Fotografia di Daniele Maurizi

 

Sin dagli esordi quella di Massimo Gezzi si caratterizza come una voce limpida che dimostra di aver assorbito e metabolizzato compiutamente la lezione novecentesca.
Ne Il mare a destra (Atelier 2004) il punto di riferimento è l’Adriatico che corre lungo la linea ferroviaria alla destra dell’osservatore in viaggio verso la Bologna universitaria. Città e altri elementi paesaggistici oscillano mutevoli tra una consistenza vacua e materica, ed è l’esperienza del soggetto a fungere da tramite con il mondo esterno. Le immagini finiscono per deformarsi, trasformandosi in suoni che si addensano entro i labili contorni di un tempo frammentato e sospeso, ma è il controllo della scrittura a ricucire gli strappi, soprattutto nel successivo lavoro L’attimo dopo (Sossella 2009), in cui la fluidità piana della versificazione consente al poeta di articolare il pensiero nella formulazione di riflessioni esistenziali insieme intense e sommesse. In continuità con la prima raccolta, la ripresa di sequenze narrative e descrittive appare perciò fondamentale per ricostruire una geografia interiore di ambienti e situazioni di riferimento: a tal proposito Fabio Pusterla (L’attimo dopo. Poesie, in «Lo straniero», 119, maggio 2010) ed Elio Grasso (in «Poesia», 250, giugno 2010) non sono i soli a sottolineare l’attenzione leopardiana agli spazi esterni e il rimando all’oggetto montaliano. Pusterla rileva anche la centralità del riferimento a Marco Polo in una lirica che non a caso richiama a Le città invisibili di Calvino.
Ne L’attimo dopo Gezzi ritrova la sua terra e, frontalmente, il suo mare, prima di avviarsi ancora in direzione nord, stavolta con destinazione Svizzera. Infatti secondo Massimo Raffaeli il poeta «dà conto di una condizione di deriva così reiterata da apparire oramai naturale e persino fatale. In effetti, c’è nella sua poesia una fissità di sguardo, anzi un equilibrio percettivo paradossalmente contraddetto dal continuo mutare dei fondali geografici e delle condizioni esistenziali» (Massimo Gezzi, versi scanditi esatti nel grigio, in «Alias – il manifesto», 22 maggio 2010). Raffaeli parla inoltre di un grigiore tipicamente sereniano. A ciò si aggiunga che, se la prima parte della raccolta è caratterizzata in prevalenza dall’assertività, nella seconda non sono rare domande di senso «in un vagabondaggio incessante di luoghi», i quali, secondo le parole di Linnio Accorroni, risultano «illuminati da una sorta di felicità prospettica» («La poesia e lo spirito», 24 giugno 2010). Presente peraltro il confronto fortiniano con una storia che si manifesta tra minimi eventi privati: «Questo minimo orizzonte / di cose quotidiane» (Sul molo di Civitanova) ricorda proprio un’elegia di Fortini (Di Porto Civitanova, in Foglio di via), non a caso attraversata, come nota Luca Lenzini, da «echi montaliani» e dalla «memoria di Leopardi» (introduzione a Tutte le poesie, Mondadori 2018), in «una dinamica di spaesamento, di sradicamento, di disorientamento culturale», per usare nuovamente le parole di Accorroni. A proposito di memoria, dunque, Marco Giovenale riporta nuovamente il discorso sul piano temporale: «Libro che definisce una linea testuale legata al sentimento del tempo, sì, ma soprattutto all’impermanenza, allo sfaldarsi-riattestarsi delle esistenze» dove «il peso – fenomenologico – che la coscienza avverte, patisce e accerta, è quello delle cose, delle costrizioni, delle mancanze da cui pure nasce azione, una necessità» (Recensione a Massimo Gezzi, “L’attimo dopo”, in «slowforward», 5 novembre 2010).
La consapevolezza di Gezzi riguardo a un tempo che tra assenze e presenze disanima e rianima la sua ciclica ripetitività corrisponde, nell’infinitamente piccolo degli atomi lucreziani, alla facoltà di cogliere una sfumatura, un passaggio, talora un altrove.

 

da Il mare a destra (Atelier 2004)

 

C’è troppa notte quando
il treno delle dodici e quaranta
trascina i suoi bagliori sulla sabbia marchigiana,
e Fano e Senigallia si illuminano
appena, come per la lama
di chiaro di una torcia: lontano
le petroliere coltivano un brandello
di luce, più netta di quella
dei corridoi delle carrozze –
noi scivoliamo nel sonno sordomuti,
nella semioscurità siamo
sagome di cose.

 

*

un fischio, un segno di riconoscimento

(Eugenio Montale)

 

Non so se la tua voce sia già estinta,
fra i muri intricati che il nostro
consueto labirinto di giorni
cuce intorno: so solo che mi resta
come un suono familiare, l’identico
rumore del portone di casa aperto
dopo mesi passati lontano.
Ma il tempo ormai si è rappreso
in una sfera, lacerata da crepe
più lunghe di noi, e non è
la trama dei tuoi capelli quel rivolo
di ombre: è l’ombra
della mia mano che la distanza
ha reso enorme.

  

da L’attimo dopo (Sossella 2009)

 

Sul molo di Civitanova

La propaggine del molo finisce
con cubi di cemento ammassati
e sconnessi. Camminarci viene male,
bisogna proseguire per oblique
pedane, attenti a mantenersi
in equilibrio ad ogni salto –
dietro il mare cerchia
tre punti cardinali di un azzurro
abbagliante, più lucido del cielo
bucato dalle nubi – siamo ancora quelli
che camminano a fianco, attenti a capire
quali esche si impiegano
per prendere le mormore, quali per i gronchi,
che appena rovesciati nei secchi
si contorcono – questa estremità
non smette di insegnarci a guardare
sempre meglio: un giorno la maretta
intorbida le acque, il giorno dopo
riesci a indovinare il cormorano
mentre caccia e si appuntisce,
sfrecciando sotto il pelo.
Non è mai finita, penso mentre guardo
i tuoi capelli rovistati dal grecale:
finché non muore tutto
c’è speranza di risolverlo il dilemma
che mette il segno uguale tra vita
e non vita, in quest’angolo di porto occidentale
che ogni volta è se stesso ma insieme
è anche altrove, e per caso non coincide
con il luogo dove gli uomini vendono
tutto per fame, e i bambini si divertono
a scavare le macerie – ci è dato questo spazio,
questo minimo orizzonte
di cose quotidiane: il lavoro,
la visita agli amici che diventano
più seri e fanno figli, la fede
nel frenetico farsi delle foglie
appena apparse – non credere in noi
sarebbe il crimine maggiore,
mi dico mentre godo il primo sole
sugli occhi: come perdonarsi
dell’altro è il rovello
che il rauco saluto del mare non calma.


Rendere ragione

Quello che girandoti di scatto, senza alcuna intenzione,
un attimo fa è sparito dall’angolo della finestra,
volto, mano, coda di gazza oppure nulla
di reale, ombra di pensiero evaporata dalla vista,
che se corri e ti affacci non vedi
mai più, persa, volatilizzata, andata in frantumi
di memoria: quello è quanto posso in questi versi
riconoscere e scriverti, sapendo
che è poco, che ci vuole altra forza e altra
investitura per non credere ai miraggi
e per dirigere la storia.
Componile tu quelle formule di boria:
all’angolo del vetro poco fa
c’era qualcosa.


Insonnia

Una notte spesa male è poca cosa:
se la guardi in filigrana è solo un punto
tra tanti, e un punto
perde di consistenza sullo sfondo
del tempo. Perciò sarebbe bello
ingoiare una pastiglia per spezzare
la stanchezza del lavoro e stare
fissi sul terrazzo a dividere il vento,
che sbatte le persiane non fermate
della casa dirimpetto –
e sbirciandoci attraverso contemplare
l’equilibrio di quiete della sala,
le spie degli standby che bruciano
il buio – ma capire specialmente
cosa dice una rondine
che passa e garrisce alle tre
del mattino: che fine del mondo
c’è in quel grido, e l’attimo dopo
che silenzio.

 

Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare, 1976) vive a Lugano, dove insegna italiano presso il Liceo 1. Ha pubblicato, ricevendo diversi premi, le raccolte Il mare a destra (Atelier 2004), L’attimo dopo (Sossella 2009), Il numero dei vivi (Donzelli 2015), Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta (Casagrande 2016) e la plaquette trilingue In altre forme/En d’autres formes/In andere Formen (Transeuropa 2011). Ha curato edizioni per Pacini, Mondadori, Marcos y Marcos e in Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod 2015) ha raccolto dieci anni di interviste. Coordina il sito letterario «Le parole e le cose 2».

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