Dall’Annuario di poesia 2015

1.
Per quanto il mondo umano accalchi strumenti e strategie di previsione, gli eventi della vita sono per lo più inaspettati. Se vi poniamo mente, ad ogni istante ci troviamo di fronte ad una massa indistinta di occorrenze e di esiti fra loro intrecciati, una continua apertura di possibilità che davanti a noi ci mostra come impossibile ogni scelta, ogni decisione. Eppure persiste in noi qualcosa come un istinto angelico, un’interruzione della coscienza ragionativa; o, a dir meglio, persiste un occultarsi interno di ogni senso razionale il quale permette che infine sì, noi agiamo, decidiamo, amiamo, odiamo, andiamo in quella direzione piuttosto che in un’altra; il tutto, a discapito delle conseguenze che ne potrebbero sorgere.
Capita così agli uomini, capita altrettanto ai poeti. Così capita che le poesie scritte e inviate da un poeta italiano nel torrido di un’estate milanese, poesie inviate nella fiducia e nel desiderio che fossero pubblicate presso una rivista romana nei mesi successivi, siano diventate le ultime poesie scritte da quel poeta; così capita che egli non possa assistere al loro divenir pubbliche, cessata completamente la facoltà di presiederne al senso e al valore.
Il poeta Mario Benedetti non poteva sapere che quella piccola sequenza di cinque poesie, ora pubblicate nel numero 69 di «Nuovi Argomenti» con un titolo che suona ironico e profetico insieme, Questo inizio di noi, sarebbero state il suo testamento letterario; non poteva prevedere l’enorme responsabilità che esse avrebbero avuto nell’insieme della sua opera. Poesie certamente pensate in itinere; versi precari forse, che cercavano – come appare ovvio – una direzione da seguire verso un nuovo libro che ancora stentava a delinearsi, data la recente pubblicazione di un’opera così densa e decisiva come Tersa morte, nel 2014; versi di transizione, di ricerca, destinati chissà ad essere del tutto aboliti o – come lasciavano presagire le abitudini dell’autore – ampiamente rimaneggiati in un progetto futuro di libro.
Ma tutto questo non è stato. Essi ora se ne stanno lì, sbalorditi, tramortiti dal compito che è stato imposto loro: essere, ci piaccia o meno, le ultime poesie che hanno avuto la supervisione del loro autore.
Mario Benedetti, infatti, ha avuto un grave infarto la notte fra il 12 e il 13 settembre del 2014; le cui conseguenze, dopo aver lottato con caparbietà e direi testardaggine fra la vita e la morte per alcune settimane, sono state di ordine cognitivo tali, che l’uomo non potrà più intervenire coscientemente sulla propria opera di poeta, sino ad una data che il caso, la natura, o il destino sceglierà perché vi sia una definitiva conclusione alla sua vita terrena. Chi scrive ha già pianto le lacrime necessarie; lacrime dettate da un decennio di grande amicizia, umana e letteraria insieme. Chi scrive è ancora alle prese con un percorso di accettazione di questo lutto fantasmatico, in cui non è il vivo ad essere venuto meno, ma la morte stessa ad essersi ritirata per lasciar sorgere una nuova vita, indecidibile e fantastica, nelle fattezze fisiche apparentemente del tutto immutate del caro amico.
Proprio a partire da queste considerazioni, da questo concreto e doloroso percorso personale, mi è sembrato necessario approfondire la riflessione sul valore di queste cinque poesie e in particolare sulla prima di queste, così come si delinea nel cammino inscritto dall’opera pubblica del poeta Mario Benedetti. Credo infatti che esse, nella loro del tutto inaspettata significanza, delineino con forza il rapporto che la poesia possa intrattenere con la realtà; ovvero si prestino ad essere considerate paradigmatiche di quale possa essere la realtà della poesia, quale sia la peculiare concretezza del fatto letterario, quale inizio inauguri, a dispetto di ogni fine che esse sembrino indicare. Forse Mario era prossimo ad un segreto, ad una svolta della sua scrittura che non ha avuto il tempo di percorrere in tutte le sue implicazioni.
Forse il poeta, ogni volta che scrive, è prossimo a questo segreto.
Giuseppe Ungaretti – un poeta che Benedetti non amava particolarmente – scrisse pochi anni prima di morire: «nessun poeta è mai riuscito a fare quello che ambiva di fare»; forse questa interruzione delle ambizioni, questa costitutiva impossibilità di una singola vita a terminare il proprio compito è ciò a cui la scrittura di Mario Benedetti si stava avvicinando a mostrare. Fino a lasciarci così, soli, nella tragedia di doverlo comprendere.

2.
Questo inizio di noi si presenta come un percorso di cinque testi il cui nucleo tematico è il rapporto fra la scrittura e ciò che ne rimane escluso. Le poesie sembrano mostrarsi come un’appendice di un tema che già era fortemente presente in Tersa morte, ovvero il tema della sfiducia verso la parola letteraria, la constatazione che essa, di fronte alla brutalità del morire, perde ogni efficacia e presa nei confronti del reale.
«Le parole hanno fatto il loro corso» è infatti il leitmotiv che, implicito e variato, ruota, aleggia per tutti i versi dell’ultimo libro mondadoriano di Benedetti; sempre nella stessa poesia egli scrive: «Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità / commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia». Con una significativa oscillazione fra la prima persona singolare e la terza del pronome possessivo, l’autore sostiene innanzitutto che non si può identificare ciò che ha vissuto con ciò è stato ascritto a suo nome; c’è uno iato fra la vita vivente e la vita scritta, fra l’uomo e il poeta. Secondariamente, ritorna in chiave critica su quanto ha scritto nei libri precedenti e segnatamente sullo stile di Umana gloria, a cui si riferisce con il sintagma «continuità commossa».
Era convinzione di Benedetti che la postura e lo stile di quel libro fossero assolutamente da rifiutarsi, frutto di un’illusionistica fiducia cieca nella capacità della scrittura di sedurre il lettore sulla possibilità di continuare dopo la morte, di prolungare, attraverso la scrittura, la vita vivente, grazie all’emozione che le poesie provocano in chi legge. Versi come «è stato un grande sogno vivere / e vero sempre», oppure «quando dici “erba” piango» sono rifiutati precisamente, come puerili e dannosi, in quanto sottendono un’ideologia letteraria che promuove una continuità consolatrice allorquando, al contrario, l’esperienza che viviamo sempre è quella della discontinuità, della irreparabilità della vita. In questo discrimine si gioca a mio vedere la questione dell’originalità e della radicalità del percorso autoriale di Benedetti, proprio rispetto ai tanti autori della sua generazione: la sua poesia si dimostrerà sempre fedele ad una parola che sia un tentativo di verità, provando sempre a stare nella frattura dolorosa, senza mai farsi consolatrice di anime afflitte.
Il frutto di questo rifiuto è stato, come si sa, prolifico; i due libri seguenti di Benedetti possono essere letti proprio come episodi di questa presa di coscienza: il primo, Pitture nere su carta, è il tentativo di distaccarsi da ogni emotività personale e cercare il più possibile nell’oggettività della storia e dei suoi detriti quel «rinnegato canto» a cui il poeta non crede più, ma di cui è necessario mantenere sempre presente la diplopia fra scrittura e vita ; Tersa morte è invece il tentativo di guardare con fermezza e lucidità alla morte della vita, limitando al massimo l’artificio espressionistico della retorica (ancora subdolamente in azione in Pitture nere), cercando nella secchezza del dettato, nella sua orizzontalità scabra, una possibile scrittura dell’esperienza discontinua della vita. Come si situano in questo percorso le cinque poesie di Questo inizio di noi?

3.
Fin dal primo componimento siamo di fronte non solo alla massima espressione del problema fra scrittura e vita, fra segno e realtà che la poesia di Mario Benedetti abbia saputo mostrare, ma anche al suo primo e chiaro tentativo di superamento. «Se le vite si ritraggono ognuna / nel suo continuare o nel suo rimembrarsi / avremo sempre le parole in posa»: sia la via del ricordo elegiaco, sia l’opzione di una parola poetica non consapevole del dramma fra vita e segno sono qui rifiutate, in quanto conducono sempre alle «parole in posa», ad una reiterazione meccanica della retorica linguistica, ovvero della continuità illusoria di cui dicevamo sopra. Le parole sono nella retorica meri «ornamenti dell’oscuro», nel senso che Carlo Michelstaedter attribuiva a questa espressione: apparenza assoluta, il cui contenuto non è altro che promulgare il deterministico istinto alla vita, tutt’altro da svelarlo.
Dopo questa dichiarazione programmatica, nella seconda terzina siamo di fronte ad un apertura verso un interlocutore. Già in Tersa morte il poeta scriveva «le parole non sono per chi non c’è più»; ma tutto il libro appare rivolto direttamente ai morti, intrattenendo con loro un impossibile quanto privato colloquio. Qui invece la poesia è destinata chiaramente a chi legge, anzi a chi sta leggendo: «Vedi, il libro ti è davanti, le frasi / mozze bene assottigliate sussumono / anni di giornate con le loro ore». Quasi in chiave didattica, Benedetti cerca di far sì che il lettore si renda conto delle operazioni concrete che si attuano nella lettura; cerca di rendere consapevole chi legge dell’operazioni della macchina alfabetica, la quale è in grado di sussumere – impropriamente, ma è proprio questo il suo lavoro – «anni di giornate con le loro ore», nei versi che sono «ben assottigliati», in quanto frutto delle operazione del poeta. La peculiarità algoritmica della scrittura alfabetica è qui messa in mostra e non lasciata implicita, nascosta nella pieghe della scrittura: il lettore è chiamato fin da subito a percepire il dislivello contenutistico che le parole portano con sé, a profanare l’illusione retorica, a non vivere ingenuamente ciò che lì sta accadendo, a non dimenticare che tante ore, tanti anni, tanti attimi della realtà sono lasciati fuori dalla scrittura, per sempre perduti e mai recuperabili.
Questo invito all’attenzione trova un parallelo ancora una volta in Tersa morte, al termine della sezione che reca il titolo Idiot Boy. In questa parte di testo, prende vita un alter ego dello scrittore, un ennesimo sosia di questo libro, il cui nome è Marco e di cui si raccontano ellitticamente alcuni momenti della vita. La sezione termina con una poesia insolita, dal titolo Fiaba, in cui la scrittura, in misura maggiore delle precedenti, si perde in un’evocazione di rara bellezza e dolcezza, del tutto fuori chiave nel tono scabro e severo del libro.
Ma la poesia che segue, nella nuova sezione, dal titolo Nella grotta del bosco Làndri, cambia bruscamente tono, riportando il lettore al nocciolo tematico, con un effetto di shock che è uno dei punti più alti di strutturazione del libro: «Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti». Queste parole suonano come se il poeta le dicesse innanzitutto a se stesso e, retrospettivamente, incolpasse la scrittura che ha praticato nella sezione precedente.
Nel passo invece della poesia proemiale di Questo inizio di noi, l’appello all’attenzione è direttamente rivolto al lettore e la distrazione è fin dall’inizio bandita: leggere poesie è sapere esattamente quanta realtà rimane esclusa dai versi, percepirne la mancanza immedicabile e al contempo essere coscienti del lavoro che il poeta ha compiuto sulla propria esperienza perché quei versi siano leggibili.
Il verso che segue è nuovamente all’imperativo e giunge con violenza: «Getta quel libro, è odore della carta». Il libro appena preso nelle mani, quel libro di cui stiamo imparando il funzionamento, attraverso cui stiamo prendendo coscienza dei processi della macchina alfabetica, quel libro deve essere gettato via, perché non è altro che «odore della carta». Questo verso è esattamente a metà del componimento e spacca in due momenti distinti la poesia. Perché ci viene ingiunto di gettare il libro? La poesia nega se stessa, eppure si apre, si smaschera, ma fiorisce e chiede che il lettore non stia sul libro, dentro le sue trappole, dentro la realtà rettorica, ma fuoriesca e vada a caccia del mondo che sta tutto fuori e sempre al di là delle pagine di un libro: eppure tutto ciò è scritto. Questo verso all’apparenza così nichilistico e contraddittorio sembra essere al contrario il tentativo di tracciare un nuovo limite nella poetica di Benedetti. Oltre il depotenziamento della lingua poetica, oltre l’assunto per cui «futilmente presente è la parola», sembra aprirsi un rinnovato spazio energico, una fessura per un’azione che per ora è semplicemente liberatoria; un gettare, uno stracciare, che è già oltre la atona ammissione di sconfitta e ben oltre la paradossale afasia su cui Pitture nere e Tersa morte indugiavano così impietosamente. Significativo poi che tale imperativo si rivolga direttamente al lettore: al lettore si chiede un percorso preciso, che dal libro, vada oltre il libro, ma non prescinda dal libro. Quello che Benedetti sta affermando non è l’inutilità della letteratura tout court, ma la futilità di un’esperienza letteraria che si arresti alla sola fruizione retorica del testo o che, al contrario, si perda in mondi immaginari al di là della parola. Invece è ribadita la necessità di un’espressione che sempre sia rivolta al concreto interlocutore e che lo ingaggi in una dialettica fra il testo, il suo funzionamento e la realtà che non entra nel testo, ma di cui si invita – lo vedremo fra poco – a comprenderne la dimensioni.
Gettare il libro, abbandonare la cultura; lo abbiamo già letto, la cultura occidentale ha già consumato questo indicibile tedio e già gli siamo sfuggiti cento e cento volte, per andare via, fuggire: sì, ma dove? Per saggiare la distanza di questa impostazione da una poetica decadente, da cui pur innegabilmente proviene, si faccia un confronto con il celeberrimo attacco di Brise marine di Stéphane Mallarmé: «La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres. / Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres / D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!».
Mallarmé propone la fuga verso l’ebrezza onirica degli uccelli, poiché è rimasto tradito dalla noia dei libri e dei piaceri carnali. Nella poesia di Benedetti invece al lettore è chiesto di gettare il libro non perché ci sia da qualche parte una vita che sarebbe ebbra, superiore e che sempre «lève l’ancre pour une exotique nature». L’imperativo «Getta quel libro» accoglie il lettore, lo sprona, lo coinvolge: dice qualcosa che riguarda tanto il lettore quanto lo scrittore. È tutt’altro dall’ingiunzione presente nella terza edizione de I fiori del male di Baudelaire, la quale invece mira a escludere dal libro il lettore che non ha appreso la retorica «chez Satan»: «Lecteur paisible et bucolique, / Sobre et näif homme de bien, / Jette ce livre saturnien, / Orgiaque et mélancolique». Come del resto è diverso ancora da quanto André Gide dice a Nathanaël, fittizio interlocutore, vivo solo in quanto maschera di un processo educativo verso i «nutrimenti terrestri», infine scacciato quando l’estasi creativa tutta solitaria ha ormai terminato il proprio arco: «Nathanaël, à présent, jette mon livre. Émancipe-t’en. Quitte-moi. Quitte-moi; maintenant tu m’importunes; tu me retiens; l’amour que je me suis surfait pour toi m’occupe trop. Je suis las de feindre d’éduquer quelqu’un».
L’imperativo nella poesia di Benedetti ha una funzione di vettore energico: ci dice sì di leggere, ma non ignorando ciò che è lo scarto residuale della lettura; ci invita a percepire tutta la potenziale riduzione che la poesia compie a partire dall’esperienza reale e di rimanere pronti sempre a tornare nella vita che non trova segno; ma ci dice anche che questo percorso è da fare insieme, insieme ogni volta che prendiamo in mano un libro, chiunque noi siamo. Questo è forse il più grande realismo che la parola poetica possa permettersi, ovvero di essere medium di un ritorno non ingenuo e lucido al mondo, veicolo concretissimo che conduca alla percezione del taglio che ogni azione, perché possa mettersi all’opera, compie sul vasto e indifferenziato regno del reale, al fine di tornarvi con una maggiore consapevolezza di ciò che le nostre pratiche concretamente fanno. Proprio perciò, i versi successivi all’ingiunzione di gettare il libro sono dentro il libro: non propongono una fuga, non escludono nessuno, né sono ironici; ci dicono che il mondo, una volta letto, è conosciuto attraverso la lettura, piegato e ripiegato nelle pieghe delle pagine.

4.
La seconda parte della poesia (dal v. 8 in poi) è sicuramente più enigmatica e complessa della prima. È struggente, per chi scrive, dover proporre un’interpretazione che non può, come è accaduto spesso, essere verificata, discussa, contraddetta da chi figura esserne l’autore.
Quale può esserne l’interpretazione? Qual è la realtà del testo poetico? Quale realtà descrive? Come stare dentro questa imposta assenza di dialogo che al contempo impone che un dialogo vi sia? Il testo poetico è questa interrogazione ininterrotta, questo abisso che sprofonda nella domanda la cui risposta giace un metro più là del buio dove, pallida, sempre più pallida, traluce Euridice. Il testo poetico impone un dialogo, un dialogo nel vuoto assoluto, tanto teso da farsi superficie specchiata del lettore stesso: ogni poesia esige che il lettore (e quindi chi scrive qui, per primo) cerchi una verifica, frughi nelle sue conoscenze come nella sua esperienza culturale e umana, infine individui cosa e come nella sua realtà viva si trovi una corrispondenza fra lo scritto e il vissuto, fra i segni d’inchiostro gettati sulla pagina e il respiro che lo anima leggendo. Il testo rimanda inesorabilmente ad una voce che fu viva, che visse, e che ora – «incerta, mite e senza impazienza» – tace, mentre affonda nella «prodigiosa miniera delle anime» per farsi «radice» di infinite interpretazioni e infine specchio di mille autobiografie. Mario Benedetti, nella sua persona che non risponde, che ora non può rispondere, incarna ormai l’enigma vivente della scrittura poetica, l’eccedenza del segno da ogni segno, la buia cavità che si intride di tutte le domande, le parole, le ansie, le interrogazioni che non troveranno risposta e che pur traluce dell’umida acqua che dentro vi scorre segreta, serena; anche questa è la realtà del poema: questo ritrarsi dalla vita, pur restando dentro una vita che ormai si piega e si ripiega, totalmente affidata alle altre vite.
I versi successivi propongono infatti, attraverso un ellittico salto temporale, un passaggio narrativo, una riflessione sugli effetti della macchina alfabetica e contemporaneamente un tragico affondo biografico che ognuno di noi è invitato a fare proprio. Dopo l’ingiunzione perentoria, dopo il comandamento, siamo proiettati dentro la vicenda di un bambino che legge e di una madre; egli, dentro la lettura, inizia a ripiegare e ad aprire il proprio mondo come fosse un libro, inizia a cercare nel mondo il libro e a vedere il mondo attraverso le figure d’inchiostro. La letteratura ci permette di andare indietro nel tempo e in avanti, di rievocare aree espulse della nostra soggettività e di ritornare a vederle, continuare ad abitarle emotivamente e di porgerle all’azione altrui. Davanti a quel bambino, ci viene detto, c’è «la madre giovane»: ecco l’effetto della parola, la sua efficienza suprema, il suo lavoro. La parola, nel momento in cui si fa algoritmo del mondo, riproduce la presenza di ciò che non è, riporta in vita e fa agire un’assenza. Ma subito dopo paradossalmente ci viene detto che «il bambino la vedeva una morta / ma anche non era una morta».
Com’è possibile? Cosa significa questa strana situazione antifrastica?
Essa è viva in quanto rievocata qui dalla macchina alfabetica; è viva non solo perché la lingua può ingannare e sedurci e può quindi riportarci nelle condizioni che non sono più: è viva perché siamo noi che la riportiamo in vita. Noi lettori – anzi io adesso mentre la leggo e mentre sto scrivendo queste righe – in quanto viventi, consentiamo con la nostra energia alla riattivazione di questa vita che non è più, la trasferiamo altrove, ci offriamo come veicolo di questo trasferimento.
Eppure, proprio a causa del prodigio della lingua, di questo «grande dominatore» (Gorgia), la madre non può essere detta che morta e non morta insieme: presente in noi e al contempo assente, affidata alla nostra vitalità perché ritorni e contemporaneamente abbandonata per sempre e morta nella sua vicenda storica.
La grandezza di questa poesia di Benedetti è che riesce a stare pienamente nel dramma, nella divisione e nello spacco che la parola comporta. Non solo enuncia il problema, ma vi consente: si immerge nel ricordo e vi consuma un frammento rischioso di biografia. Anche questa è la realtà della poesia: un testo dov’è in gioco lucidità e consentimento, partecipazione e distanza, immersione nella vita che sentiamo più vera e al contempo esercizio consapevole dell’artificio.
La scomparsa della madre di Mario Benedetti è al centro dell’opera Tersa morte; dirla qui ancora viva, sentirla viva, acconsentire a questa suggestione e poi raggelarsi nella consapevolezza che non lo è più e di tutto questo farne un canto: questa esperienza è ciò che noi siamo indotti ad incarnare nuovamente, a nostro rischio e pericolo.
Se non leggiamo così questo testo, se non prestiamo il nostro vivere a questa voce che risuona in noi, non stiamo leggendo una poesia: stiamo facendo altro, stiamo facendo del testo un uso diverso, legittimo certo, ma irresponsabile nei confronti dell’impulso originario da cui proviene. Forse è questo quanto possiamo cogliere dalle parole di Paul Valery: «C’est l’exécution du poème qui est le poème […] Les oeuvres de l’esprit, poèmes ou autres, ne se rapportent qu’à ce qui fait naître ce qui les fit naître elles-mêmes, et absolument à rien d’autre».
La realtà della poesia non è quella della cronaca, non è quella della prosa: essa non ci dice di guardare la realtà nell’illusione che essa sia lì, oggettiva, fuori di noi, né ci dice che essa è tiepidamente relativa ai tanti punti di vista, debolmente assegnata all’ipotesi di una pluralità a venire di frammenti, come se questi frammenti non ci riguardassero; neanche ci dice di immergerci nella finzione e di consentirvi in uno spazio di pura fiction perdurante, dove è sospesa e smemorata ogni nostra presenza corporea. Essa ci dice che la realtà è un plesso simbolico in cui la nostra vita, la nostra gioia e il nostro dolore, sono in gioco tutt’altro che ingenuamente e ogni volta in cui la mettiamo all’opera; ci dice che se non prestiamo il nostro veicolo corporeo nella coscienza di questa esecuzione, stiamo semplicemente aggirando il problema e tradendo l’istanza fondativa del testo poetico, la sua crudeltà che impone di essere partecipi, del dramma e nel dramma di ogni segno.

5.
Il mondo, anche se ridotto a «quell’angolo di muro», è aperto e ripiegato dalla scrittura, pervaso dall’algoritmo che dobbiamo reincarnare.
Chi scrive è nell’attesa, abbacinato e stordito per quanto «da sogno a sogno / le figure quasi si raccolgano»; lo scrittore sa che parla rievocando ciò che non è venuto da lui, ciò di cui lui è soltanto un filtro, un veicolo. Eppure non è soltanto preso dalla nostalgia, dalla malinconia a cui questa condizione sempre postuma lo ascrive. Sa bene che la condizione è quella di «cadere fuori pagina, mentre un’altra penna / guarda». Si cade fuori dalla pagina, ogni cosa che si scrive omette e abolisce ciò che stiamo vivendo e infine ci esclude; eppure il poeta si scopre nella prospettiva che un’altra voce, un’altra penna sia pronta a guardare, a continuare quanto qui si è inaugurato. La realtà che la poesia descrive è sempre a venire, promessa e avvento insieme. Gli ultimi versi dell’ultimo componimento di Questo inizio di noi oscillano fra la malinconia del trapasso e il flebile presagio di una presenza: «Una sola voce lontana…, / quando sarò non presente a me… / Solo offuscati, e piano piano andarcene».
Nell’interpretazione di questa «sola voce lontana» che questi struggenti versi ci invitano ad ascoltare sta forse il segreto di queste ultime poesie di Benedetti. È possibile un’interpretazione luttuosa, che indichi in quel sintagma la presenza di un lento morire, un’eco a ritroso che piano piano si spegne, come l’immagine di Euridice che già evocammo. Questa lettura troverebbe il sostegno di una concordanza con quanto è scritto nell’ultima poesia di Tersa morte: «Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».
Oppure, forse, un’altra lettura è possibile, che non escluda la prima, ma la comprenda in un luce più larga; una lettura che dia ragione del titolo di questa sequenza di cinque testi e che mostri un avanzamento della poetica di Benedetti in una direzione implicitamente richiamata dalle poesie precedenti, ma certo sì, ancora embrionale, incerta e forse destinata al rifiuto. Di chi è questa voce? È una voce dal futuro: è un ricordo al futuro? Chi è quel soggetto capace di porsi nella dimensione del suo ascolto? È come se Benedetti consegnasse ogni sua cosa alla possibilità di questa eco, come un suono che va, nella lontananza, e si affida a null’altro che a Questo inizio di noi. Come se ogni scrittura, e infine ogni vita, non possa che affidarsi ad un inizio che le è estraneo, fuori fuoco, offuscato, privo di individualità; ma a cui non può che cedere, andandosene piano piano, ogni cosa che ha avuto, nell’attimo in cui ne percepisce il bisbiglio. La realtà della poesia forse non è altro da questa promessa e da questa etica dell’ascolto che ambisce ad un «noi», una comunità inconfessabile fra vivi e morti, fra presenti, passati, futuri; tale che accada non già in una presunta e superba futura oggettività, ma dentro ognuno, quando è precisamente preso nel proprio tramonto, nella percezione del proprio cedere e recedere da se stesso, verso il trasferimento nell’altro di tutto ciò che ha e che è: «Cose fuori pagina, che si vivono e basta».

da Questo inizio di noi

Se le vite si ritraggono ognuna
nel suo continuare o nel rimembrarsi
avremo sempre le parole in posa.
Vedi, il libro ti è davanti, le frasi
mozze bene assottigliate sussumono
anni di giornate con le loro ore.
Getta quel libro, è odore della carta:
e il bimbo apriva e ripiegava, apriva
e ripiegava l’odore d’inchiostro
e delle figure: la madre giovane
ma il bambino la vedeva una morta
ma anche non era una morta, davanti
quell’angolo di muro che si apriva
e ripiegava, apriva e ripiegava.

Dedica

Allora, il tempo della vita dopo. Allora.
Eri lì o una di queste sere. Ma ci vuole affetto
per parlare, dell’affetto per scrivere.
Cose fuori pagina, che si vivono e basta.
Pensieri. E comunque, stai bene? hai
studiato? Come passano gli anni,
vedi, come passano gli anni,
e i tuoi sono ancora pochi. E il volere
che non si parli più, non si scriva più
per andare a capo. Una sola voce lontana…,
quando sarò non presente a me…
Solo offuscati… e piano piano andarcene.

Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955. Ha trascorso i suoi primi venti anni a Nimis (UD). Si è poi trasferito a Padova, dove si è laureato in Lettere con una tesi sull’opera di Carlo Michelstaedter.
Dal 1994 vive a Milano. Le opere più recenti sono: Umana gloria (Mondadori, Milano 2004), Pitture nere su carta (Mondadori 2008), Materiali di un’identità (Transeuropa, Massa 2010), Tersa morte (Mondadori 2013). È presente in varie antologie tra cui Poeti taliani del Secondo Novecento (Mondadori 2004).

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