzamento da una realtà all’altra. Una vertigine anche sintattica scompone il pensiero, frantuma i nessi, salta i passaggi mettendo in scacco il modello hegeliano.
Bisogna creare, allora, nuovi sistemi di orientamento per riannodare i fili di un percorso possibile.
Già nella poesia che apre la raccolta (la cui strategica importanza è segnalata anche dal fatto di essere posta al di fuori della partizione triadica) c’è il senso del percorso che la poesia compie: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera / guardate una parola come un piede di bambino / appoggiato alla mano della madre, quella mano / alla pancia e la pancia a un pensiero. // A volte seguo questo percorso perché una scena accada / e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede. È un percorso all’indietro, come in un processo sintropico, per evitare che il vuoto scavi ogni pieno, è un esercizio che ricollega la vaghezza dell’etere a qualcosa di concreto, corporeo, alla stessa capacità generativa (di cui i termini pancia e pensiero sono spie), che riconnette tutti gli eventi, tutte le vite disunite a schermo.
Una mappa di parole disseminate nel testo diventano bussole per ricostruire il percorso che, tuttavia, non può più essere lineare.
Anzitutto c’è forma: Osservate, chiedete non alla forma/ ma fuori a tutto il resto cosa sia, scrive Maria Borio nella prima poesia dove forma è ripetuta ben sette volte.
Sospesa tra i suoi diversi significati, la forma è l’aspetto esteriore o un’esteriorità convenuta e falsa, il contorno di un corpo, la sagoma vuota, una sorta di calco da riempire con gesso liquido aspettando che solidificandosi restituisca un volto, un modo d’essere, la rappresentazione, l’ombra, è, come voce del verbo, modellare la materia, comporre, ed è, ancora, la forma liquida che appare sullo schermo: mi dicono che può essere forma questo libro a schermo.
La liquidità di questo mondo, dove tutto si può sciogliere e ricomporre in altre forme, è detta attraverso la persistenza della parola acqua e della sua vasta area semantica. L’acqua è il luogo dove perdersi o ritrovarsi, annegare o salvarsi, dove i frammenti del reale si sciolgono e si confondono: con i piedi nell’acqua bruciamo l’io / che può essere tu, il tu che può essere io. L’acqua è la trasparenza del titolo, è il vetro dello schermo che riassume ogni cosa. Per questo l’acqua può essere solida ed il vetro può non riflettere più.
Immerso nell’acqua come in una vasca sta il corpo, separato dalla coscienza, sempre in rapporto con il suo riflesso, un’architettura simile a una cosa, il corpo addormentato, appoggiato all’aria, ebete sulla porta, il corpo che dimagrisce e si assottiglia, che non si distingue più dal vestito, curato o ucciso da strumenti, ossia da altri corpi, il corpo che ha un odore, delle proprietà, che è unità di misura, il corpo dove non si distinguono più i confini tra tuo e mio, ma soprattutto un corpo smembrato.
Lo smembramento del corpo (che è la risoluzione nel suo contrario, in un’immagine incorporea) nei versi procede soprattutto attraverso la ripetizione di singole parti del corpo, in particolare quelle che rinviano agli organi di senso: bocca (quattro volte), naso (tre volte), occhi (ventuno volte a testimoniare la prevalenza delle immagini, sebbene, talvolta, gli occhi siano chiusi); orecchie (una volta, ma rafforzato dalle otto occorrenze di ascoltare); mani (diciassette volte). Una mappa sensoriale cristallizzata, lontana dalla totalità del corpo. E poi ginocchia, piedi, i nodi dei capelli, tendini, unghie, pelle. Il corpo può concentrarsi in un solo muscolo che sbatte contro la realtà. Il dettaglio del muscolo può diventare totalizzante (le sembra che il muscolo fosse una persona), condensare tutto il corpo nella sua pulsione dolorante.
Il corpo privato di peso e gravitazione, diventa un’immagine dispersa nell’etere, una semplice parola. Ed anche le parole smettono di essere atti linguistici, azioni in cui io e altro possono abitarsi in una relazione. Le parole, sfibrate in filigrana, sono un riflesso, sono polvere che favorisce la propagazione dell’io. Le estensioni dell’io in altri scavano il vuoto, la solitudine.
Delle relazioni resta la nudità (Chiedete nudità) per sapersi avvicinare ai luoghi che ci hanno abitato. Resta il gesto: tornare alle origini del linguaggio fino a una donna nuda del Neolitico che imprime sulla roccia i segni delle mani spalmate di colore. In quella traccia si riassume il racconto di migrazioni, della caccia, di un’esistenza intera. Resta la voce: Dicevi, una terra può essere come una voce. / Considera tutti i respiri delle persone che la abitano / si alzano e si abbassano dentro al corpo / quando parlano e tremano inconsapevoli.
Il gesto e la voce sono elementi di confine: insieme corporei e incorporei, sono profondamente miei eppure offerti agli altri. Sono onde, sono flussi.
L’approdo è la parola abitare, così densa nella poesia di Maria Borio.
L’abitare è per Heidegger il modo in cui i mortali sono sulla terra, un soggiornare presso le cose radicandosi contro l’espansione dell’informe, stare in uno spazio qualitativo.
Maria Borio sa che la poesia, creando una misura, fornisce la possibilità di abitare. Ed è proprio a questa parola, una prospettiva fragile e forte, che affida la sua conclusione, l’esito della sua esplorazione.

 

da Trasparenza (Interlinea 2019)

 

Osservate, chiedete non alla forma
ma fuori a tutto il resto cosa sia,
questa scrittura o le unghie esili,
le biografie e anonime o le parole anonime.
Mi dicono che può essere forma questo libro a schermo
dove vedi vite in frammento o luce stupita.

La forma è lo schermo come una casa azzurra,
statistica e gure, un ritmo che lega gli uomini
nella mia mente. La forma è, non è ciò che volete
io dia. È, non è il divenire. È disfarsi, a volte.

L’altro limite, solo l’immagine, mi hai detto, ma lo cancello
e lo riscrivo: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera
guardate una parola come un piede di bambino
appoggiato alla mano della madre, quella mano
alla pancia e la pancia a un pensiero.

A volte seguo questo percorso perché una scena accada
e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede
che non vedete, anche nelle immagini
disordinate nell’etere sempre vi seguo,
un aereo silenzioso che rientra nell’hangar
o il cieco che arriva all’ultimo segno del braille.

Mi hanno detto di nuovo di fermarmi sulla forma,
la forma che se scrivi o vivi non è mai lo stesso.
Con i pensieri come unghie lego vite
disunite a schermo.

 

Aquatic Centre

Stesa sul letto a volte vedi forme,
curve che entrano e spirali che evadono.
Gli organi trasparenti in alto si aprono
e diventano una linea morbida che insegue se stessa,
pulisce il respiro dai colori scuri – il colore del sangue,
o quello denso della carne dove nascono le api.

Nulla si rigenera, ma è prolungato, infnito
nella linea che pulisce gli oggetti e fa cose
per pensare, per abitare: un grande uovo, ad esempio,
si spacca senza perdere liquido e bianchissimo invade
gli angoli del soffitto, apre un arco, una porta
tra i continenti.

Tra il cielo e l’acqua questo edificio
splende in una luce illimitata:
puoi aprirlo, aprirti
a una lingua di toni aspri,
tornare nel suono rotondo di un’altra
riprendendo quei toni come finestre sul mare
o il ponte sospeso per il parco
dove le persone stese sull’erba sono api
e il calore al sole sembra impedire la morte
anche se tra anni, milioni, un giorno
esplodendo.

Segui poi altre linee, quelle della specie,
forse come sapere che nascere
non sarà più violenza, ma fenomeno di sguardo,
e dal letto lasci il sesso arrampicarsi
attorno ai contorni di questo edificio
nel suo bianco sotto raggi tempesta,
la stella nell’attimo prima
di esplodere.

La vita è ovunque, in una linea curva
ognuno abita come pensare.
Le api ora lasciamo la mia bocca perché le penso.

 

*

 

Le forme che si allontanano nella memoria
erano forti da una pietra.
Le forme, i patti, unioni di natura –
è il fiume, il giudice.
Ti sei tirata i capelli
dietro le orecchie,
mia sposa, nel silenzio contemporaneo.

Molto dopo, l’occhio di lui
che può essere lei
scambia uomini e sessi,
il tutto amare liquido.

Mio nonno si sposa, mia nonna
indietro per generare,
mio nonno mia nonna maggiore e minore.
Raccogli la nebbia per fare pietra –
e mi accarezzi le mani,
mio sposo, nel silenzio contemporaneo.

 

Maria Borio, nata nel 1985, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (XII Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos 2015) e L’altro limite (Lietocolle 2017). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio 2018). Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. Trasparenza è uscito nel 2019 per Interlinea.

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