Se ne sono lette molte. Se ne sono viste molte: poetini della domenica annunciare tristemente il lutto e mettere una “poesia da cioccolatini”, sull’amore, sull’importanza dell’abbraccio e urbi et orbi: è morto Mario Benedetti, grande poeta uruguaiano (morto, sì, ma nel 2009).

Poi: la grande stampa… oh, la grande stampa (mon dieu!). Su Repubblica un mezzo trafiletto sovrastato dall’immagine paciosa dello stesso poeta sudamericano di cui sopra, una piccola biografia, nulla di più.

Ma venerdì 27 marzo un uomo è morto nel silenzio in cui è vissuto, dentro un’enorme contingenza di cui si è reso vittima di carne e di fama. Mario era morto prima, il poeta dico, dopo l’uscita per Mondadori di Tersa Morte e la malattia.

L’uomo viveva rinchiuso da allora dentro la sua mente. Ombre, pitturate sulle pareti. Poi, un processo di beatificazione – per me e per molti come me – il corpo del santo. L’involucro senza coscienza di Mario, che visitavo con qualche amico suo e qualche amico mio, in questi anni.

Che amore maledetto quello per i corpi vuoti. E che paura vedere realizzata la propria poesia. Vedere un poeta descrivere così minuziosamente il futuro ipotetico, scrivere, dire il vero, sulla propria carne, a costo della propria carne. Mario è morto due volte senza mai risorgere e questo tormenta chi gli ha voluto bene (e tra questi io, nel minimo mio).

Ma Mario è vissuto almeno due volte. Piaciuto sempre pochissimo ai patroni della poesia borghese (e come, mi chiedo, avrebbero potuto amarlo?) è riuscito di sghimbescio a penetrare in Mondadori, con Umana Gloria, nel 2004, poi Pitture nere su carta (2008) e in ultimo Tersa morte (altro sconcertante manifesto divinatorio). Ma l’atto più meritorio lo compie forse (non so quanto intenzionalmente) Garzanti con il volume Benedetti, Tutte le poesie, a cura di Dal Bianco, Riccardi e Villalta stampato alla fine del 2017. Questo subito passa di mano in mano nelle sedi universitarie, nei centri di poesia, nei circoli dal Friuli a Catania catapultando il nome Mario Benedetti di nuovo dentro il discorso recente della poesia contemporanea.

Proprio in una delle presentazioni del libro, presente Mario, ho assistito alla scena forse più straziante del piccolo arco narrativo in cui ho avuto la fortuna di rimbalzare sulle spalle di Benedetti: eravamo stati invitati a leggere all’Istituto Bertarelli di Milano dove Mario insegnava Lettere, i curatori e alcuni autori. Una studentessa ha iniziato a leggere Lacrime 10, da Pitture nere, Mario ne ha seguito il dettato, i suoi occhi si sono concentrati sulle labbra del ragazza, in tensione su ogni sillaba: non guardati abbastanza, leggeva lei, le faceva eco la flebile voce di Mario. Non guardarti abbastanza, ripeteva lei. Mai, diceva a voce alta, Benedetti.

Di quello che mi è nato in cuore, vedendo corpo e poeta pacificati per un attimo, vedendo le vertebre tornare dolorosamente insieme, non serve discutere. Ma venerdì 27 marzo, alla notizia della morte di Mario, una fioritura di messaggi e ricordi da parte di autori giovani, di giovanissimi studiosi si è scontrata contro il gelo dell’informazione accademica e borghese che negli anni passati ha fissato divertita gli orsi ballerini dell’intrattenimento fonico, il divertissement, mentre un’Opera gli passava di fianco.

Se un canone nei prossimi anni verrà tentato, avrà in Benedetti uno dei suoi fuochi maggiori.

Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.

Da Tersa morte (Mondadori 2013).

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4 Comments

  1. Maria 30/03/2020 at 4:07 pm

    Articolo commovente, mi avete fatto scoprire qualcosa di nuovo. Grazie.

  2. Stefano Dal Bianco 30/03/2020 at 10:55 pm

    Giuseppe Nibali, mi è piaciuto questo pezzo!

  3. Giuseppe Nibali 31/03/2020 at 10:32 am

    Ne sono felice caro Stefano.

  4. Giovanni 13/01/2021 at 12:22 pm

    Ho scoperto solo oggi Venerdì Santo di Benedetti e non riesco a tornare a lavorare, perché continuo a cercare e trovare sue poesie, e scritti, come questo, di persone che lo conoscevano e gli volevano bene e gli sono stati accanto in una malattia che è solitudine doppia perché imprigiona il malato nella sua stessa mente. Grazie per aver condiviso le emozioni. Sono turbato ma arricchito.